Capitolo 10 - I am whatever you say I am, almond
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╚»★ 5 novembre 2001 ★«╝
Kon Artis fissò prima il mixer portatile, poi il monitor di fianco, pensando a come poter migliorare la base. Era la terza volta che ci lavorava e non sapeva qualche chiave fosse adatta a quel sample, e Kuniva non era stato di grande aiuto. Mescolare R&B con l'hip-hop vecchio stile era troppo per loro e quel sottogenere apparteneva solo a Biggie. Avevano provato con un sample in armonica a bocca, riciclarlo sarebbe stato stupido.
Proof scriveva sul suo quaderno dalla copertina azzurra e un cagnolino stampato sopra, lo avrebbe usato per i prossimi progetti – almeno fin quando avrebbe finito le pagine e lui recentemente ne riempiva quattro al giorno. Meglio non disturbarlo. Kuniva ascoltava l'ultimo album di Ice Cube dal suo lettore CD portatile, sdraiato sul divano dietro la stanza insonorizzata dello studio mimando il ritmo con gli indici.
«Ti suggerisco di restare con la stessa chiave del sample originale, così non la stravolgi troppo.»
«Grazie, Biz» gli rivolse un sorriso e modificò qualche chiave melodica, l'atmosfera cambiò e diventò più cupa. Una base degna di un film. «In effetti così suona meglio.»
Swifty alzò finalmente la testa, chiudendo il suo libro di Russell Simmons – era già arrivato a metà lettura e non accadeva dai tempi de Il Ritratto di Dorian Gray al liceo. «Qualcuno di voi ha notizie di Shady? Non l'ho più sentito da quando è partito per Los Angeles.»
«Non ne ho idea, non me l'ha voluto dire» rispose Proof, facendo un tiro di canna e poggiando la penna sul quaderno. Di solito lui era più informato, ma a quanto pareva la cosa doveva essere piuttosto grave per non dire nulla nemmeno al suo migliore amico. «Però so che stanotte è partito dall'aeroporto, non so a che ora dovrebbe atterrare.»
«Tornerà direttamente a casa da solo?»
«Sicuramente, ma prima passerà al Saint Andrew's Hall.»
«Non a portare rogne, spero.»
«Solo per salutare qualche vecchio amico. Ci va per sentirsi meno solo, stai pur certo che non lascerà mai quel palco.»
Kon Artis non aggiunse altro e tornò a lavorare sul beat. L'unica cosa che aveva saputo di Marshall, oltre alla fidanzata dell'altra sezione, era che avesse avuto pochissimi amici. Pochi, ma fedeli. Lui era arrivato qualche anno dopo e avevano instaurato un bellissimo rapporto, ma non abbastanza profondo rispetto a quello che aveva con Proof – tuttavia aveva ottenuto il suo rispetto e del resto della comitiva, questo era l'importante. A prima vista sembrava asociale, ma se lo si imparava a conoscere, lo si prendeva subito in simpatia.
In passato lo avevano soprannominato Rabbit, perché era veloce e scopava un sacco. A vederlo non sembrava, eppure era così; quell'uomo aveva figa come se piovesse e quando faceva freestyle allo Shelter, tutte gli morivano dietro. Una cosa che aveva sempre invidiato di lui – bianco come un cadavere, ma acchiappa donne seriale. Aveva dato il cuore ad una sola donna, nonostante la collera dopo la mescalina, una doppia dose di Valium o altra roba.
«Hey, fai sentire quel beat.» Proof lo riportò alla realtà e senza perdere tempo, alzò il volume dal mixer. A ritmo col sintetizzatore, il giovane iniziò a canticchiare i versi che aveva scritto sul quaderno, trovando la giusta sincronizzazione. Le parole si sposavano alla perfezione con quella base. Gli piacque tantissimo. – «Tienila così, al resto ci penserò io.»
Kon Artis non parve tanto convinto. «Sicuro vada bene? Anche il sintetizzatore?»
Lui annuì sicuro, appuntandosi altre rime da aggiungere alla traccia.
«La bimba come sta?» domandò Bizarre, riferendosi a Junko, mentre rollava una canna.
«Sta bene, fa qualche straordinario per aiutarmi con l'affitto» rispose il giovane con un lieve sorriso, rilassando le spalle sullo schienale della sedia girevole su cui stava seduto. «Mi spiace farla lavorare così tanto, soprattutto coi problemi di asma che ha.»
Si vedeva come Proof si prendeva cura di quella ragazza, più di quanto avesse fatto per gli altri. Era chiaro che c'era qualcosa sotto, altrimenti non si spiegava quel sorrisetto quando qualcuno faceva il suo nome. Che ci fosse qualcosa di più profondo? Impossibile.
Il loro era più un rapporto fra fratello maggiore e sorella minore, né più né meno. Quel ragazzo era più sciupafemmine di Marshall e non cercava storie d'amore alla Romeo e Giulietta, ma solo di una notte. Junko, poi, non era una ragazza che si concedeva facilmente; gli era bastato guardarla per capirlo. La sua postura era sempre rigida e chiusa, lo sguardo basso e sempre rivolto altrove.
«Sentite, ragazzi, stasera non potrò portarla al Temple Bar come le avevo promesso, perciò l'accompagnerete voi.» Guardò sia Kon Artis che Swifty, più serio che mai. «Dopo una settimana di straordinari offrirle da bere mi sembra il minimo.»
Il Temple, il posto ideale per portarci una ragazzina. Era anche vero che tanti civili passavano lì, specialmente il fine settimana, ma solo chi viveva Detroit sulla propria pelle sapeva cosa si celasse fra quei marciapiedi. Per non parlare dei bambini che camminavano soli in mezzo alla strada, fra le sterpaglie e gli arbusti di quei quartieri fantasma. Lei cosa poteva saperne? Era completamente ignara di ciò che stava succedendo alla capitale della Motown.
«Perché proprio noi due?» domandò il primo, perplesso a dir poco.
«Siete le persone più vicine a lei e non mi va di lasciarla sola a casa, perciò voglio che le facciate compagnia mentre concludo i miei affari.» Si alzò dalla sedia e recuperò la sua giacca verde militare, intascandosi le sigarette e l'accendino. «State solo attenti al giro di droga, in quel club c'è spesso lo zampino dei Mobs.»
Prima di uscire, guardò il gruppo. Nessuno di loro era entusiasta all'idea di portare Junko laggiù, ma sapeva di potersi fidare di loro. «Se volete, invitate anche Doody. Gli farà piacere stare con voi dopo il viaggio da Los Angeles.»
Dopo che la porta si era chiusa con un tonfo sordo, Kuniva non riuscì ad evitare una smorfia di disappunto. Slim Shady era l'ultima persona che avrebbero potuto invitare, conoscendo il suo bipolarismo. Ma comunque non gli sarebbe piaciuto granché; lui preferiva stare per fatti propri a scrivere rime o a fare una maratona dei film di Star Wars. La sua compagnia era gradevole, tranne quando nascondeva una CZ 75 sotto la felpa. Avrebbe potuto fare da scudo alla ragazza, anche se avesse detto di no, o guidare all'andata e al ritorno per evitare che qualche sbirro li fermasse per strada.
«Questa volta passo» esordì subito Bizarre, dopo aver fatto un tiro di canna. A lui bastava poco per sballarsi. «Voglio passare la serata tranquillo, perciò non contate su di me.»
«Verrò io con voi, se questo basterà a farvi stare tranquilli» soggiunse Kuniva, alzandosi dalla poltrona di pelle.
«Ma Deshaun ha detto che—»
Tappò immediatamente la bocca a Kon Artis, assottigliando le palpebre. «Non dire a Marshall che andiamo lì, sarebbe capace di scatenare qualche rissa e l'ultima cosa che voglio è finire in galera.» Lui annuì e lo lasciò andare, calmandosi di conseguenza. «Finiamo questo pezzo, a proposito. Fammelo risentire.»
Guardando il gruppo teso, Swifty non poté far altro che chinare il capo e tornare a leggere il suo libro. Marshall non era un animale da festa, specialmente quando beveva o esagerava con i tranquillanti, e lui sapeva bene come finiva di solito quel genere di situazioni. Di come lui le faceva finire. Aveva già dei precedenti e adesso che la sua notorietà si era ingigantita, la cosa avrebbe potuto macchiarlo a livello mediatico. Perché, in effetti, non riusciva a impedirsi di prendere a botte quei deficienti che lo provocavano.
Con Junko nei paraggi, poi, avrebbe potuto fare di peggio.
Marshall scese finalmente dalla macchina, la valigia e la bottiglia di birra in mano. Il Mobile Home Park era rimasto uguale, non erano cambiati neanche gli inquilini di quelle stradine rotte e puzzolenti di spazzatura. E sicuramente non sarebbe cambiata neanche nel giro di vent'anni.
«Grazie per il passaggio, bro.»
«Figurati, ma che rimanga fra noi. Non voglio scatenare di nuovo la furia di Dirty Harry.»
«Sarò una tomba, promesso.» Si scambiò un saluto fraterno col misterioso accompagnatore e lasciò che la sua Porche dei poveri facesse il giro della strada per tornare sulla 8 Mile Road.
Girata la chiave, Em entrò in casa e gettata la valigia nell'angolino, inspirò profondamente. Aveva trascorso sette mesi a Los Angeles con Dr. Dre e aveva sentito nostalgia di quell'ambiente degradato, la puzza di fogna e di fumo. Più di tutto, la presenza di Doody. Non lo aveva sentito spesso, nemmeno la ragazzina che viveva con lui.
Quel buco era rimasto uguale, fatta eccezione per il quadro fra le finestre sbarrate dietro il divano: Proof aveva appeso il primissimo disco d'oro a nome dei Dirty Dozen, un traguardo di cui andava orgoglioso. Era cominciato tutto da un trio di liceali nati e cresciuti nel Dresden, in una strada lunga e piena di vilette abbandonate e decadenti circondati dal verde. Un quartiere apparentemente vispo, ma che nascondeva mille segreti e che loro avevano visto. Nessuno si fidava di nessuno, bisognava dormire con un fucile sotto il cuscino per sopravvivere.
Ogni tanto gli capitava di passare davanti il 19946 prima di andare e tornare a casa, riguardare quell'ammasso di legno che un tempo aveva chiamato "casa", con una facciata in betulla e una doppia porta in ferro battuto – alla faccia della fiducia del vicinato! – e senza una pianta a farle da cornice. Il nuovo proprietario era più sociopatico di lui. Ottimo.
Le cose non erano cambiate in dieci anni, e probabilmente sarebbero peggiorate nel tempo. Se già nel Dresden le case abbandonate lungo la strada facevano a malapena reggersi in piedi, l'erba secca intorno e le finestre rotte, si poteva solo immaginare ciò che sarebbe potuto avvenire in seguito, se quel regime spremi-denaro avesse continuato a dominare la città. Non era il caso di preoccuparsene, anche perché quell'angolo d'asfalto e legno non avrebbe potuto fare più schifo. Come la sua esistenza.
Dici di essere un fallimento, ed è ciò che sei. Non sei originale, ecco perché non hai sfondato.
Un fallimento... non sei originale... non hai sfondato...
Un giramento di testa lo fece barcollare. Raggiunse il bagno e trattenne il respiro, levandosi il capellino da baseball dalla testa e passandosi freneticamente le mani fra la ricrescita dei suoi capelli biondi tinti, si guardò allo specchio. Il suo corpo era fin troppo teso, in viso aveva le occhiaie ed era più pallido del normale. Pareva un cadavere vivente. Aveva già preso la sua dose quotidiana di farmaci, ma prima di sera ne avrebbe presi altri. Non riusciva a credere che quella stronza fosse riuscita a rifarsi una vita senza di lui, che fosse felice. Non riusciva a scacciare il dolore in altri modi se non con una pillola. All'inizio ci era quasi riuscito, il suo metabolismo invece lo aveva fatto sopravvivere. Perché non voleva morire con lui?
Voleva smettere di soffrire per mano di una donna, una persona che aveva creduto sua amica e che lo aveva ripetutamente tradito. La stessa persona che aveva ferito tante volte, soprattutto fisicamente. Non sopportava l'idea che qualcuno fosse felice, a differenza sua che nella vita non aveva avuto altro che disgrazie. Era quello il motivo per cui amava distruggere ogni sorriso e si rifiutava di farlo davanti a qualcuno che non fosse Proof. Finì la birra e tirò un profondo sospiro.
Tanto tornerai da me, brutta stronza.
Doveva imparare a scrivere la propria vita da solo, senza il supporto di nessun altro se non quello di persone amiche. Basta romanticismo, basta delusioni d'amore, basta tutto. Doveva decidersi a mettere da parte un po' di soldi per comprarsi una casa, possibilmente lontano dalla 8 Mile. Aveva troppi ricordi, troppi dolori... la presenza di Proof non era abbastanza.
«Doody!» esordì una voce femminile, l'accento giappo-americano a lui familiare. «Ho portato i vestiti in lavanderia, sono rimasti tre gettoni.»
«Mettili sul tavolo, penso io a darglieli.»
Non appena Marshall fece capolino dalla porta del bagno, la ragazza trasalì e il fiato le si mozzò in gola. Si era fin troppo abituata alla sua assenza e rivederlo fu come un'improvvisa folata gelida sul viso, e coi suoi occhi di ghiaccio ne sarebbe stato capace. «Che ci fai qui?»
«Ci abito ancora, ricordi?»
A guardarla con quelle calze, i pantaloncini di jeans aderenti, la t-shirt nera dei Pink Floyd dalle scritte consumate e la giacca di pelle nera lunga fino a metà busto, pareva lo stereotipo della cattiva ragazza. L'esatto opposto di ciò che era realmente. Davvero voleva apparire in quella maniera, se l'unica sua arma di difesa erano quelle braccia magre e ossee?
Sulla soglia del bagno, si sentiva quel profumo fruttato uscire dalla sua stanza. La sensazione era diversa rispetto la prima volta; non solo era ancora più nauseabondo, ma il solo pensiero di averle serrato la gola quella sera... Sentì i palmi delle mani bruciare. Il ricordo della violenza gli faceva salire un senso di adrenalina che non sapeva controllare, così com'era stato con Kim – ogni loro sfuriata finiva con lividi e gocce di sangue sul pavimento, pura psicopatia di cui entrambi erano dipendenti. Chi in un modo e chi in un altro.
«Cavolo. Hai ventiquattro anni, ma hai la memoria di un pesce rosso» sbuffò e si buttò sul divano, non prima di aver poggiato la sua roba sul tavolino da caffè. Si era comprato da poco un cellulare, più nello specifico un Nokia 9210. Aveva speso parecchio e non avrebbe voluto, se solo Doc non avesse insistito così tanto. «E comunque devi darmi il tuo numero.»
Lei aggrottò la fronte con aria confusa, frugando nuovamente nel borsone. Neanche tra un milione di anni. – «Perché lo vuoi?»
«Per assicurarmi che tutto vada bene, non vorrai far preoccupare Proof.»
Ormai Marshall aveva imparato ad usare la carta "Proof" per lasciarla di fronte ad un baratro, qualsiasi scelta fosse stata. Perché lui sapeva tutto, perfino il giorno della sua morte. La cosa le mise i brividi. Ci mancava solo quello!
«Te lo darò, ma non adesso» cedette, e si avviò verso la sua stanza con una montagna di vestiti stropicciati e piegati male fra le braccia. «E non azzardarti a rubarmi il telefonino.»
Solo una ragazzina dal cervello anziano poteva usare il sinonimo di "telefonino". Lo avrebbe fatto comunque, se solo lei non avesse avuto in tasca. Si alzò dal divano e recuperata la sua valigia, andò nella stanza di Proof. Sul letto c'erano i suoi vestiti ammassati profumati di lavatrice, la ragazzina esagerava parecchio col detersivo e l'ammorbidente.
Lasciò perdere il borsone e si affrettò a sistemare il divano, piegando il plaid rosso e nero, e solo allora notò una bottiglia di birra vuota e una boccetta di Tylenol sul tavolino. Il tappo era di fianco l'astuccio di alluminio per le sigarette, quest'ultimo aperto e ammaccato sul davanti, così come l'accendino. La boccetta era aperta, dentro c'erano solo una decina di pillole, Em ne aveva di sicuro presa qualcuna – forse anche di più – e ingurgitate con l'alcol.
Si accigliò e avvertì una volontà pressante di raggiungerlo e chiedergli spiegazioni. Si stava ancora consolando dal divorzio? Alla fine scosse la testa. Non che le importasse la sua reazione se avesse saputo il mistero dietro quella sua calma, ma era meglio non fare danni. Già non andavano d'accordo e l'idea che Marshall avesse potuto metterle di nuovo le mani addosso la spaventava.
«Puoi almeno mettere in ordine la tua merda, anziché lasciarla in giro!» esclamò lei da lontano, mentre riponeva il borsone nell'armadio. «Fino a quando Doody lo permette, sei ancora un ospite.»
«È meglio se torni a piegare i suoi vestiti o lavare i piatti, anziché rompermi il cazzo.»
«Piego e lavo anche i tuoi, se vuoi saperlo, e anche gratis.»
«Senti, il viaggio è stato duro e mi sto riprendendo da un brutto mal di testa, quindi vedi di abbassare la cresta.» – Oh, mio Dio, non di nuovo. – «Ti avevo già detto di non superare il limite, ragazzina.»
«Allora comportati bene.»
«Se c'è qualcuno che dovrebbe comportarsi bene, quella sei tu. Sei più piccola di me, per cui abbi rispetto.»
«Tu rispetta me ed io rispetterò te.»
Lui scattò in avanti verso la sua direzione. Lei, impaurita, mosse le braccia per pararsi il viso, pronta a ricevere un colpo. Inaspettatamente, le sue mani afferrarono i suoi polsi e spostò entrambe le braccia per poter avvicinare la punta del naso alla sua. Il profumo alla frutta era anche sulla sua pelle, e si ritrovò a puntare lo sguardo sulla sua clavicola. Decisamente troppo pulita, ma se fosse stata una qualunque ragazza, ci avrebbe messo poco a marchiarla.
«Vediamo quanto durerà. Se fallirai, la mia parte d'affitto la pagherai tu per me, d'accordo, mandorla?» addolcì la voce e l'espressione, per poi lasciarla andare bruscamente. Sotto di lui sembrava una marmocchia dal faccino sottile, gli veniva quasi da ridere.
Prima che avesse potuto gettarsi sul divano per la seconda volta, un forte bussare alla porta li prese di soprassalto. Marshall andò ad aprire e incrociando lo sguardo di Kon Artis, si lasciò abbracciare. «Bentornato, bro! Quanto tempo!»
Dietro le sue spalle c'erano anche Kuniva e Swifty, nessuna traccia di Bizarre. «Com'è andato il viaggio di ritorno?»
«Una vera merda» rispose senza filtri, «mi mancavate un sacco.»
«Jun, sei pronta? La macchina è bella calda per te!»
Ascoltando Swifty chiamare la ragazzina, lui inclinò il capo di lato, l'espressione gelida e la schiena dritta in attesa di una spiegazione. Kuniva tentò in tutti i modi di farlo stare zitto, mimandone il gesto, ma i suoi sforzi risultarono vani. Quel ragazzo aveva già capito che sarebbero usciti senza di lui e non ci pensò due volte ad autoinvitarsi a quella serata speciale.
«State uscendo e non m'invitate?» ammorbidì l'espressione e si portò una mano nella tasca dei jeans larghi. «Posso venire con voi?»
«Tecnicamente sarebbe un'uscita a quat—» Kon Artis si fermò, per la prima volta teso di fronte lo sguardo di Marshall.
«Giuro che terrò le mani a posto.»
Lui lo squadrò da capo a piedi, assicurandosi fosse sincero. «Giura.»
Il ragazzo rispose con un cenno del capo e dopo una lunga pausa di sguardi, si convinse. Erano stati i trenta secondi più tesi di tutta la serata, ma non abbastanza da rovinarla. Swifty sospirò, sibilando sottovoce un enorme imprecazione. Sarebbe finita male, lo sentiva.
Pochi minuti dopo erano già fuori di casa, cinque in un rottame di ferro. A quanto pareva, Junko non aveva altra scelta che di condividere il sedile posteriore anche con Shady. Anche se non sopportava il freddo vento d'autunno, si era coperta con la giacca che aveva addosso. L'autista del gruppo era sempre Marshall, mentre sul sedile del passeggero si sedette Kon Artis. Cercava invano di ravvivare l'atmosfera, facendo qualche gioco di parole.
Ridevano tutti, tranne Junko. Difficile ridere, se c'era un pallone gonfiato bianco a rovinarle la serata. Evidentemente avevano ceduto al suo sguardo tagliente anche per l'assenza di Proof, sapendo che fosse il suo migliore amico e l'unico di cui si fidava ciecamente. Se solo lui avesse saputo delle sue manie violente, di quella volta che le aveva stretto la mano intorno alla gola. Si perse a guardare il finestrino appannato della macchina, le luci dei lampioni che andavano e venivano metro dopo metro.
La ragazza non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, sapeva solo di essere circondata da vecchie auto e un retinato di metallo pericolante, due paletti della luce leggermente inclinati e un complesso di appartamenti dietro le spalle. Uno dei fari lampeggiava, l'altro era completamente spento. Non si fece troppe domande e seguì il gruppo, rimanendo dietro le spalle di Swifty McVay. Il bar si trovava dietro quel palazzo grigio, avrebbero tagliato la strada passando da dietro.
Giunti sulla strada, la prima cosa che Junko vide fu la scritta fluorescente del locale, intonaco nero pece consumato e due porte doppie, le vetrate quadrate che viste da lontano sembravano mattonelle. I ragazzi entrarono sulla sinistra e un forte odore di alcol li accolse.
Intorno c'erano persone vestite con ogni genere di abiti – chi più chi meno, alcuni esageratamente succinti – che bevevano seduti o in piedi. Doveva esserci un concerto nei paraggi, se c'era tutta quella gente a bere con tutto quel frastuono in sottofondo, e dovette reprimere quella sensazione di soffocamento. Nonostante i condotti d'aria sul soffitto, era difficile respirare fra quella puzza di alcol e sudore, mescolata a cento profumi diversi e mischiati fra loro. La ragazza si affrettò a stringere l'inalatore fra le dita, l'ossigeno cominciava a calare. Quel posto era peggiore dello Shelter.
Uno dei baristi riconobbe Em e si scambiarono un abbraccio fraterno, così come il resto della comitiva. Junko non gli degnò di uno sguardo e con la scusa di riprendere fiato, tentò di recuperare un filo di respiro con l'inalatore. Il fiotto amaro stava per finire, avrebbe dovuto cambiare presto quell'arnese e prendere quello di riserva. Una mano le afferrò il braccio e sussultò, percependo un forte calore fra il gomito e l'avambraccio. Marshall la stava letteralmente trascinando verso un tavolo libero, quello che il barista aveva tenuto per loro.
«Sono in grado di camminare anche da sola» protestò, facendo resistenza.
«Ti avrò chiamata cento volte, ma eri troppo occupata a guardare la gente che entra ed esce.»
«Volevo solo andare a prendere da bere.»
Il biondo aumentò la presa sul suo braccio, lanciandole uno sguardo carico di rabbia. «Tu stai qui, ci pensiamo noi ai drink.»
«Sono adulta e vaccinata, Shady, e levami le mani di dosso!»
«Lasciala andare» intervenne Kuniva da dietro le sue spalle, la voce calma e risoluta.
Lui lasciò la presa e la ragazza si massaggiò il punto esatto dove l'aveva stritolato, per poi allontanarsi fra la folla. Si gettò sul divanetto di pelle, sospirando con fare nervoso. Quella ragazzina stava cominciando a dargli sui nervi, gli sembrava di avere a che fare con una bambina di cinque anni.
Bene, aspetterò che ti venga un coccolone, così potrò dirti 'te l'avevo detto'.
La vide ordinare un Bloody Mary, lo sguardo perso nei propri pensieri. Cercava davvero di essere carina seduta su quello sgabello con le gambe accavallate? Non poté però far a meno di notare il rilievo delle calze sotto la coscia, la forma delle gambe apparentemente tenere, ma che senza quel velo nero erano ossee e pallide. Catturava molti sguardi e ne era consapevole, ma era pronto a tutto, perfino starle alle costole per tutta la serata.
I suoi occhi si sollevarono verso di lui, le iridi scure spente dalla spossatezza. Lui ricambiò con la stessa intensità, come per avvertirla di non fare stupidaggini. Non riuscì a sorridere, nemmeno se si fosse sforzato. Prima che avesse potuto muovere una spalla, Junko tornò ad ignorarlo, sorridendo al barista che le aveva appena servito il cocktail. Lo stava sfidando, la stronza.
«Ehm, Shady.» Swifty deglutì nervoso. «Ho una brutta... bruttissima sensazione.»
Il diretto interessato sbuffò. «Non è una novità, McVay. Tu hai sempre una brutta sensazione.»
Kuniva lo rassicurò, poggiandogli una mano sulla spalla. «Se teniamo d'occhio sia lei che quel matto di Shady, vedrai che andrà tutto bene.»
«Le manette vanno messe a lui, non a Junko. Lei è capace di distinguere un superalcolico da un— d-dove diamine l'hai presa quella?» Kon Artis spalancò gli occhi alla vista di una 44 Magnum fra le mani di Marshall e riconoscendo i graffi sul manico, capì che era di Proof. – «Ti è dato di volta il cervello, bro? Se Proof scopre che ce l'hai in mano, ti squarcerà vivo.»
«Non dirà nulla, me la lascia sempre prendere.»
Un'altra bugia. Da quando Deshaun aveva saputo del casino con la sua ex, aveva nascosto la pistola per non fargliela prendere – la sua gliel'avevano sequestrata. Lo aveva fatto per il suo bene, per non vedere il suo migliore amico di nuovo dietro le sbarre o con gli sbirri alle calcagna ventiquattr'ore su ventiquattro. Lo preferiva sobrio e disarmato piuttosto che fatto.
Kon Artis indietreggiò d'istinto e affondò la schiena sullo schienale di pelle del divano. «Hey, hey, non puntarmi addosso quella merda!»
«Non ha i proiettili, guarda.» Marshall premette più volte il grilletto e la pistola scarica fece clic. Alla reazione del gruppo, lui soppresse un sorriso divertito. Gli piaceva proprio giocare come i bambini delle elementari.
Swifty e Kuniva si guardarono interdetti per un istante, ma lui successivamente sdrammatizzò disegnando una buffa smorfia sul viso come per dire "che burlone". Fu un fallimento: Kon Artis non riuscì a distendere i nervi. E se avesse fatto veramente qualche cazzata con quella pistola scarica? Ne aveva fatta già una in passato, aveva intenzione di giocarsi un altro anno di libertà vigilata?
«Non dite niente a Doody, però. È già tanto se sto proteggendo quella ragazzina.»
«Veramente lo aveva chiesto a me e De—» Em lo trucidò con lo sguardo e Swifty si fece piccolo dalla paura. «Okay, sto zitto.»
«Non fare cazzate, Marsh. Te lo chiedo per favore.»
«Ho giurato che non lo avrei fatto, Denaun. Fidati di me.»
Chiunque lo conosceva, sapeva che quel giuramento lo avrebbe infranto nel giro di pochi minuti, non appena avrebbe preso in mano un bicchiere e fatto bis su bis col passare delle ore. Nel momento in cui i loro drink arrivarono al tavolo, Marshall non scollò gli occhi da Junko. Qualcuno le si era avvicinato e le stava dicendo qualcosa. Non riusciva a sentire, a causa della musica alta e il frastuono della gente.
Lei aveva abbozzato un mezzo sorriso, e lui si era appoggiato al bancone del bar. Quella vicinanza eccessiva e il suo sorriso sornione bastarono a fargli stringere un pugno. Se solo avesse osato toccarla...
«Non bevi? Sei stanco?»
La voce di Kuniva lo fece tornare alla realtà. Distolse lo sguardo e bevve il suo Negroni. Del resto era stata lei ad allontanarsi dal gruppo. «Sì, scusa, bro. Cosa stavate dicendo?»
Swifty parlò di un nuovo pezzo, quello che Proof stava scrivendo da giorni e che aveva appuntato sul suo quaderno. Discussero fra loro, sia dal punto di vista di rime che da quello melodico, e l'atmosfera cambiò drasticamente. Non ci fu tensione, solo un confronto pacifico fra amici. Marshall non restò ad ascoltare, bevve il suo drink come se nulla fosse. La ragazzina non c'era, stava più tranquillo e ogni tanto faceva bene non preoccuparsene. Cosa gli fregava di lei.
Volse lo sguardo verso il bancone e la vide poggiare debolmente i gomiti sul marmo scuro, mentre il tizio di prima rideva con lei. Il Bloody Mary che aveva in mano aveva un leggero colorito rosso pallido – non il suo colore originario – e subito dopo si accorse di una bustina di polverina bianca di fianco. Si alzò immediatamente dal tavolo. Merda!
«Dove vai, Em?» – Ignorò la voce di Swifty, attraversò l'entrata e mentre raggiunse il bancone nascose la pistola scarica dentro la felpa larga, infilandola sotto l'elastico dei jeans larghi. Non si poteva mai sapere.
Non capiva perché si sentisse cosi responsabile, non solo per il fatto che fosse l'amica d'infanzia del suo migliore amico. Avvicinandosi sempre di più, notò che quella schifezza stava iniziando a fare effetto. Junko cercò di restare seduta dritta, ma si accasciò poco alla volta sul bancone col respiro mozzato, rovesciando quel che era rimasto nel bicchiere. Le tremavano le mani e le gambe, forse anche la bocca. Il suo corpo sottopeso non era in grado di reggere quella roba.
Quella mano si stava allungando verso il suo didietro, lei non reagiva. «Stai bene?»
Guardandolo più da vicino, Marshall scoprì che aveva tatuaggi sul collo e una giacca di jeans chiara con dietro il ricamato di una tigre nera. Solo quel dettaglio gli fece salire un grumolo di rabbia nell'esofago: quel bastardo di Benjamin McGregor, volgarmente soprannominato Mc Bennie, era in compagnia di altri due loschi individui pronti ad accerchiarla.
«Be... bene...» balbettò Jun, afflosciando le braccia e tossendo per mancanza d'aria. Il corpo non le rispondeva.
«Che brutta cera. Aggrappati a me, ti accompagno in bagno.»
Non ci vide più e si fece largo fra la folla, arrivando di fronte al bancone. No, non lo farai!
«Toglile le mani di dosso, porco schifoso!» lo spintonò via con una forza brutale, facendolo scivolare malamente dallo sgabello e cadere col sedere per terra.
Circondò le spalle di Junko e la tenne stretta fra le braccia. Lei gli si adagiò delicatamente, biascicando chissà che parole – non stava parlando inglese – e la pelle d'oca visibile dagli avambracci scoperti. Le persone vicine al tizio avevano un volto familiare, ma la collera non gli permise di riconoscerle.
«Chi cazzo sei?» ribatte l'altro avvicinandosi pericolosamente a Marshall, molto più minuto rispetto a lui. Si fissarono, fronteggiandosi come due pugili pronti a sfidarsi in un corpo a corpo.
«Semmai tu chi cazzo sei» spostò lo sguardo sulla polverina bianca nella bustina, la prese e la gettò per terra. «Volevi stuprarla, eh, stronzo?»
«Yo, amico, hai frainte...» non lo fece finire di parlare che lasciò la ragazza e lo spinse di nuovo a terra, stavolta con più violenza. La sua espressione terrorizzata e dolorante gli fece salire l'adrenalina. Aveva paura, quel lurido maiale, e doveva averne.
Gli premette un ginocchio sullo stomaco impedendogli di respirare, cominciando a prenderlo violentemente a pugni. Le sue nocche iniziarono a sanguinare, così come il labbro di lui. Nel frastuono del locale, sentì il rumore delle ossa che scricchiolavano ad ogni colpo. Probabilmente gli aveva rotto il naso, ma a lui poco fregava. Voleva solo uccidere quel bastardo che aveva osato drogare una ragazza innocente.
Le urla di dolore del tizio fecero calare il panico nel giro di pochi secondi, c'era chi accorreva ad osservare la scena e scoprire chi fossero i litiganti. Il restante della folla, invece, stavano chiamando a gran voce la sicurezza del locale. La vittima non riusciva nemmeno a muoversi, incassava i colpi e faticava a respirare.
Swifty e Kon Artis irruppero violentemente sulla scena dell'incidente, prendendo per le braccia Marshall. Lui si dimenò, muovendo una gamba e in qualche modo riuscì a mollargli un calcio sulle costole, prima di essere mollato a debita distanza dal tizio. Aveva le nocche tutte sbucciate, parte del suo sangue era finito sulla giacca di Bernie e sulla propria.
«Shady... basta, Shady!» gridò il primo.
«Fermati, così lo ammazzi!» esclamò il secondo, rafforzando la presa sul suo braccio.
Girandosi, notò Junko premurosamente sotto spalla di Kuniva. Aveva i riflessi completamente annientati e lui la sosteneva, guardandola muovere gli occhi e aggrapparglisi per non cadere. Preso dagli spasmi, si voltò verso il suo avversario ancora sanguinante e con gli zigomi lievemente aperti. Dalla bocca socchiusa, notò che aveva un incisivo superiore scheggiato e perso il canino inferiore destro.
Lo vide barcollare e tenersi in equilibrio con un solo braccio, mentre l'altro raccoglieva il sangue che usciva dal naso. Aveva decisamente esagerato, ma era furioso. Non sarebbe dovuto essere affar suo, ma non poteva permettere che una persona vicina a Proof venisse aggredita in quel modo. A soccorrerlo, finalmente, fu un ragazzo vestito metà gotico e metà hipster, accompagnato da un altro coi guanti neri, il berretto blu e le dita tatuate scoperte. Avrebbe riconosciuto quello stile fra mille. Che accidenti ci facevano lì Hyde e Larry insieme a Bennie?
La rabbia gli salì ancora e avrebbe preso a pugni anche loro, se solo non fosse stato per le braccia di Swifty e Kon Artis che lo trattenevano. Tuttavia, non risparmiò loro una minaccia. «Se becco ancora uno di voi bastardi del Mob ronzarle intorno, l'ultima cosa che vedrete sarà la canna della mia 44 Magnum in mezzo agli occhi.»
Si meravigliò di come lo aveva detto. Non si era impappinato, né aveva usato un tono di voce diverso dal solito. Quando chiuse la bocca, sentì un retrogusto agrodolce fra la lingua e il palato. Non seppe spiegarselo.
Il gruppo uscì poco prima che le volanti della polizia e l'ambulanza arrivassero di fronte le porte del locale notturno, scampando il pericolo di finire una notte in cella. Fortuna che avessero parcheggiato dall'altro lato della strada, sicuri che nessuno avesse potuto vederli sgattaiolare in gruppo e con una ragazza svenuta in braccio. Sarebbe stato sospetto perfino al più ingenuo degli abitanti.
«Avevi giurato che avresti tenuto le mani a posto!» gridò Kon Artis furibondo, una volta lontani.
«Volevi che quel bastardo la stuprasse? Che Proof facesse del suo peggio, una volta scoperto tutto?»
In un attimo calò il silenzio, quel nome aveva gettato il gruppo nel terrore. Proof non doveva sapere che quei tre del Mob Clan avevano quasi accerchiato Junko, ma solo il fatto che avesse ingerito quello schifo lo avrebbe fatto incazzare come una iena. Non gliel'avrebbero perdonata, questo era certo.
«Jun! Jun, mi senti?» Swifty provò a chiamarla, prima a bassa voce e poi più alta. Guardarla inerme in braccio a Kuniva era come assistere ad una tragedia, lui non riuscì a non mostrare un'espressione tesa e preoccupata. «Ragazzi, non dà segni di vita, è meglio portarla all'ospedale.»
Marshall si avvicinò alla figura minuta della ragazza fra le braccia del suo amico, le prese il polso e con gran sollievo, notò che c'era ancora un debole battito. «Sta bene, è solo svenuta.» Dopodiché, si levò la felpa e gliela avvolse per tenerla al caldo. Se ne fregò delle piccole macchie di sangue sulle maniche. «Portiamola a casa.»
Il silenzio regnò sovrano nell'abitacolo della vecchia cabrio di Kuniva. Kon Artis guardava in basso e senza sapere cosa dire. Si torturava i pollici con fare nervoso, mentre Em guidava. Faceva freddo a quell'ora, ma lui non se ne preoccupò. Si era abituato a stare senza maglietta laggiù in California, un po' di freddo non lo avrebbe fatto ammalare. Per aiutarla a respirare, aveva messo Junko seduta fra Kon Artis e Kuniva – avrebbe aiutato i muscoli a riprendere le funzioni polmonari.
Quest'ultimo aveva provato a farle recuperare ossigeno con l'inalatore durante il tragitto, spruzzando il fiotto amaro nella sua bocca con un movimento goffo del pollice, ma non sapeva usarlo. Se Jun non fosse stata asmatica, uno di loro avrebbe potuto praticarle una respirazione bocca a bocca, ma sarebbe comunque stato inutile. Era difficile capire se respirava ancora, non si sentiva il suono dell'aria che entrava e usciva dalle narici. Era viva, ma incapace di intendere.
A rompere quel ronzio inquietante, fu la voce nasale del primo ragazzo. «Siamo nella merda.»
«Se l'è cercata, la prossima volta impara a non seguire le regole.»
Swifty assottigliò le palpebre, seduto sul sedile del passeggero. «Stai scherzando, Em, vero? Come puoi solo pensare una cosa del genere? Cosa poteva saperne lei? Non le abbiamo detto del giro di droga che c'è qui intorno, è soprattutto colpa nostra.»
«Non dobbiamo dire nulla a Deshaun o farà una strage irreparabile» soggiunse Kuniva.
«Ammazzerà tutti e tre?»
«Peggio, sarebbe capace di fare a pezzi i loro cadaveri» sdrammatizzò l'amico, anche se non c'era niente di cui ridere. Proof ricorreva alla violenza quando si trattava dei suoi amici, soprattutto i più cari, e Marshall lo sapeva bene. Le aveva prese parecchie volte a nome suo, perfino della sua ex.
«Lo verrà a sapere comunque, Von. Tanto vale prenderci subito il cazziatone.»
Intanto la ragazzina dormiva, perfettamente immobile e completamente indifesa. Marshall pensò che se fosse stata totalmente in sé, droga o non droga, si sarebbe vergognata a morte di una situazione del genere. Chiunque, a dire il vero. Poco dopo, disse la sua. «Penso che quei bastardi dei Mobs vogliano vendicarsi dello Shelter e hanno puntato lei. Da quando 'sto stronzo ha detto che è la mia ragazza.»
Lo ripeté nella testa: "la mia ragazza". Quella lì non lo sarebbe mai stata. Detestava quei suoi lineamenti a mandorla, i capelli sottili e il suo atteggiamento da cucciolo di labrador che mostrava a Proof. La cosa peggiore era che tutti i Dirty Dozen, compreso Marshall stesso, le stavano facendo da cani da guardia.
«Mi era sfuggito quella volta! Quante volte ancora dovrò ripeterlo?»
«Se solo fossi stato zitto, Denaun...»
«Vuoi darmi la colpa di tutto, ora?»
«Smettetela voi due!» urlò Kuniva, la testa della ragazza adagiata sulla sua spalla. «Il danno è fatto, ormai, non si torna indietro.»
I due restarono in silenzio fino a casa. A prendere Junko fra le braccia fu Marshall, con l'aiuto di Swifty. Il suo corpo minuto era debole e molle come un frutto troppo maturo. Si sorprese nel sentirla così leggera, stordita come sotto l'effetto di un narcotico. Dopo averla fatta sdraiare sul letto, si prese qualche minuto per controllare di nuovo il suo respiro: roco e irregolare. Osservò il suo petto alzarsi e abbassarsi, i capelli scompigliati, la bocca schiusa e secca. Trovò l'inalatore sul suo comodino e se lo rigirò fra le mani. Come cavolo si usava?
«Dallo a me, ci penso io.» L'amico si offrì per aiutarla a recuperare ossigeno. Tolse il tappo e lo agitò, per poi tenerlo sotto col pollice e sopra con l'indice. «Alzale giusto un po' la testa e aspetta che inspiri.»
Marshall eseguì e non appena Junko ebbe la testa china, lui le socchiuse le labbra con le dita e le spruzzò il fiotto amaro. Per accettarsi che il trucchetto avesse funzionato, passò la mano lungo la gola e la strinse appena intorno alla mascella. Sentì la pulsazione irregolare della carotide sotto i polpastrelli e provò una sensazione di adrenalina, ma non era il caso di peggiorare la situazione. Si separò dalla sua gola e cercò di non stringere la mano in un pugno, per quanto le nocche gli facessero male. Era tutto nella norma, ringraziando il cielo.
«Riaccompagno Von e Denaun a casa, poi ti chiamo.»
Lui annuì e sentendo la porta d'ingresso aprirsi e chiudersi, tornò a concentrarsi su di lei. Non aveva idea di dove fosse il suo pigiama e cercare in quel borsone era una perdita di tempo, doveva liberarla dei suoi vestiti e in fretta. Andò verso la camera di Proof a recuperare una delle sue magliette dalla valigia, la più consumata di tutte. Il tessuto era abbastanza spesso e ruvido, abbastanza da tenerla al caldo.
Tenendola sotto il braccio, aiutò Junko a spogliarsi della giacca, pantaloncini e calze. Aveva fatto di tutto pur di non guardare le sue grazie femminili da sopra la biancheria intima, anche se un reggiseno sportivo e una mutandina a boxer non erano il massimo della sensualità. Lei alzò debolmente le braccia e lui arrotolò il tessuto per poterglielo infilare e farlo scendere lungo il suo corpo. Le gambe erano scoperte, ma almeno sarebbe stata comoda.
La sistemò con cura fra il piumone e le lenzuola, dopo aver battuto i cuscini, e gliele rimboccò. La ragazza adagiò delicatamente la guancia, chiudendo subito gli occhi. Lentamente il suo respiro tornò regolare e profondo. A quella vista, Marshall mutò da belva a pulcino bagnato. Sapeva che l'asma poteva essere micidiale; l'inquinamento era già un punto debole per lei, per giunta fare sforzi eccessivi e permettersi di correre. Un solo sforzo che richiedeva più aria nei polmoni e solo accelerare il passo, avrebbe potuto...
«Sei stata proprio una stupida» le disse, sedendosi sul bordo del letto. Si chinò su di lei e le toccò la fronte col dorso della mano, sentendola rovente. Jun aveva una linea di febbre, doveva cercare qualcosa per abbassargliela. Non poteva darle un antistaminico dopo quella dose di MDMA, era troppo rischioso. Un miscuglio di quelle sostanze le avrebbe distrutto lo stomaco.
«Mama...» biascicò a bassa voce, girandosi di lato. Marshall spalancò gli occhi, la schiena rigida come una trave di ferro, sentendo le sue braccia circondare il suo. Era caldissima, la guancia sulla sua spalla ancora di più. «Issho ni ite, mama.»
Sciolse l'abbraccio e l'adagiò supina. «Stai buona, vedo cosa posso fare.»
Uscì dalla stanza e pensò: aveva solo cinque minuti per preparare qualcosa, prima che avesse potuto risistemare tutto senza destare sospetti. Gli serviva un bollitore e un limone. Il primo lo trovò nella dispensa, vecchio e rovinato, ma necessario. Guardando il cesto della frutta all'angolo, scoprì che era rimasto solo un limone – era ammaccato, ma almeno non era marcio. Con una velocità supersonica riempì il bollitore di acqua e accese la fiamma, poggiandolo con cura. Approfittò del tempo per spremere il limone in una tazza grande.
Quando Junko parlava la sua lingua madre, somigliava ad una di quelle maghe dalle bacchette colorate dei cartoni animati giapponesi che si vedevano in televisione. Dovette ammettere che sentirla parlare in quel modo, lo aveva un po' spaventato. Non aveva capito nulla di quello che aveva detto, ma quel "mama" lo avrebbe saputo tradurre anche un analfabeta. Lei l'aveva persa per colpa di una malattia, mentre la sua era da qualche parte a farsi.
Nel frattempo che l'acqua bolliva, cercò una borsa di ghiaccio nel congelatore. Dopo averla avvolta in un panno consumato, si affrettò a tornare in camera di lei e adagiargliela sulla fronte. Lei aveva la bocca socchiusa e il respiro lento. Sapeva che quello schifo l'avrebbe indebolita e ringraziò il cielo che avesse avuto solo la febbre. La responsabilità era in parte anche sua, l'aveva persa d'occhio e si era accorto troppo tardi del giro losco intorno a quel bicchiere.
Ora capiva quelle brutte parole. "Kim ha fatto bene a lasciarti, sei solo un bambino capriccioso irresponsabile intrappolato nel corpo di un uomo". Strinse un pugno. Fanculo, Debbie.
Il bollitore fischiò, Em uscì di corsa a spegnere la fiamma. Riempì la tazza di acqua calda e limone, lo mescolò con la punta di un coltello dal manico scheggiato – la prima cosa che aveva trovato sul bancone – e si assicurò di non farlo rovesciare. Non si preoccupava di accendere la luce, a detta sua sapeva vedere al buio come i felini.
Varcando la soglia della stanza, si avvicinò al comodino di fianco al letto e accese l'abat-jour. Junko strinse leggermente le palpebre, sentendo la luce darle fastidio. «Svegliati, ti ho portato qualcosa di caldo» pronunciò con voce baritonale, noncurante del tono alto. «Mi raccomando, bevilo tutto. Ti aiuterà a far scendere la febbre.»
Lei si alzò faticosamente, mettendosi a sedere con la schiena appoggiata alla testiera di ferro, e si stropicciò gli occhi. Allungò le mani per prendere la tazza e soffiò sul velo dell'acqua calda, senza pensare alla testa pesante che le faceva venire voglia di sdraiarsi sul letto e rimanere prigioniera nel piumone.
«Grazie» si limitò a dire con voce fioca, leggermente roca.
I suoi occhi si specchiarono in quelli di Marshall e lei si ritrovò ad arrossire lievemente, un'immagine tenera e allo stesso tempo surreale. Surreale, perché Slim 'fucking' Shady si stava prendendo cura di lei. Non poteva davvero far tenerezza con quelle iridi così chiare, fredde e dure come un iceberg. Fino a poche ore prima aveva la lingua biforcuta e le fiamme ad incendiargli le pupille, pronto ad attaccare in qualsiasi momento. La bestia doveva essersi calmata.
«Sei stata un'incosciente.» – Ecco, aveva parlato troppo presto. – «Ti sei chiesta perché ti girava la testa? Quel coglione tatuato che stava con te ti ha drogata.»
«Tu come lo sai?»
«Sul bancone c'era una bustina di ecstasy, l'ho riconosciuta nel momento in cui il tizio l'ha svuotata nel bicchiere. Dovresti ringraziarmi perché se io e gli altri non ti avessimo soccorso, Bennie e Hyde avrebbero potuto approfittarsi di te.»
Ci fu un lungo silenzio, che Junko distrusse, mettendo via la tazza. «Non è che invece sei stato tu ad approfittarne?»
Marshall non crebbe alle sue orecchie. L'aveva tirata fuori dai pasticci, le aveva preparato l'acqua calda con limone e miele, stava vegliando su di lei fino all'arrivo di Proof e se ne usciva con un'accusa del genere. Le afferrò una ciocca di capelli e gliela strattonò, in modo che il suo volto febbricitante fosse a pochi centimetri dal proprio. Se fosse stata un'altra donna, l'avrebbe fatta a pezzi.
«Se proprio vuoi saperlo non ho chiuso occhio, perché stai male. Quella che avevi in mano è una cazzo di acqua e limone che io ti ho fatto! Io, porca troia! Così vuoi ripagarmi?» sbraitò con voce forte. Lei non si ribellò, tremò soltanto, forse ancora sotto l'effetto di quella roba.
«Perché lo hai fatto?» pigolò lei quasi senza voce. Quanto la detestava!
«Vuoi davvero saperlo?»
Junko tenne gli occhi bassi. «Ti... ti piaccio?» Le sue guance diventarono ancora più rosse di prima – questa volta di vergogna. Incredibile, come aveva fatto a esprimere un pensiero tanto sciocco ad alta voce?
Marshall accennò una smorfia e la presa sulla ciocca dei suoi capelli si ammorbidì. Gliela lasciò con una tale violenza da farle sbattere le spalle contro il muro, facendo cadere un paio dei disegni che aveva attaccato. «Ti ho salvato il culo perché sei l'amica d'infanzia di Doody, non perché provo qualcosa per te.»
Jun rimase immobile, contando i respiri finché non tornarono regolari. Si strinse addosso alla maglietta larga di lui che indossava a mo' di camicia da notte, e si portò una mano nel punto esatto dove lui l'aveva strattonata. Lo fissò, e sentì una lacrima scivolarle lungo la guancia. Avrebbe dovuto sapere che Occhi Di Ghiaccio non mostrava sentimenti veri se non in rima.
«Non dirmi che ci hai creduto sul serio.»
«No... no...» la sua voce era fievole, insicura. Ci aveva creduto, invece.
«Le ragazzine come te non mi piacciono. Preferisco le donne vere, e tu non sei una donna.»
La ragazza alzò una mano per sferrargli un ceffone, ma lui prontamente la fermò, afferrandole il polso e stringendoglielo. I suoi occhi erano lucidi di lacrime, il labbro inferiore tremava con le dita della sua mano. Si stava alterando e la cosa stava iniziando ad infervorarlo; più lei gliene dava, più lui si eccitava. Junko era molto più caparbia di Kim, e la cosa gli piacque un sacco.
«Tu sai cosa sei, invece? Sei una merda.»
Lui non ci pensò due volte a confermarglielo, avvicinandosi pericolosamente al suo volto. «Sì, sono una merda. E sai perché? La gente fa di tutto pur di non pestarmi, e se succede non ti porterò fortuna, ma solo rogna e frustrazione.» Le lasciò il polso, guardandola massaggiarselo. Era la seconda volta che lo faceva, quella ragazzina conosceva il modo giusto per innescare la bomba Shady.
Non appena si avvicinò allo stipite della porta, si girò per guardarla. «Voglio risparmiati l'insulto che stai per sputarmi in faccia: sono pazzo, volgare, stronzo... tutto quello che vuoi. Sono qualunque cosa mi dirai, mandorla.»
Lasciò la stanza e si morse le labbra con così tanta forza che sentì il sapore del sangue in bocca, il respiro spezzato e tremante di rabbia. Cercò di calmarsi; se avesse continuato così, sarebbe impazzito. Prese il kit del pronto soccorso dal mobiletto del bagno per disinfettarsi le nocche, il sangue si era già asciugato. Lo fece con tutta calma, seduto sul gabinetto dalla tavoletta abbassata, sopportando il forte bruciore sulle dita. Tutto per quella piccola insolente che non sapeva fare altro che gli occhi da cucciola. Proof ci era perfino cascato.
Bendandosi un dito per volta, sentì i battiti del cuore rallentare e il respiro regolarizzarsi. Non aveva idea di che ora fosse, ed era strano sapere che Doody non fosse ancora tornato dai suoi "affari" – lui sapeva bene quali. Oltre a quello si divertiva per fatti suoi con qualche amico o prostituta, non prima di aver fatto scorta di alcol e preservativi. Uno si divertiva, mentre l'altro faceva da babysitter ad una piccoletta dalla voce acuta e fastidiosa.
Il telefono squillò e sobbalzò. Si alzò e andò a rispondere. «Pronto? Qui è Mathers.»
«Hey, bro. Come sta Jun?» – Grazie al cielo era Swifty.
«Le è scesa la febbre, per fortuna nulla di grave.»
«Che cosa vuoi fare con Deshaun? Cioè, glielo dobbiamo dire?»
«Certo che "dobbiamo", bello. Sarebbe peggio se lo scoprisse dopo.»
«Lo sapevo che sarebbe finita male. Se solo tu non avessi...»
«Allora imparate a sporcarvi le mani e non rompete più il cazzo! Ringraziatemi, piuttosto che gettarmi merda addosso!»
«Em, avresti dovuto trascinarla via, non prendere a botte quel coglione. Così hai fatto il loro gioco ed ora hanno un pretesto per cercarti e pestarti. Sono anni che cerchiamo di evitare guai e tu fai sempre di testa tua. Non capisci che così rischi di fare la fine di Bugz?»
«Buonanotte, Ondre!» urlò e lo riattaccò in faccia, com'era solito fare.
Si portò le mani sul volto sconcertato, sospirando. Uno dei suoi più cari amici era morto in una rissa e sarebbe dovuta essere la normalità, dato l'alto tasso di criminalità: non ci si fidava di nessuno e si girava armati. Proof cercava in ogni modo di evitare tragedie simili, dialogare e trovare compromessi. Lui era impulsivo e basta, non un pacifista nonviolento come Luther King e compagnia.
Aveva aspettato qualche minuto prima di rientrare nella sua stanza e mettersi seduto sul pavimento, guardandola dormire profondamente. Russava perfino un po' – colpa dell'asma – e aveva un leggero velo di sudore sulla fronte. La febbre le stava scendendo. Lui perse tempo a guardarla senza occhiali e i capelli sciolti, così lunghi da cadere quasi a terra.
Sono solo stanca, debole. E quando ti senti debole, hai voglia di arrenderti e basta.
Junko era debole perché stava vivendo una vita non sua, un crudele scherzo del destino che l'aveva catapultata dall'altro lato della 8 Mile Road. Lei era una di quelle ragazze che cadevano di faccia e crollavano emotivamente. Marshall non conosceva la parola 'empatia' e se la sua vita fosse stata diversa, avrebbe potuto abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene.
Quella ragazza doveva solo cercare dentro di sé, provarci almeno. Trovare la propria forza interiore, la motivazione giusta per non arrendersi. Non doveva mollare per un nonnulla, non importava quanto fosse stato grave. Le cicatrici sarebbero comunque rimaste, anche se sbiadite.
Tu sai cosa sei, invece? Sei una merda.
Lui non aveva mai visto il dolore, se non immerso nel sangue.
Lui era infantile, egoista... violento. Tutto ciò che gli era stato detto dalla gente comune.
Lui era nato cresciuto, non aveva mai conosciuto la fanciullezza.
Lui non sapeva cogliere il significato dietro un abbraccio.
Lui non era in grado di dire "ti amo" con un mazzo di rose fra le mani.
Lui non usava le mani per accarezzare una donna, ma per ferirla.
Perché era la verità: Marshall Mathers era tossico e disfunzionale, non sapeva provare affetto e ricambiava solo quello di Proof. Le rime parlavano più del suo corpo e spesso erano pensieri cruenti, immoralisti. Se avesse avuto un lato umano, non le avrebbe mai messo le mani addosso. Se fosse stata una brava persona, avrebbe parlato con lei più spesso di quanto avrebbe fatto.
«Vuoi spegnere quella musica di merda? Sono le tre di notte!»
Una voce lo spaventò e alzò la testa, udendo in lontananza una bambina che piangeva – gli tornò in mente: la nipotina di quattro mesi della vicina. La figlia divorziata doveva essere ancora in quella casa. C'era solo una persona che amava importunare la vicina cinquantenne sovrappeso all'angolo della strada, la stessa che alle due di notte urlava dalla finestra di camera sua per la musica troppo alta o le grida delle ragazze che Proof si portava a letto.
«Mi scusi tanto, signora Jackson. Sono sincero.»
«Fai poco lo spiritoso e dì al tuo amico di non sbraitare, ha fatto piangere la piccola Amalia.»
Oh, cazzo, era proprio Proof. Quando sentì il clic della serratura, Em restò paralizzato sul posto. Erano letteralmente nella merda, riprendendo le parole di Denaun.
«Yo, Shady, ancora sveglio? Soffri ancora di insonnia?» scherzò lui, guardandolo con solo la canottiera addosso. Quando poi tirò sul col naso, cercando di riconoscere l'odore nella stanza, alzò un sopracciglio. «Questo profumo di limone da dove viene?»
«Mi sono preparato una tazza di tè per smaltire la sbornia» rispose il biondo, nel vano tentativo di giustificare quel bollitore ancora caldo. Non ci avrebbe comunque creduto. «Ne vuoi un po' anche tu?»
«Conservalo per domani mattina. A proposito, la vicina ha detto che non devi sbraitare. Hai di nuovo litigato con la tua ex a telefono?» sogghignò, liberandosi della giacca pesante e appendendola vicino la libreria.
«Come al solito, no?» sbuffò, levandosi la canottiera sporca e prendendone una pulita dal bagno.
Passò la porta e quando alzò la testa, vide Proof entrare nella stanza di Junko. Si avvicinò lentamente e sbirciò, accorgendosi che aveva appena capovolto il sorriso. Stava guardando il braccio sinistro, e solo avvicinandosi notò un taglio orizzontale fresco e superficiale. Doveva esserselo procurato nel momento in cui aveva fatto cadere il bicchiere a terra. Ormai gli indizi c'erano tutti ed era giusto dire la verità.
Proof si alzò da terra e gli andò incontro, notando i cerotti sulle dita. «Che accidenti è successo?»
Marshall raccontò tutto per filo e per segno, mostrando le sue mani.
Spiegò il motivo per cui aveva preso il bollitore e usato l'ultimo limone, ciò che seguì poco dopo fu disastroso: parlò del Temple e di come i Mobs avessero quasi accerchiato Junko. L'unica cosa che aveva omesso in tutta quella storia era il fatto che le avesse di nuovo messo le mani addosso, senza aver saputo controllarsi. Alla fine di tutto quello sproloquio, lo sguardo di Proof non era né arrabbiato né deluso. Aveva capito subito che sotto c'era la stessa persona che voleva la compagnia della sua Junnie Jun – di certo non per fare amicizia – e che era stata sconfitta sul palco dello Shelter.
«Avevate una cosa da fare. Una, cazzo!»
«Non è successo nulla, l'abbiamo portata via prima che fosse troppo tardi.»
«Avrei dovuto immaginarlo, viste quelle mani.» Seguì una breve pausa. «Bene, vorrà dire che dovrò pensarci io. Vediamo se quei riccastri dei Mackenzie arriveranno a fine mese con soli quattrocento bigliettoni in banca.»
«Vuoi forse manomettere i freni della macchina? Incendiar loro la casa?»
Così li avrebbe ammazzati ed era l'ultima cosa che Proof voleva. «Nah, è troppo perfino per me. La bomboletta e il fuoco sono più divertenti.»
«Doody, è rischioso.»
Lui amava rischiare. Poi, senza smettere di guardare il suo migliore amico, il suo sguardo si accigliò. «Vieni con me, diamo del filo da torcere a quei porci.»
Lui non ebbe altra scelta se non seguirlo fino alla sua El Camino. Se Doody si metteva in testa qualcosa, la portava a termine senza preoccuparsi delle conseguenze. Erano uguali da quel punto di vista, tranne quando c'erano di mezzo persone care. Avevano spento le luci di casa prima di uscire, facendo però riecheggiare nella notte il rombo del motore.
Senza farsi vedere, aprì sotto il cruscotto e ripose la pistola dove l'aveva presa. Non se ne sarebbe mai accorto, un punto di vantaggio per lui. Nessuno nascondeva i propri segreti, eppure Marshall lo stava facendo e per la prima volta da quando lo conosceva. Era giusto così, perché non avrebbe sopportato di perdere il suo primo e unico vero amico.
Oltrepassando quel verde, fra un lampione rotto e l'altro lampeggiante, capì di essere nel quartiere di Penrose. La casa dei Mackenzie era quella più grande – due villette di legno vicine, entrambe di loro proprietà – dove i fratelli abitavano separati. Avevano la stessa forma, ma l'intonaco diverso: a destra bianca, a sinistra rosso mattone. Non solo quei benestanti del cavolo avevano ristrutturato quei due buchi ammuffiti, ma la vegetazione intorno era più rigogliosa rispetto a quella circostante. Non badavano proprio a spese.
Proof assottigliò le palpebre, adocchiando la Plymouth Barracuda del '71 rossa parcheggiata di fronte la casetta bianca. Scese dalla macchina e dopo aver preso una bomboletta spray, si avvicinò di soppiatto al veicolo. Le luci erano spente, il lampione dietro le sue spalle non era abbastanza luminoso da farlo riconoscere. Alzandosi il colletto della t-shirt bianca, iniziò ad imbrattarla.
Dopo avrebbe sicuramente spaccato qualche finestra – o finestrino, se il suo livello di collera era alto. La veglia distruttiva di Dirty Harry era peggiore della sua. «Nel cassone c'è una tanica di benzina. Prendila» sibilò a Marshall, mentre col cacciavite bucava le gomme della macchina.
«Non avevi detto che—»
«Zitto e prendila» ringhiò a bassa voce, guardando di tanto in tanto che non passasse nessuno. A quell'ora tutti dormivano, ma bisognava comunque stare in guardia. Quando il biondo tornò con una piccola tanica rossa in mano, Proof si avvicinò al cespuglio più curato del giardino e la buttò sopra. Il primo restò dietro di lui, osservando il suo complice prendere l'accendino dalla tasca dei pantaloni.
«Stai indietro, Doody, questa fa male.» Fece uscire la fiamma con uno scatto del pollice e avvicinandola alla linea bagnata sul cemento, il fuoco si espanse fino a bruciare la siepe. L'allarme antincendio in casa si attivò all'istante e prima che qualcuno avesse potuto affacciarsi alla finestra e scoprire i colpevoli, i due piromani si erano già allontanati dalla strada.
N.A.
Hellooooo, clochardssss! Un finale di capitolo un po' tosto, direi! Come vendetta è stata più che abbastanza. Doody non si sarebbe fatto sfuggire un'occasione simile, dopotutto ha avuto precedenti su questo. Stavolta niente tagli, perché è giusto leggerlo tutto in una volta. La battaglia rap era una cosa, ma questa è tutt'altra storia.
Stavolta sono stata sentimentale. Shady è solo il suo alter ego cattivo, non la sua vera natura e chi lo conosce bene, lo sa. Ma questo non significa che questo suo comportamento sia giustificabile, anzi, il contrario. Come già ho scritto nei TW, non seguite il suo esempio. Neanche quello di Proof e la sua mania da piromane, ovviamente. Rispettate le siepi di tutti. Don't try this at home.
Non so se riuscirò ad aggiornare prima del 15 febbraio, ma ci proverò. Il capitolo è già impostato, bisogna solo collegare ogni tassello. Tra qualche capitolo introdurrò un nuovo personaggio, fondamentale per la seconda parte della storia. Per cui, stay tuned! ;)
Buon sabato a tutt* e... seriamente, non imitateli. Mangiate piuttosto le verdure.
- Gloria -
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