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Il corridoio in cui si erano insinuati era ancora più stretto di quanto era apparso inizialmente al signor Dambey. Faticava a correre senza che di tanto in tanto i suoi gomiti strisciassero contro le pareti ruvide ai lati, provocandogli una rapida fitta di dolore. Gli sembrava di star percorrendo quel livido tunnel da decenni ormai, nonostante fossero probabilmente trascorsi solo una decina di minuti. Davanti a lui, il fiocco bianco che faceva capolino tra i capelli dorati di Alice sembrava quasi fluttuare nell'oscurità come un oggetto fantasma dotato di vita propria: unico diafano punto di riferimento in quella folle corsa. Metri di percorso lineare si alternavano a brevi discese di una manciata di scalini sbilenchi ed irregolari. In profondità. Sempre più in profondità. Non gli sembrava possibile che potessero scendere ancora, dopo la lunga caduta di poco prima dentro al pozzo, eppure continuavano a farlo. Una rampa dopo l'altra. Sempre più giù. Il silenzio opprimente dello stretto passaggio era disturbato solo dai tonfi emessi dalle loro scarpe sul pavimento, e da strani cigolii e rumori striduli che il signor Dambey si sforzava di non udire. Eppure, risultava impossibile per lui non figurarsi viscide creature strisciare nell'oscurità tra i loro piedi, protetti da quel buio intenso eppure talmente vicini da poter recidere con un solo tagliente morso delle loro larghe bocche dai denti affilati tutte le ossa della sua caviglia; lasciandolo lì, storpio ed inerte, sul fondo di quel corridoio nel bel mezzo del nulla, a morire, in mezzi a fiotti di sangue caldo che sarebbero fuoriusciti dal suo arto mutilato.
Scosse la testa, trattenendo una risata nervosa: non si era mai ritenuto un uomo particolarmente coraggioso, ma in quel momento doveva ammettere che la sua fervida fantasia aveva battuto ogni record mai raggiunto. Avrebbe voluto implorare Alice di fermarsi, ma non riusciva a trovare la forza di infrangere quello strano silenzio; inoltre, sapeva che la ragazzina non lo avrebbe mai accontentato. Sovrappensiero, si accarezzò con l'altra mano il polso che era stato più volte afferrato dalla fanciulla, ma si bloccò a metà di quel gesto, quando si rese conto attonito dei quattro lunghi solchi che gli attraversavano la pelle, proprio nel punto in cui quelle dita all'apparenza esili lo avevano stretto. Un blocco di metallo sembrò crollare di schianto sul fondo del suo stomaco, mentre cercava invano di deglutire la saliva inesistente che si era seccata sul suo palato disidratato. Lanciò di nuovo un'occhiata alla ragazzina, che correva tranquilla davanti a lui come se fosse stata ancora sotto il sole, in mezzo ad un prato: in quel momento l'idea di darle le spalle ed andarsene abbandonandola in quel corridoio iniziò ad apparirgli sempre più ragionevole e sempre meno meschina. Fu quasi tentato di metterla in pratica, quando all'improvviso il corridoio terminò, aprendosi in un'ampia sala illuminata.
-Ci siamo, Nicholas! – la voce allegra di Alice fece di nuovo la sua comparsa, dopo minuti di quel silenzio denso. Risentendola, il signor Dambey si sentì all'improvviso immergere da una calda sensazione di sollievo: si era probabilmente spaventato per niente, lasciando che l'assenza di luce e di suono ingigantisse le sue sensazioni e distorcesse i suoi sensi, amplificando la sua immaginazione fino ad indurlo a provare quel terrore del tutto irrazionale. Si fermò di fianco alla fanciulla, davanti alla soglia di quella nuova e spaziosa stanza.
-Benvenuto nella Sala del tè! – Alice si voltò verso di lui con una mezza giravolta, afferrò l'ampia gonna del suo vestito e gli rivolse un mezzo inchino divertito, per poi allargare le braccia verso il vuoto davanti a lei, presentandogli la stanza con un ampio movimento. Il signor Dambey sorrise davanti a quell'entusiasmo, poi fece qualche altro passo in avanti per osservare il nuovo luogo. Era una sala circolare, molto ampia; le pareti di pietra grigia l'avvolgevano in tutta la sua interezza e numerose candele appese a supporti di metallo illuminavano tutto lo spazio all'interno. Appoggiati al muro, tra una fiaccola e l'altra, sostavano alti armadi di legno, che apparivano antichi e lievemente usurati dal tempo, ma ancora piuttosto intatti. Al centro della stanza un lungo tavolo imbandito, del tutto simile a quello da cui si era alzato il signor Dambey poco prima, nel giardino della villa dei Mecknville, si ergeva silenzioso: era ricoperto da una lunga tovaglia a quadretti rossa e bianca, e apparecchiato con eleganti e decorate stoviglie, anch'esse copie speculari di quelle che aveva visto in superficie. Al centro della tavola vi era una teiera piena fino all'orlo, di un liquido che il signor Dambey suppose essere tè. Eppure, niente di tutto questo si soffermò nel suo campo visivo per più di un secondo. Niente di tutto questo, per quanto sorprendente, gli bloccò il cuore dalla meraviglia, inducendolo a chiedersi se non stesse sognando. No, niente di tutto questo. Fu ciò che vide intorno al tavolo a catturare tutta la sua attenzione, lasciandolo paralizzato dalla sorpresa e completamente di stucco.
Persone.
Persone sedute al tavolo, intente a godersi il tè pomeridiano.
Metri e metri sottoterra.
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