11. UN VERO BACIO
David mi passò a prendere anche la sera seguente. Mi portò a un distributore di videocassette e mi chiese di scegliere un film. Rimasi incollata davanti all'erogatore automatico per almeno dieci minuti, scorrendo i titoli con la punta dell'indice.
«Che ne dici di Romeo e Giulietta?»
«Umm... troppo romantico...» Storse la bocca.
«Titanic?»
«Troppo lungo e melenso».
«E.T?» Optai per qualcosa di diverso.
«Non mi piace il fantasy».
A quanto pare non avevamo gli stessi gusti in fatto di pellicole cinematografiche. Mi sarei guardata cento volte i film dove Leonardo di Caprio era il protagonista e altrettante quelli diretti da Steven Spielberg. Alla fine, ce ne andammo con in mano il VHS di Mamma ho perso l'aereo.
«Qualcosa di natalizio è proprio quello che ci vuole», disse David, risalendo in auto.
«Già», concordai, lasciando penzolare fuori il braccio dal finestrino. Il tettino era abbassato e un vento afoso e appiccicoso mi accarezzava piacevolmente la pelle.
David guidò fino alla villa di famiglia, situata qualche metro dopo la cascina di Marco. Attraversare il viale di cipressi mi fece uno strano effetto, non c'ero più tornata dopo l'incidente e passarci sull'auto di David anziché in sella alla moto di Marco mi provocò un leggero turbamento. La casa era nascosta dietro una grande cancellata di ferro, che si aprì al nostro passaggio. Il piazzale lastricato era circondato da siepi tagliate a regola d'arte che conducevano all'edificio, il quale si ergeva su tre piani. A vederla da fuori quella villa pareva un colosso enorme di cemento. Aveva una linea moderna ed era contornata dagli alberi. Non appena scendemmo dall'auto, due bestioni neri di Rottweiler ci vennero incontro, abbaiando. Mi immobilizzai, indecisa se tornare dentro l'abitacolo oppure mettermi a correre a gambe levate e gettarmi di testa in piscina.
«Tranquilla, non sono aggressivi, non hanno mai staccato il braccio a nessuno, al massimo un dito». Mi strizzò l'occhio David.
«Molto rassicurante». Lasciai ai due animali la possibilità di annusarmi.
«Giove, Marte, tornate dentro, lei è un'amica!»
I due cani smisero di sniffarmi come se fossi una costoletta di agnello e seguirono l'ordine del loro padrone, correndo di nuovo verso la porta del garage. Tornai a respirare.
«Non dirmi che sei una di quelle persone che hanno paura di due cucciolotti innocui?»
Scossi la testa. «Nessuna paura», mentii. Alla faccia dei cucciolotti, quelli erano veri e propri giganti!
Lui mascherò un sorriso, affiancandosi a me per condurmi verso l'entrata. «Per un attimo ho pensato che avresti fatto pipi sul vialetto».
Mi impermalii, mettendo su una specie di broncio, che però fece soltanto ridere David con più forza. Non appena entrammo, la luce del salone si accese in modo automatico, mostrando una zona giorno degna di una rivista di arredamento. Una lunga serie di faretti illuminava il divano in pelle marrone. Le pareti erano rivestite di carta da parati che raffigurava tanti piccoli mattoncini bianchi, il gioco di luci e colori era sbalorditivo. Non avevo mai visto niente di simile, pareva una casa del futuro.
«Vieni, andiamo di sopra».
Seguii David sulla scala a chiocciola. «Tuo padre?» chiesi, mentre salivo a uno a uno i gradini che parevano fluttuare nel vuoto, dal momento che erano completamente privi di parapetto.
«Lui fa sempre tardi a lavoro», disse, aprendo la porta della sua stanza e facendomi il gesto di entrare.
Non avevo mai visto una camera così perfetta e anonima allo stesso tempo. Le pareti erano bianche, quasi asettiche. Sulle mensole c'erano le coppe che aveva vinto con le gare di nuoto e alcuni quadrettini che raffiguravano un David bambino dai capelli rossi e dal naso troppo grande per una faccia ancora acerba. In alcuni era ritratto da solo, in altri con il padre e la madre. Guardai quest'ultima e pensai che avesse gli stessi occhi di David; quello sguardo sfrontato, adulto e quel colore cristallino, così dannatamente attraente.
«Patatine al formaggio o classiche?» chiese David, aprendo un armadietto e distogliendo la mia attenzione dai ricordi di famiglia.
Lasciai che riempisse la ciotola con un po' di entrambi i gusti, poi lo osservai stappare anche due lattine. Mi misi a sedere sul tappeto, appoggiando la schiena contro il letto. David inserì il VHS nel registratore, spense la luce e venne a sedersi al mio fianco, posizionando il cibo sulle nostre ginocchia.
Avere David così vicino, sapere di trovarmi nella sua stanza con il suo profumo ovunque, mi fece sentire tutta scombussolata. Guardai il film in tensione, cercando di ridere alle scene più divertenti per sdrammatizzare l'imbarazzo. Non che la compagnia di David non fosse piacevole, lo era, ma era anche qualcosa di nuovo che dovevo imparare a gestire senza arrossire o imbarazzarmi quando le nostre dita si sfioravano per prendere le patatine. Alla fine del film, David bloccò l'immagine sui titoli di coda. Restammo qualche istante in silenzio, al buio, con la fioca luce dello schermo. Non riuscii a non pensare quanto tutto ciò fosse irreale; David Bucci che mi sedeva vicino, ai piedi del suo letto, dentro al suo paio di pantaloncini azzurri del circolo di nuoto, le solite Reebok bianche e una maglietta Replay che gli scendeva morbida sul corpo. Figo! Avrebbe detto Vilma. Impensabile. Era l'unica cosa che riusciva a venirmi in mente. In quel momento avrebbe dovuto essere in una spiaggia assolata di Ibiza a festeggiare la fine delle superiori oppure insieme a qualsiasi altra ragazza abbastanza decente della scuola. Non aveva senso che mi trovassi lì con lui, non si spiegava come fosse potuto accadere, come continuava a ripetersi ogni sera.
«Ho trovato un appartamento», disse David a un tratto, giocherellando con il telecomando.
«Oh, è una cosa positiva. Per te, intendo, per la tua partenza...»
«Sì, c'è un tizio che è amico di mio padre, ha una casa in centro e affitta stanze agli studenti».
«Bene», annuii. Non sapevo cosa avrei dovuto dire di preciso, non mi passava dalla testa niente di migliore.
David puntò un dito verso il fondo della stanza. I miei occhi riuscirono a mettere a fuoco quello che mi stava indicando e il mio cuore ebbe quasi un fremito, lo sentii congelarsi e poi riprendere a pompare veloce.
Si trattava di un borsone gigante.
«Partirò domani pomeriggio. Ho il treno a mezzogiorno», spiegò.
«Domani?» boccheggiai.
«Andrò a vedere la stanza e resterò per sbrigare tutte le pratiche burocratiche prima dell'inizio dei corsi».
«Quando tornerai?» La domanda mi uscii spontanea, non riuscii a trattenerla. Ero patetica? Già. Mi dimostravo interessata a lui? Forse. Lo ero? Probabilmente sì.
«Non lo so, il primo fine settimana disponibile?» Le sue dita smisero di torturare il telecomando, spostarono le ciotole vuote che tenevamo ancora sulle ginocchia e si avventurarono ad arricciare una ciocca dei miei capelli sfuggita all'elastico. «Perché tutte queste domande? Ti mancherò?»
Avvertii il cuore balzarmi in gola. «Tu? No! Cioè non volevo dire no, volevo soltanto... Io... io avrò così tante cose da fare, tra pochi giorni riprenderà la scuola e poi Marco avrà bisogno del mio appoggio... sarò così occupata che...»
David sorrise con malizia e dolcezza, mi mise i capelli dietro l'orecchio, inclinò la testa, si avvicinò sempre più e alla fine posò la bocca sulla mia. Rimasi senza fiato. Le sue labbra erano morbide come caramelle gommose e il suo respiro così caldo che mi mandò letteralmente a fuoco la pelle.
«Allora? Ti mancherò?» Mi fece nuovamente la domanda, parlando a un soffio dalle mie labbra.
Mantenni lo sguardo a terra, non riuscivo a spostare l'attenzione sui suoi occhi, almeno fin quando non furono le sue dita a sollevare leggermente il mio viso. Mi ritrovai faccia a faccia con lui e con tutte le mie più grandi paure. «Credo di sì», balbettai, «credo che mi mancherai».
David chiuse gli occhi e posò di nuovo la sua bocca sulla mia, questa volta il bacio non fu un semplice tocco, ma qualcosa di più profondo, che non avevo mai provato prima. Era uno di quei baci che si sognano con la Smemo aperta sulle ginocchia. Era il bacio che Jack aveva dato a Rose sulla prua del Titanic. Era un bacio profondo, che mi lasciò il corpo in estasi, l'animo sconvolto e il respiro totalmente strozzato.
Quando tutto finì, prima che entrambi avessimo modo di parlare di ciò che era appena successo, fummo sorpresi da dei rumori provenienti dal piano inferiore.
David si grattò la nuca. «Credo che sia tornato mio padre», affermò.
«Allora è meglio se mi accompagni a casa».
Lui annuì, si alzò in piedi e accese la luce, facendo stringere gli occhi di entrambi. Sotto l'illuminazione del neon mi sentii fin troppo nuda.
«Questo era un bacio vero», mi disse, sorridendo. «Le patatine non contengono alcol».
«Già», replicai, confusa e imbarazzata.
David uscì dalla stanza e io lo seguii giù dalla scalinata. Avevo i pensieri che viaggiavano a mille se non a duemila all'ora; un turbine irrequieto che mi faceva sentire completamente sottosopra. Tutto quel trambusto che c'era dentro la mia testa fu alimentato ulteriormente dalla scena che trovammo in salotto. David si immobilizzò sull'ultimo gradino, inchiodò come se fosse improvvisamente scattato un semaforo rosso invisibile. Io mi fermai dietro di lui, andandogli a sbattere contro la schiena.
Sul divano in pelle c'era un uomo, il padre di David, per la precisione, e sotto di lui c'era una donna.
«Che succede qua?» boccheggiò David.
I due balzarono in piedi, lui sistemandosi la giacca e lei stirandosi le pieghe del vestito.
«David, io... io credevo che tu stessi già dormendo, ma posso spiegarti tutto quanto, posso farlo...» disse l'uomo, venendoci incontro.
«Non servono spiegazioni, papà. Ho abbastanza esperienza e immaginazione per sapere cosa stava succedendo», rispose David con tono freddo.
«Lei è Selene, Selene lui è mio figlio David», biascicò l'uomo. Era evidente che non sapeva bene come muoversi e cosa fare.
La donna allungò la mano, portava un grosso anello con una pietra centrale e alcuni braccialetti le ciondolavano tintinnanti dal polso scarno. Il suo volto era teso, ma si sbilanciò comunque in un sorriso.
David però fece finta di non notare quell'approccio e si rivolse di nuovo al padre: «È una cosa seria?»
Quest'ultimo guardò il figlio in modo grave e, nel frattempo, posò dolcemente una mano sulla spalla magra della donna. «È una cosa seria, figliolo», disse.
«Perché non me ne hai mai parlato?»
«Lo avrei fatto, lo avrei fatto molto presto, ma avevo bisogno di trovare il momento giusto e... ecco... ci sono stati i tuoi esami, poi l'incidente di Marco e la separazione di mio fratello e poi tu hai deciso di andare a studiare fuori e io non volevo darti ulteriori pensieri...»
«Quindi hai già dimenticato la mamma?»
Quel già strideva come le unghie su di una lavagna e David lo sapeva. Lui sapeva che erano passati anni dalla morte di sua madre. Prima o poi suo padre si sarebbe dovuto rifare una vita. Era ovvio. Ma nei suoi occhi non c'era nessun segno di cedimento, nei suoi occhi c'era la paura, la solitudine, la nostalgia di un qualcosa che non sarebbe tornato mai e poi mai.
«Io non ho dimenticato tua madre, non potrei, lo sai, ma è passato del tempo e ho conosciuto Selene. Lei mi ha dato la forza per ricominciare ad amare. Non è stato semplice, non è semplice, ma grazie a lei adesso ho ripreso a vivere».
«La mamma non si sostituisce». La voce di David era rauca, quasi strozzata. Era evidente che stava trattenendosi dal piangere.
«Nessuno vuole sostituire tua madre».
«Invece sì e lo hai fatto nel momento stesso in cui hai portato questa donna dentro questa casa», sputò fuori David, lanciando uno sguardo torvo a quella che lui vedeva come sostituta di sua madre, poi mi prese per mano e mi trascinò fuori. Da quel momento, il nostro bacio passò in secondo piano, anzi, il suo semplice ricordo si annullò decisamente. David guidò senza pronunciare una parola. Tirò fuori dal portaoggetti l'autoradio, la inserì e alzò a tutto volume la musica che passava dalla prima stazione. Era una canzone dance, di quelle da ballare in discoteca su di un cubo con indosso un paio di zeppe alte almeno dodici centimetri. Il tempo scandito dalla batteria mi faceva balzare il cuore in gola. David pigiò forte per quasi tutto il tragitto e io non ebbi il coraggio di dire niente. Quando arrivammo sotto casa, mi salutò con un semplice ciao, poi ripartì. Tutto lì, niente più. Il vuoto mi assalii non appena la sua auto svoltò la curva per allontanarsi dal quartiere. L'indomani sarebbe partito e noi non ci eravamo neppure salutati a dovere. Ci eravamo baciati, quello era molto più che un saluto, ma in quel momento mi sembrò soltanto un modo per dirmi addio. Salii nella mia stanza con il cuore a pezzi. Indossai la felpa che mi aveva regalato lui stesso in ospedale, quella acetata, con le tasche di lato. La indossai sopra alla canottiera e ai pantaloncini e mi buttai sul letto; le cuffie dentro le orecchie e lo walkman posato sulla pancia.
Il bacio con David di quella sera era stato fantastico, la fine della giornata, invece, una delusione totale.
Il caldo e le zanzare mi mangiavano le gambe nude. Lasciai che lo facessero, mentre la voce di Jovanotti che cantava: Quando sarai lontana, si occupava di squartarmi l'anima.
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Quando sarai lontana parla di un ragazzo che rimpiange la sua donna, lasciata per amori facili e serate brave. È un pezzo triste e malinconico quindi, coraggio, cuffie alle orecchie e occhi lucidi. Questo è il Jova anno 1991.
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