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Capitolo 9

Spesso non te ne accorgi. Alcune cose fanno male solo quando ci vai a sbattere contro.
Zia Lenore mi diceva sempre di trovare la forza, che ce ne sarebbe voluta tanta a sopportare le cose dolorose. Ad accantonare la paura, a non arrendersi pur sapendo che ci sono desideri che non possono realizzarsi. Ma non passa tutto come vogliono farti credere. Ti rimane addosso il peso di ogni sensazione provata. Ti rimane sulla pelle ogni livido, ogni botta che hai incassato. Il tempo scorre e copre tutto, ma ogni cosa rimane nascosta, latente. Niente passa, non quello che ti ha tagliato di netto il cuore e ti si è inciso addosso in maniera indelebile.
«Willa, ci sei?»
«Uhm?», riemergo scacciando la nebbia che mi avvolge.
Da una settimana, sto cercando di andare oltre, di far finta che non sia mai accaduto niente. Ma ho bisogno di tempo e anche se ci sto provando, tutto mi trascina indietro, a quegli istanti interminabili che, in un loop continuo, ritornano e sembrano volermi punire.
Luke corruga la fronte, passa le dita tra i capelli poi mi si avvicina togliendomi la penna dalle mani. Afferrandomi per i polsi mi tira in piedi e continua a mantenere lo sguardo fisso sondando nei miei occhi.
«Sei più strana del solito oggi».
Scaccio le sue mani e vado a prendere un biscotto dalla scatolina di latta, scegliendone uno con lo zucchero di canna cosparso sulla superficie. Gli altri, quelli decorati, li ho dovuti regalare per evitare di vederli. Lo addento avvicinandomi alla vetrata.
Stanno costruendo un palco e degli uomini stanno sollevando un abete mastodontico con un montacarichi. L'albero, un po' spelacchiato a causa dei continui urti, andrà proprio al centro del palco.
Arriccio il naso dando le spalle allo spettacolo che mi fa rabbrividire.
Non mi sono ancora abituata alla musica, ai sorrisi, alla vista di quegli elfi pronti a fermarti per avere delle monete o a proporti dei servizi in vari centri, a tutte quelle piccole decorazioni con la neve che tentano di propinarti come possibile regalo quando vai a fare una qualsiasi commissione.
«Non sono strana. Ho solo fretta di completare i lavori e non sentire più quelle dannate canzoni. Anche se penso che una volta essere tornata a New York me ne andrò in analisi».
Luke sorride sfogliando un fascicolo. «Sono sicuro che prima o poi non ci farai più caso. E non voglio che te ne vai».
Sbuffo staccando la testa a un biscotto, un insulso omino di pan di zenzero con bottoni e una bocca simile a due cuscinetti gonfiabili rossi, che trovo in fondo alla confezione.
«Ti ho già detto che odio il Natale? Perché questo biscotto era qui?»
«Praticamente da quando abbiamo iniziato a lavorare», replica bevendo un sorso di caffè. «Solo... non capisco il perché. E quello era per me, ma l'hai appena decapitato».
Mi lascio ricadere sul divano. «Ti ho risparmiato la fatica di masticarlo. Scusa se lo dico ma è bruciato, duro e fa schifo perché sa di segatura. Soprattutto questa bocca sembra un profilattico appena uscito dalla confezione e non ancora srotolato», osservo il pezzo con disinteresse. «Comunque è una lunga storia. Allora, che cosa ci serve oggi?»
Luke soppesa il mio sguardo. Non lascia uscire apertamente i suoi pensieri e ha evitato come la peste di nominare qualcuno, soprattutto quando è andato da lui a ordinare il materiale. In parte sa da cosa deriva davvero il mio pessimo umore.
«Non sembra un profilattico ed è fatto con farina di frumento. Se vuoi anche oggi possiamo andare a dare un'occhiata», replica togliendomi dalle mani il pezzo di biscotto decapitato.
Pulisco le dita dalle briciole. «Volentieri. Ho notato che non disdegnano quello che gli portiamo e quando siamo lì a supervisionare o ad aiutare».
Getta il bicchiere di carta nel cestino mangiando il resto del biscotto. «Non disegnano perché possono vedere te», ghigna.
Mi sollevo. «Oh oh, era una battuta quella?»
Luke ha un animo gentile. Un carattere docile, ma sa come farsi rispettare quando entra proprio in azione nelle vesti di avvocato. Più volte mi è capitato di assistere a una videochiamata di lavoro e a vederlo sul campo in aiuto a uno dei suoi clienti ed è riuscito a sorprendermi. Penso anche che sia sprecato per questo posto e gliel'ho pure detto.
Infila il giubbotto e il berretto. «Andiamo, piccolo Grinch».
Mi incupisco e per un attimo ho la netta sensazione di avere sentito quella voce. Ma è solo l'eco di un ricordo. Un pizzicotto fastidioso sulla pancia.
«Dammi un momento», mi preparo infilandomi nel minuscolo bagno dove apro la finestra e in affanno provo a calmarmi mettendo i polsi sotto l'acqua fredda.
Costa sempre tanto seppellire il dolore dietro un sorriso. Pesa portare una maschera che continua a creparsi, a esporre pezzi di anima, pezzi di me che non so più come vivere. Mi sento sola, mi sento triste. Mi sento come quando vaghi alla ricerca di qualcosa che sai di tenere dentro ma non ricordi più. E te ne stai lì, in bilico.
Quando torno dentro la stanza, Luke mi aspetta comodamente seduto sulla poltrona, dietro la scrivania. La tira indietro facendo strisciare le ruote sul parquet e facendomi cenno lo seguo fuori dall'ufficio.
Nel corso della settimana, mi ha aiutato in tutto e per tutto. Mi ha fatto da amico, da guida, da mentore. Tra di noi si è instaurato un buon rapporto. Ormai ci capiamo al volo. Cosa che non mi accadeva con le mie amiche; le quali non si sono nemmeno degnate di farsi sentire. Stessa cosa per la mia famiglia. Ma quanto ancora resisterà nonna Ines con il suo voto del silenzio?
Insieme a Luke abbiamo organizzato in fretta i lavori perché aveva già delle piantine e dei modelli di riferimento. L'unica cosa che ho chiesto agli operai è quella di non cambiare niente della struttura iniziale, di non aggiungere nessuna stanza per ingrandire la villa. Voglio che ogni cosa rimanga sulla base di quella passata.
Il tempo oggi, stranamente, sembra reggere. L'aria è tanto fredda e nuvole di condensa escono dalla bocca mentre camminiamo in direzione opposta alla Jeep dai vetri oscurati di Luke.
Lo guardo di sbieco con sospetto. Se ne accorge e circonda le mie spalle con un braccio per una manciata di secondi. «Stiamo solo andando a prendere qualcosa di caldo per gli operai», spiega.
Abbasso le difese ritrovandomi in hotel.
Darlene ha già predisposto l'ordine che Luke deve averle fatto mentre ero distratta. Lo fa trovare sul bancone sotto strati di incarto e stagnola. Ma l'odore si sente comunque.
«Ce n'è anche per voi due», ci porge tutto con un ampio sorriso. «Spero stia andando bene lì fuori. Il tempo sembra persino essere a tuo favore».
Stringo il fagotto tra le braccia, percependo odore di pollo in salsa piccante e riso al curry. Mi sale l'acquolina e mi concentro sulla conversazione per non sbavare. «A quanto pare gli operai mi apprezzano», mostro i denti.
Darlene ride. «Ho saputo. Qualcuno apprezza anche i tuoi discorsi, la tua gentilezza, non solo la tua bellezza. E il fatto che ti sporchi le mani e non sei una di quelle ragazze schizzinose. Non apertamente quanto meno».
Luke prende il secondo fagotto e la busta con i termos pieni di caffè. «Sarà meglio andare».
Annuisco seguendolo verso la porta scorrevole. «Grazie», saluto Darlene e ritorniamo verso l'ufficio per prendere l'auto.
«Posso sapere come stai?»
Mi fermo a osservare un enorme tabellone con tutte le attività previste nel corso della settimana. «Perché iniziare a novembre?», borbotto.
Luke non capisce, legge distratto un messaggio cacciando il telefono dentro la tasca del giubbotto grigio scuro poi apre la portiera della sua auto caricando il tutto sui sedili posteriori.
Salgo su e allaccio la cintura sfilando i guanti, muovendo le dita intorpidite. «Non penso mi abituerò mai al freddo. Sto invidiando le spiagge delle Maldive».
Luke scuote la testa. «Sono sempre del parere che prima o poi smetterai di arricciare il naso per tutto e ti sentirai a casa».
Mordo il labbro facendo una smorfia. «Non mi sono mai sentita a casa da nessuna parte».
Guida con calma, fa passare un gruppo di bambini con i berretti rossi di Babbo Natale.
«Sono ovunque!», brontolo irritata. «Sono come il prezzemolo tra i denti».
Non commenta cominciando la salita fino a posteggiare nella piazzola insieme ai furgoni.
Non appena ci vedono arrivare, fischiano e qualcuno ci dedica un applauso.
Adagio il pranzo sul tavolo che hanno costruito per le piantine e i termos e li chiamo tutti dirigendomi sul retro della casa, che oggi ha poco meno di una parete in piedi. Stanno facendo un ottimo lavoro, specie dalle fondamenta. Sono davvero bravi.
Non appena vedo Clayton, il mio mondo dapprima si inclina poi vacilla e il mio cuore precipita come se me lo stessero strappando dal basso. Guardo ovunque come una ricercata.
«Signorina Smith», mi saluta con un sorriso dolce.
«Ho pensato vi servisse qualcosa di caldo da mettere sotto i denti. Vedo che si è unito alla squadra, signor Wood».
Mi segue verso quella che sarà la cucina. «Sto solo dando una mano, spero non sia un problema».
Nego. «Affatto. Anzi, non so come ringraziarla. Mi sta già rifornendo del materiale».
Scaccia la questione con la mano. «Sto aiutando la nipote di una mia amica a non perdere un pezzo di lei».
Corrugo la fronte ma non commento perché siamo di fronte al tavolo e gli operai stanno già distribuendo i piatti.
Ne prendo uno andandomi a sedere sulla rampa delle scale. Non scricchiola più come il primo giorno in cui ci ho messo piede per fare una lista dei lavori e del materiale da comprare.
Affondo la forchetta nel riso rigirandolo prima di versarci sopra il pollo.
Clayton si siede accanto a me. «Stai facendo un ottimo lavoro. È impressionante la tua organizzazione».
«Lo stanno facendo loro al posto mio, visto che non sono capace a mettere neanche un chiodo».
«A me hanno detto il contrario».
Osservo le travi, i teloni, le pareti mancanti che hanno dovuto abbattere perché piene di umidità poi ancora la parte in cui ci sarà un giardino e il vialetto. «Sai perché ha scelto questa villa?», domando.
Nega massaggiando il mento prima di addentare un po' di pollo. La mia domanda lo ha colto alla sprovvista. «Lenore aveva la tendenza ad occuparsi da sola dei suoi affari. Le sarà piaciuta quando ha visitato le ville appena è arrivata con la sua valigia color glicine e il suo maglione di puro cashmere».
Sorrido ricordando quella valigia e quel maglione. «Mi manca. Mi manca e non sono riuscita a dirle addio. Non sono riuscita a vederla un'ultima volta perché a quanto pare aveva organizzato quello che voleva per il momento della sua morte e per quello della sua sepoltura. Era così pratica, così autonoma, da pretendere di essere cremata e non esposta a nessuno. Non ho potuto neanche darle un bacio».
Clayton sa quello che sto dicendo. «Non l'hanno fatta vedere neanche a me, se ti può consolare questo. I ragazzi delle pompe funebri hanno fatto quello che gli era stato chiesto da lei senza esitare o perdere tempo».
«Ma perché non permettermi di salutarla? Non sono neanche andata nel luogo dell'incidente per portarle un fiore perché nessuno, a quanto pare, riesce a raggiungerlo a causa delle forti nevicate. Che cosa ci facesse poi da sola, ancora non mi è chiaro».
Alza le spalle finendo il suo riso in silenzio. Poco prima di tornare al lavoro, si volta e mi dice: «Quello che so è che ti voleva bene. Un bene che va oltre ogni immaginazione».
Rimango sola a fissare i rimasugli del pranzo dentro una ciotola di stagnola e mi sento appesantita da tutto quello che mi sta succedendo in questi giorni difficili dal punto di vista emotivo.
Ho dovuto evitare come la peste qualsiasi luogo pubblico per non incappare in Milly, che ha divulgato in fretta la notizia generando uno strano odio nei miei confronti e in alcuni una curiosità maggiore e mi sono limitata a stare qui e a rifugiarmi nella mia stanza, in hotel, a guardare serie TV e a ingozzarmi di popcorn e schifezze per sopperire la mancanza del mio ambiente e sedare quei pensieri che affollano la mia mente. Ho persino fatto shopping dal computer fisso di Darlene. La mia scorta di libri è in arrivo insieme a maglioni e indumenti che non hanno nessuna immagine natalizia stampata sopra e che non mi fanno prudere la pelle.
Luke mi raggiunge. «Perché quel muso lungo?»
«Ero solo persa in un vagone dei ricordi». «Che ne dici se stasera usciamo e andiamo a bere qualcosa?»
«Stai ancora cercando di attirare l'attenzione di quel ragazzo che si piazza sotto la tua finestra travestito da Gnomo? Sai già di averlo conquistato».
Arrossisce. «Io... lui...»
Rido. «Non fingere!»
Mette i palmi in avanti. «Come l'hai capito? Chi te l'ha detto?»
«Mentre siamo in ufficio esci a prendere il caffè più di una volta al giorno, quando hai una macchinetta proprio nello sgabuzzino. E ho sbirciato dalla vetrata».
Le sue guance si imporporano maggiormente. «Beccato, piccola detective. Allora?»
«Prima devo lavorare», mi sposto fuori, ad aiutare e a dare il mio contributo.
Dopo qualche ora, seguo Luke fuori. Salutiamo gli operai ringraziandoli e concedendogli di smettere prima che faccia sera e il freddo impedisca loro di lavorare senza intoppi.
In auto Luke appare meno teso. Inarco un sopracciglio. «Prima... ti sei sgonfiato come un palloncino».
Gratta la tempia. «Scusami. Avevo solo il timore che non accettassi la cosa».
Lo guardo stupita. «Scherzi? È la novità del momento e poi, è la tua vita, Luke. Se lui ti vuole bene, devi avvicinarti e non tenerlo nascosto».
Cambia marcia. «Questo non vale anche per te?»
Una fitta mi trapassa. «Per me? No, non ho nessuno travestito da gnomo ad aspettarmi fuori dalla porta», lo prendo in giro e lui mi spinge affettuosamente.
Fermiamo l'auto nel parcheggio vicino al suo ufficio. Luke abita lì vicino, in un appartamento piccolo, elegante ed essenziale. Aspetto che si cambi e lui fa lo stesso in hotel, aspettandomi seduto al bar.
Appena scendo, indossando pantaloni neri, anfibi e cappotto pesante, mi viene in contro. «Pronta per ubriacarti?», domanda trascinandomi fuori.
«Perché non inviti il tuo amico?»
Massaggia la nuca. «Perché la mia amica è un po' triste in questi giorni e ha bisogno di me», rimane in sospeso, insicuro di avere detto qualcosa di sbagliato.
Gli occhi mi si fanno lucidi. Emetto un lieve verso gutturale e lo abbraccio. «Grazie, ma so cavarmela benissimo da sola e tu hai bisogno di stare con lui. Invitalo, sarà divertente vedere quelle persone storcere il naso quando inizierete a pomiciare».
Indugia. «Sicura?»
«Di vedervi avvinghiati e sentirmi il terzo in comodo, no, ma di vedervi insieme sì».
«Non ci avvinghiamo, non in pubblico».
«Sbrigati, mi si sta congelando il culo».
Ride e io mi volto per un momento rimanendo spiazzata.
In questi giorni ho cercato di evitarlo con tutta la mia volontà. Ma questo non è il mio paese e lui non è invisibile.
Il cuore prende a battermi forte e rimango disorientata per un paio di minuti in cui avverto solo il bisogno di scappare, di tornare davvero da dove sono venuta.
Sento i suoi occhi addosso. Percepisco la loro pericolosità e sono ovunque, sono una trappola, mi fanno cedere le gambe. Però sollevo lo stesso il capo, correndo il rischio di annegare in quel lago ghiacciato, profondo, oscuro.
«Vincent si unirà a noi», Luke interrompe lo scambio con un sorriso, ma notandomi intristita e forse anche la ragione che se ne sta a poca distanza, insieme a uno degli operai, decide di distrarmi portandomi in un locale.
Le luci sono soffuse, un po' troppo. All'entrata ci accoglie una calotta di fumo.
«Sicuro che siamo nel posto giusto?»
«Perché?»
«Sembra tanto il covo degli ubriachi del paese».
Un enorme e lungo bancone di legno su una struttura di pietra, si estende da parete a parete. Dietro, un barman sta servendo birra, vino e tanto altro con abilità e velocità. Alle sue spalle, mensole piene di bottiglie e bicchieri di ogni grandezza.
Osservo la mia immagine riflessa in quello specchio e poi continuo a seguire Luke verso i divani disposti a ferro di cavallo con al centro dei tavoli simili a francobolli, tenuti in piedi da un'asta sottile di legno scuro che si snoda come se fosse il ramo di un albero.
Intorno c'è odore di vino, di birra e questi vanno a unirsi a quello delle persone che passano, si fermano davanti al bancone o corrono a ballare in pista.
«Birra?»
«Preferisco il vino, per iniziare».
«Non devastarti».
Rido e lo osservo mente si dirige verso il bancone.
Nel medesimo istante mi è impossibile non notare Nicolai. Fa il suo ingresso togliendo il berretto e insieme al suo amico si dirigono dapprima al bancone poi con una bottiglia a testa e un calice si siedono proprio al tavolo accanto.
Mi irrigidisco. Spero non si accorga di me e quando Luke torna insieme al mio vino e al suo amico, Vincent, un ragazzo non tanto alto e in apparenza gracile se visto da vicino, mi distraggo e cerco di essere socievole; nonostante il mio umore sia peggiorato ulteriormente.
I minuti diventano ore e mi ritrovo al mio ennesimo bicchiere di rosso corposo, appoggiata al divano che probabilmente avrà un sacco di germi. Ma non ci penso. Ho solo la mente che comincia a liberarsi.
«Willa? Ehi?»
«Uhm?»
«Vieni a ballare?»
«No, no, no. Non so ballare. Somiglierei a un folletto con gli spasmi», rido istericamente al pensiero di mettermi in ridicolo.
«Se ci ripensi siamo in pista».
«Andate pure e fate vedere come si fa».
Sentendomi a disagio, in parte una dei pochi ancora seduti, mi alzo e infilandomi il cappotto esco fuori vedendo ogni cosa appannata. Ho proprio bisogno di aria.
Qualcuno prova a fermarmi ma lo spingo via biascicando di no.
Appena sono fuori, ansimo. L'aria fredda mi investe e riprendo a respirare.
«Tutta sola?»
Il cuore mi balza in gola. Un tipo alticcio mi si avvicina. Indietreggio correndo il rischio di scivolare e fare una spaccata degna di una ginnasta in pensione.
«No, i miei amici sciono dentro», indico il locale. Sto biascicando in maniera evidente. «Non sciono per niente sola in questo foffuto povsto!»
Ha un volto familiare ma al momento non riesco proprio ad associarlo, neanche strizzando le palpebre.
I capelli biondi gli escono dal berretto rosso vinaccia che gli arriva fino alle sopracciglia folte; puzza come una distilleria chiusa da anni e indossa abiti seppur di un marchio noto, macchiati. L'olezzo che emana la sua pelle è rivoltante e la nausea inizia a farsi sentire, soprattutto appena mi si avvicina di un altro passo provando a toccarmi una spalla.
Non avendo intenzione di spingerlo, perché è come un possibile barile pieno di germi, mi volto e provo a raggiungere l'entrata.
«Dove scappi? Sei quella nuova, non è vero?», sorride mostrando denti storti di cui alcuni ingialliti e vi passa su la lingua che, simile a quella di un serpente, esce fuori e vibra prima di muoversi lasciando un alone umido su quei solchi dati dal freddo.
Sento il disgusto prendere il sopravvento e sono sempre più prossima a vomitare.
«Ti consiglio di stave ala lavga da me!», provo a essere convincente ma somiglio tanto a un pappagallo ubriaco.
L'uomo mi blocca il passaggio posando una mano al lato della mia testa.
Gesù! l'odore del suo alito è peggio di quello di una discarica di gatti morti e carcasse di pesce.
Visto da vicino non è sporco ma la sua pelle è come se trasudasse. Sembra uno in crisi d'astinenza.
«Perché non vieni con me? Potrei mostrarti la bellezza del paese e offrirti anche qualcosa che potrebbe risollevare il tuo umore».
Un conato sale insieme a un rutto e lo trattengo a stento tappandomi la bocca. Per poco non scoppio a ridergli in faccia senza una ragione; in parte forse per essere stata volgare.
«Ho detto di no», cantileno strascicando le parole.
«Hai sentito? Vattene!»
Il cuore prende a battere un ritmo frenetico. Difficile controllarlo. Difficile fermarlo, ordinargli di smettere di bussare forte sullo sterno torturandomi, facendomi sentire non solo ubriaca ma debole.
«E tu che cazzo vuoi? Dove hai lasciato Milly, torna da lei. Non vedi che ho da fare con questa bella bambolina?»
Il tizio prova a toccarmi e mi scanso disgustata. «Bambolina a chi, razza di montone fetido! Che vuoi da me? Ho detto di no, vattene!», non so a chi dei due sia diretto il mio rifiuto, forse a entrambi. Ma la mia borsetta si agita verso la spalla del tizio, perché mossa dalla mia mano.
Mi sto comportando come una vecchietta che hanno provato a scippare. Mi sto ribellando senza risultato, visto che l'uomo si è appena fatto da parte e sto continuando a lanciare la borsetta fendendo l'aria.
«Hai sentito? Ho detto vattene!»
Nic indurisce i lineamenti e stringe il pugno in vita quando l'uomo gli si avvicina come un animale feroce dopo avere fatto schioccare le ossa del collo.
«Chi ti credi di essere, eh?»
«Sono chi sta per farti il culo a strisce se non ti allontani».
Ride. «Ma davvero?», lo spinge. «Perché non ci provi e fai vedere a tutti di che pasta sei fatto, Nicolai il cornuto», gli ride in faccia.
Non riesco a seguire tutto perché vedo solo un unico movimento quando il montone prova a colpirlo: quello del pugno di Nic che si schianta sulla sua mascella prima di vederlo scivolare lungo i gradini come una trottola e atterrare in basso. Nic lo raggiunge mollandogli un calcio sull'addome. «Se ti trovo ancora nei paraggi, pronto a importunare qualcuno, aspettati il resto, lurido bastardo! E per la cronaca, ti sei fatto una persona usata da tutti. Da chi credi di avere contratto quell'infezione quando sei finito in ospedale».
L'uomo sputa una poltiglia rossa e con i denti imbrattati di sangue e un occhio chiuso, lo fissa in cagnesco. «Sarà divertente sbattermela ancora, sappiamo che non sa resistere quando non le dai attenzioni. Ho saputo che nonostante tutto state ancora insieme. Chissà che cosa avrà lasciato a te».
Nic non lo guarda, gli dà le spalle. «Dirò a tuo padre che non ti sei ancora ripulito».
L'uomo si allontana zoppicando e minacciandolo ma la mia attenzione è assorbita dalla sua vicinanza. Massaggia il pugno prima di sbatterlo forte contro la porta di ferro.
«Porca puttana!»
Si volta affannato e io rischio di scivolare all'indietro trovando un mucchio di neve sporca alle mie spalle. Mi afferra in tempo. Le sue dita si artigliano tempestive sui miei fianchi avvicinandomi a sé.
Il movimento fa irrigidire il mio corpo che rifiuta il suo tocco, pur bramandolo. Qualcosa dentro di me scatta nell'esatto istante in cui ci guardiamo: io così spaventata, lui così sicuro. Io così lontana, lui così vicino a me. Lo spingo via e correndo all'angolo, piegata a causa di un'ondata di nausea e rabbia, vomito.
Senza esitazione, senza parlare, mi si avvicina tirando indietro i miei capelli. Vorrei dirgli di non toccarmi, ma la debolezza dovuta agli spasmi si fa sentire e forse intuendo, attende che io stia meglio assicurandosi che mi regga in piedi per fare un passo indietro.
Pesco un tovagliolo dalla borsetta, frugo e caccio in bocca una mentina e con la testa appoggiata al muro, provo a fermare il mondo che gira, ma questa volta non a causa dell'alcol ancora in circolo.
Il suo silenzio mi abbatte. È uno sparo attutito e improvviso.
Dalla porta escono Luke e il suo amico. Sono preoccupati. Il primo mi adagia un braccio sulle sue spalle, l'altro non sa dove mettere le mani e si limita a guardarmi con apprensione e forse con compassione.
«Stai bene?»
«L'uomo delle nevi mi ha salvata da uno che puzzava di piscio di gatto rancido. Credo fosse il figlio di qualcuno. E ho appena vomitato davanti a lui, ma sento che sta arrivando altra nausea e che sarà una bellissima nottata. Che diavolo c'era in quel vino, uva e polvere di Natale degli anni passati?», rido per la mia pessima battuta e per il modo in cui continuo a parlare.
«Sarà meglio andare», mi dice rassicurante.
«Sì, sarà meglio, adesso!»
Si volta verso di lui che sta entrando nel locale. «Grazie».
«Non l'ho fatto per lei. L'ho fatto per me».
«Stronzo!», sbotto.
Luke comprende al volo qualcosa e insieme all'amico mi accompagnano in hotel poi mi scortano fino alla stanza dove li lascio tornare alla loro serata rassicurandoli, per quanto mi sia possibile, e ringraziandoli.
Rimasta sola mi cambio mettendo un pigiama e mi sdraio dopo avere vomitato ancora e ancora. Alla fine, sfinita mi addormento come un sasso.
Ma qualcosa, forse un rumore in camera o una folata di vento misto a profumo, mi ridesta e non appena sollevo le palpebre caccio fuori un urlo.
Se è un incubo, fermate tutto!

⭐️⭐️⭐️

~ N/a:
Buona sera, come va? Oggi mi sento un po' giù. In realtà lo sono da un paio di giorni per ragioni che non starò a scrivere per non annoiarvi. Sappiate solo che cerco di impegnarmi nonostante tutto.
Come avete letto, Willa sta cercando di mandare giù il boccone amaro dovuto alla reazione improvvisa di Nic. Che cosa starà succedendo in camera?
Grazie per avere letto questo capitolo. Come sempre vi mando un abbraccio virtuale,
Gio'.

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