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Capitolo 3

"Jingle Bell, Jingle Bell..."
Mi sollevo sulla schiena infastidita dalla canzone che è stata avviata per la terza volta, dopo un lungo suono in grado di attirare i pipistrelli, da qualche parte nella piazza su cui si affaccia la mia camera. Quella di un minuscolo hotel, per cui ho pagato una cifra a dir poco spropositata, in questo posto freddo e dimenticato da tutti.
Che cosa ci trovasse zia Lenore nell'Alaska, mi è ancora poco chiaro. So solo che non ho gli indumenti adatti per restare ancora un giorno. Rischio l'ipotermia.
I preparativi e la partenza sono stati improvvisi. Non ho avuto neanche il tempo di salutare le mie amiche o di vedere di persona il mio capo per chiedergli dei giorni di riposo da usare per questo spiacevole evento. Ho solo usato una banalissima e-mail che, quasi sicuramente, sarà andata a nascondersi in mezzo allo spam.
La canzone natalizia continua. Hanno appena aumentato il volume.
Emetto un basso ringhio e mi nascondo sotto la coperta.
Ho sempre odiato il Natale. In questo periodo sono paragonabile al "Grinch", ma in una versione meno tollerante.
La gente durante questo periodo impazzisce, sorride troppo e forse, il trovarmi in un ambiente paragonabile al villaggio vero e proprio di Babbo Natale, in un posto dove credono alla magia del momento, non aiuta e peggiora ulteriormente il mio umore.
Strizzo gli occhi nel tentativo di dormire ancora un po', ma attualmente non sembra possibile.
Scosto la coperta appena qualcuno bussa alla porta della minuscola stanza in cui mi trovo.
Si tratta di un quadrato con un bagno adiacente. Gli interni in legno scuro, le coperte di un beige discutibile ma doppie e morbide; in grado di tenere caldo. Le pareti tappezzate da una carta da parati floreale dal colore spento e il riscaldamento acceso al livello in cui è possibile stare seminudi, tanto si sta bene.
Qualcuno continua a bussare con insistenza alla porta. Infilo una vestaglia e mi avvicino abbassando la maniglia, pur tenendo il catenaccio allacciato e sbircio trovando mia nonna, l'espressione contrita, in attesa che mi dia una mossa e la faccia entrare in camera.
«Non startene lì impalata e apri la porta», ordina in tono brusco.
Si è svegliata di pessimo umore. Come non biasimarla.
Come me, anche lei, odia il Natale e ogni genere di festa volta al consumismo o a riunire le persone sotto lo stesso tetto. Forse perché, puntualmente, qualcuno in quelle occasioni litigava.
L'ultima festa che abbiamo vissuto come famiglia, è stata la vigilia, quella in cui zia Lenore ha dato la notizia della sua imminente partenza, scatenando l'ira dei miei genitori, già poco tolleranti nei suoi confronti, e di nonna Ines sempre pronta a impedirle di essere felice.
Apro la porta lasciandola passare. Entra in camera con una certa urgenza. Guarda ovunque come se dovesse trovarci qualcuno, poi si siede sul bordo del letto.
Oggi ha portato dietro il suo bastone da passeggio. Ieri ha solo finto per tutto il tempo di non sentire dolore alla gamba. Zoppica a causa di una vecchia caduta che non le ha più permesso di ballare, una delle sue passioni.
Lei non racconta mai come sono andate le cose. Dice solo, quando ne parla, che da allora la sua vita è cambiata completamente.
Ha forzato un po' la mano ieri e si è comportata in modo discutibile prima di lasciarmi sola a congelarmi e a fare la breve conoscenza di un uomo senza peli sulla lingua e con la voglia di farsi ammazzare.
Se ci ripenso il primo istinto è quello di calibrare bene e mollare un pugno su quella faccia che mi ha impedito di guardare altrove. Ma non ne ho avuto la forza, perché era come se fossi imprigionata.
Sembra patetico ma non riesco a staccarmelo di dosso quello sguardo. Perché ci sono occhi che ti guardano ma non ti vedono; altri che ti attecchiscono dentro, dando una sferzata fredda alla tua anima.
«Sei riuscita a dormire?», chiedo scegliendo nel frattempo gli indumenti da dentro la valigia aperta che si trova ai piedi del letto.
«Stavo dormendo prima che questi maledetti mettessero quelle stupide canzoni», picchia la punta del bastone sul pavimento morbido sospirando.
Confermo pescando l'unico maglione che ho portato dietro da New York. Uno semplice nero e felpato all'interno. Un paio di jeans a vita alta e stivale corto. «Sei calma?»
Sollevandosi si dirige verso la finestra. La apre. «Qualcuno vorrebbe dormire!», urla sfogandosi. «Andate da qualche altra parte a mettere le vostre stupide canzoni. E ricordatevi che Babbo Natale non esiste!»
Trattengo una risata entrando nell'angusto bagno di ceramica ingiallita, ma pulito e ordinato. Sciacquo il viso e indosso l'outfit scelto prima di tornare da mia nonna e impedirle che si faccia riconoscere o che litighi con qualcuno; lasciando agli abitanti del posto, un brutto ricordo di lei.
«È solo un po' di musica. Non siamo nel nostro paese e dobbiamo accettare le loro usanze».
Chiude la finestra di scatto. «No, non lo è. Come diavolo riusciva a dormire quella matta in questo posto?»
La guardo male. «Zia Lenore non era matta. Aveva solo bisogno...»
Le sue iridi fiammeggiano. «Ha abbandonato la famiglia quando avevamo bisogno di lei e noi adesso siamo qui a discutere di cosa?», ribatte acida. «La verità è che è sempre stata egoista».
Non ha ancora mandato giù il boccone amaro riguardo il testamento. Ma tra qualche ora, Luke Phillis ci riceverà per parlare e vedere i termini. Che cosa potrebbe andare storto?
Nonna è decisa a non accettare e a lasciare tutto a me. Ma non sappiamo ancora cosa accadrebbe in quel caso.
Indosso il cappotto. Ho notato come mi guardavano ieri e non voglio sentirmi ancora in quel modo.
Sono sempre stata anonima, l'amica delle popolari, quella un po' nerd e silenziosa del gruppo. Non ho mai cercato di mettermi in mostra e non è questo di certo il giorno per cambiare.
«Sai bene che non l'ha fatto per dispetto. Aveva bisogno di ritrovare se stessa».
Nonna mi supera. «Ed è venuta in questo posto sperduto a farsi spennare da queste persone che piazzano dagli altoparlanti canzoni di Natale. E siamo ancora a inizio Novembre», brontola ancheggiando.
Mordo l'interno guancia, recupero la borsetta e mi appresto a seguirla. Inutile discutere con lei, tanto avrà sempre qualcosa da ridire.
Nonna Ines non accetta mai il parere altrui. Ascolta, medita, eppure rimane lo stesso impiantata nelle sue idee. Diversa era zia Lenore. Lei a differenza sua, ascoltava, interagiva e cercava sempre un compromesso.
Scendiamo le scale raggiungendo la hall di questo hotel, che nel complesso è ben organizzato. La proprietaria, la signora Darlene, al nostro arrivo non è stata invadente e i dipendenti si sono comportati in maniera efficiente.
Si trova già dietro il bancone, con i suoi indumenti in tartan rossi, un cappello con il pompon e guanti tagliati per permettere alle dita di premere sui tasti del computer lievemente obsoleto presente sul ripiano tenuto a lucido e sul quale vi è anche una pianta nel pieno della sua vita, il resto: biglietti e un paio di depliant. Dietro, una mensola piena di chiavi collegate a placche d'oro con numeri incisi.
«Buongiorno signorina Smith, ha dormito bene? La stanza era calda abbastanza?»
Apro bocca, ma come sempre mia nonna è veloce quanto una vipera incazzata.
«Bene?», comincia come se fosse appena stata derisa. «Essere svegliate dalla musica non è "bene". Direi che non sia il termine corretto da usare».
La signora Darlene, minuta, occhietti allungati del colore delle castagne, capelli neri intrecciati lateralmente, schiude la bocca assumendo un atteggiamento diverso con mia nonna. Meno accogliente. «Mi dispiace tanto. Anche se avessi voluto non avrei potuto farci niente. La gente del posto è abituata. Capisco che per due straniere come voi possa essere stato traumatico», sorride poi in modo dolce. Ma la sua posa è plastica.
«Non è stato il risveglio che mi aspettavo», intervengo prima che nonna possa anche solo dire qualcosa che la ferisca nell'orgoglio e ci faccia buttare fuori. «Ma non ne facciamo un dramma. In fondo i vostri letti sono molto comodi e le coperte davvero morbide», sorrido, facendole qualche altro complimento.
La signora Darlene mi fissa ancora un attimo poi indica una saletta dietro una porta scorrevole con il vetro satinato e la scritta con il nome dell'hotel sulla parte alta. «Gradite mangiare qualcosa? Oggi abbiamo delle ottime zuppe e crostini».
Che ore sono?
Nella fretta di seguire nonna, ho dimenticato il telefono e l'orologio in camera.
«No, abbiamo un incontro importante con un avvocato. Non abbiamo tempo da perdere», mia nonna la rende partecipe di qualcosa che non dovrebbe neanche interessarle.
«Se ci ripensate, tornate pure e vi farò preparare dell'altro cibo caldo, se non gradite le nostre zuppe. Abbiamo una vasta scelta di pesce e carne di ottima qualità. Non viviamo nel lusso sfrenato, ma abbiamo un palato fine anche noi».
Trattengo una risata, comprendendo la frecciatina diretta a nonna. «Grazie. A stasera signora Darlene. Buon lavoro».
Mia nonna indica l'arrivo del nostro mezzo indirizzandosi verso l'uscita, senza nemmeno salutare.
A quanto pare ha noleggiato per qualche ora un pick-up. Un ragazzo le lascia le chiavi e a piedi si dirige da qualche parte.
«Fate attenzione, le strade sono ghiacciate. Buona giornata».
Nonna prende posto sul lato del passeggero. Io indugio prima di salire sul mezzo allacciando la cintura.
Ci metto qualche istante per capire a che velocità guidare, mentre il navigatore ci porta in direzione dello studio di Luke Phillis.
«Non avresti dovuto trattare quella donna in quel modo. Ci ha fornito tutto quello che abbiamo richiesto con poco preavviso. Sono stati accoglienti», non riesco a trattenermi.
«È il suo lavoro. Avrebbe dovuto anche avvertirci delle sorprese che avremmo ricevuto».
La guardo con la coda dell'occhio. «Non avremmo trovato un altro posto migliore se fosse stato per te».
Si volta pronta ad attaccare. «La stai difendendo?»
«No, ti sto solo chiedendo di smettere di comportarti da stronza con chiunque. Non conosciamo queste persone e non le rivedremo dopo oggi».
Non replica facendomi sentire in torto.
Mentre attraversiamo quella che sembrerebbe l'unica strada principale, è impossibile non notare le vetrine dei negozi e le persone impegnate ad addobbare ogni angolo.
Arriccio il naso osservando una renna piena di luci che con un montacarichi stanno cercando di posizionare sul tetto di un negozio.
Mi distraggo e quando mia nonna urla indicando qualcosa, premo il piede sul freno con talmente tanta foga da rischiare di uscire fuori dal vetro del parabrezza e di investire un Babbo Natale gonfiabile lasciato sull'asfalto e in attesa di essere collocato.
«Che c'è?», urlo con le palpitazioni e le mani che tremano.
«Niente, credevo di avere visto quel...», si interrompe mordendosi la lingua, forse per la prima volta in tutta la sua vita. «Niente. Prosegui».
Il cuore mi batte all'impazzata. «Non farlo più. Qui se non facciamo attenzione rischiamo di morire infilzati dalle decorazioni», esclamo riprendendo la guida, ma con molta più cautela.
Nonna guarda con disgusto ogni singolo negozio o abitante che, al nostro passaggio, ci saluta o ci sorride con malcelata curiosità.
«Non vedo l'ora di ritornare a casa, andare al club del libro con le mie amiche e rivedere Ken».
Il navigatore segnala di avere raggiunto la nostra destinazione e io evito di replicare per non avere un'altra delle nostre discussioni.
«Vedi lo studio?», domando invece trovando un posteggio libero di fronte una tavola calda.
Nonna scruta ovunque e nega. «Ci toccherà chiedere a uno di quei ridicoli elfi di Babbo Natale», indica un ragazzo con un cartello in mano e il sorriso plastico stampato in faccia.
Alzo gli occhi al cielo. «Dimmi che non dobbiamo farlo davvero», la scongiuro.
Nonna esce fuori dal pick-up che i presenti stanno guardando uscendo persino dai bar o dalle salumerie.
Qualcuno ci saluta con un cenno del capo, altri ci scrutano non facendoci sentire le benvenute.
Nonna alza una mano salutando l'elfo su cui ha puntato la sua attenzione. «Cerchiamo lo studio dell'avvocato Phillis».
L'elfo non sembra volere collaborare. Continua a sorridere e a girare intorno, ringraziando chi gli passa vicino donandogli qualche moneta.
Così, mia nonna, gli si avvicina ulteriormente constatando che ha alle orecchie delle cuffie che gli impediscono di sentire. Un modo come un altro per eclissarsi mentre sta facendo un lavoro di merda nel bel mezzo del freddo polare, per riuscire a ottenere un po' di denaro destinato a qualche ente benefico.
Nonna gliene strappa una.
«Ehi! Cosa?», urla lui mettendosi dritto con la schiena.
Rimango a distanza per non immischiarmi.
Se nonna ha intenzione di continuare a comportarsi da stronza con chiunque le capiti davanti, solo perché non riesce a mostrare il dolore per la perdita, io non voglio andarci di mezzo.
«Cerco lo studio dell'avvocato Phillis».
Il ragazzo indica la strada. «Deve camminare fino al cartello poi svoltare a sinistra».
Nonna infila una banconota nel calderone che il ragazzo tiene in mano insieme al cartello. «Senza cuffie avresti preso di più», si allontana da lui e io la raggiungo seguendola secondo le indicazioni appena ricevute.
Lo studio di Luke Phillis, si trova su una traversa che si rivela un vicolo cieco, dal quale si accede salendo su una rampa di scale di ferro.
Il portone marrone, mostra i segni del tempo che gli si abbatte ogni giorno sulla superficie.
Non vedendo alcun campanello, busso una volta; sufficiente a farmi aprire da lui in persona.
«Non state lì fuori a congelare, entrate», sorride indicandoci dapprima una sala d'attesa, che comprende dei divani in stile moderno, un tavolo da caffè con la superficie di vetro e dei giornali disposti sopra a ventaglio di fianco una stella di Natale e all'angolo, oltre a una lampada alta, una pianta dalle foglie enormi di un rigoglioso verde; poi c'è il suo studio. Una stanza rettangolare semplice, rispetto agli uffici che sono solita vedere a New York.
Qui dentro non ci sono statue, non ci sono ricchezze. È tutto in uno stile semplice e c'è odore di biscotti allo zenzero e cannella appena sfornati.
Luke ci indica due poltrone di fronte alla scrivania in noce dietro la quale prende posto aprendo una cartella.
Ci porge, dentro un contenitore di cristallo, delle praline di cioccolata vari gusti.
Mia nonna rifiuta mentre io accetto volentieri, sentendo i morsi della fame.
«Caffè?»
«No, grazie».
«Allora, presumo ci siano delle domande».
«Rifiuterò la mia parte. Che cosa succede adesso?», taglia corto mia nonna.
Luke non sembra sorpreso. Anzi, sorride. «La signora White era certa che avrebbe rifiutato e per questa ragione ha previsto che tutto il patrimonio che ha lasciato sarebbe di conseguenza passato alla signorina Smith. Ho saputo da lei che odiava i suoi figli, ma aveva un rapporto particolare con Willa. Com'è che l'ha definita... la sua bambina».
Perché è così tranquillo?
Nonna si mette comoda, pur essendo infastidita. Ho notato come ha appena reagito. Inoltre, sta serrando la presa sul manico del bastone da passeggio.
«Ma?»
Lui smette di fissarmi. Picchietta la punta della sua penna stilografica su un foglio bianco.
Oggi indossa una camicia bianca con le maniche risvoltate sugli avambracci, pantaloni tenuti fermi dalle bretelle. I capelli non sono in ordine, ma riuscirebbe comunque ad attirare l'attenzione su di sé.
La temperatura dentro la stanza è gradevole e la luce filtra dalla finestra, una grande vetrata che si affaccia sull'unica strada presente in questo minuscolo paesino.
«Prima la signorina Smith deve ricostruire una villa. A lavoro ultimato entro e non oltre qualche mese, riceverà l'eredità».
Nonna strizza le palpebre. «Tutto qua? Quindi potrà fare costruire questa villa e avere l'eredità?»
Luke morde il labbro.
Nonna lo indica. «Sta per arrivare il ma», dice guardandomi con un certo divertimento. «Che ti avevo detto?»
Spaccona!
«La signora White ha disposto che l'eredità sarà nelle mani della signorina Smith solo se sarà lei personalmente a organizzare i lavori di costruzione. Non sarà quindi possibile tornare a New York dal momento in cui firmerà. Dovrà fare una scelta, Willa».
Per la prima volta mi chiama per nome.
Rimango stupita. Non riesco a parlare, a organizzare le idee. Mi sento un pesce fuor d'acqua in questo istante.
Mia nonna si solleva come una molla. «Bene, è stato davvero bello conoscerla. Anzi no. Si goda l'eredità di quella stronza. Sono sicura che l'abbia ricompensato profumatamente per mettere in piedi questo stupido teatrino. Noi ce ne andiamo da qui immediatamente. Penso di avere fatto abbastanza per una che mi ha abbandonata e presa in giro persino dalla tomba».
Ho un momento di lucidità e comprendo anche di avere pochi secondi per scegliere.
Luke rimane tranquillo, appoggiato comodamente allo schienale della poltrona.
Si aspettava anche questa reazione da parte di mia nonna? Zia Lenore lo aveva preparato?
«Non è una scelta che spetta a lei, signora White. Ha appena rinunciato alla sua parte, le ricordo. O ci sta già ripensando? In fondo, il denaro piace a tutti. Ancora di più ai ricchi avidi».
Nonna avvampa. Forse per la prima volta in tutta la sua vita è stata messa al tappeto e da un ragazzo. «Come osa...»
«Quindi è necessario che io rimanga?»
Silenzio intorno. Luke smette di fissare in cagnesco mia nonna. «Sì. Se non rimane, non potrà ricevere la sua parte», ritorna a parlarmi in tono formale.
«Lei sa per che cosa sto prendendo una decisione?»
Conferma con un cenno. «Deve solo dire di sì o di no e a fine lavoro, avrà quello per cui ha faticato. Non posso dire nient'altro, ma la signora White è stata generosa. E non solo con me».
Nonna sbuffa. «È chiaro che non accetterai mai un simile ricatto. Torniamocene a casa, Willa».
Stringo i pugni sulle ginocchia. «Dovrò vivere qui o in questa presunta villa?»
«Dipende dallo stato attuale dell'abitazione. In ogni caso le indicherò dove potere soggiornare».
Corrugo la fronte. «Non è la sua casa quella da sistemare?»
«No. Sarebbe stato facile, non crede?»
Alzerei volentieri gli occhi al cielo. Tipico di zia Lenore complicare sempre i compiti, anche quelli semplici.
Nonna raggiunge la porta. «Andiamo. Non perdiamo altro tempo. Signor Phillis, avrà notizie da parte del mio avvocato».
Luke le sorride. «Non vedo l'ora».
Adesso sento i loro sguardi puntati addosso. È come se fossi strattonata da una parte all'altra.
«Mettiamo che io riesca a sistemare questo posto prima dei mesi previsti... cosa succederà?»
«Le ho già detto che a lavoro ultimato, ho il compito di darle quello che le spetta».
Nonna scuote la testa quando capisce il mio stato d'animo attuale. «Non puoi davvero pensarci. È un suicidio. Hai la tua vita, le tue amiche e il tuo lavoro a New York. Qui che cosa c'è? Il nulla atomico! Quella pazza voleva solo rovinarci la vita. Per fortuna che se ne è andata prima di rovinarci!»
Odio quando devono ordinarmi cosa fare o dirmi come comportarmi. Comprendo la paura, ma è una decisione che spetta a me.
Sono pronta a fare questo salto nel vuoto? Che cosa mi aspetta se decido di lanciarmi? Cadrò? Mi farò male? Ne varrà la pena?
Attualmente il mio futuro è come un enorme buco nero. Non ho mai avuto una sola certezza nella vita.
Forse arriva per tutti quel momento. Un giorno arrivi alla fase di rottura. Dentro di te, si crea una profonda crepa e ci precipiti dentro. Allora senti la necessità di staccare da tutto, di spegnere il mondo o persino di spegnerti perché hai troppo rumore dentro.
Allora che cosa fai?
Forse vai a cercare il tuo posto nel mondo, quello tranquillo dove nessuno sa chi sei.
Dove puoi essere o diventare qualcosa.
Zia Lenore aveva raggiunto il suo punto di rottura?
Luke chiude il fascicolo alzandosi dalla poltrona. Gira intorno alla scrivania e piegando la testa soppesa il mio sguardo. «Deduco che ci vedremo spesso in giro».
Mi alzo sorridendo timida. «Spero sia la scelta giusta».
Stringo la sua mano e mi avvicino a mia nonna che, attualmente, non sa come prendere la notizia. Annaspa, stringe la presa sul bastone.
Le sue guance hanno appena assunto una violenta nota di colore purpureo. «Non sai che cosa stai facendo», mi rimprovera. «I tuoi genitori te lo impediranno appena lo sapranno. Io stessa farò in modo che si risolva tutto».
Le persone credono di potere manipolarti e aggiustare tutto dopo averti spezzato. Ma quando uno strappo è rovinato, difficilmente puoi rappezzarlo.
Nella vita si arriva al punto in cui certe cose, certe persone, rimangono come ferite aperte, sul punto di infettarsi.
Io non so se o come riuscirò a mettere insieme i pezzi di me che ognuno di loro ha frantumato senza neanche accorgersene. Forse continuerò per sempre a sentirmi rotta. Ma voglio farlo. Anche se ricompormi da sola sarà solo illusione.
Apro la porta e indietreggiando le dico: «Per una volta voglio fare a modo mio. Sono stanca di essere controllata da te e da tutti quanti. Si tratta della mia vita, non della vostra. Della mia! Posso decidere da sola quello che voglio».
Provano a dirmi qualcosa, ma vado a sbattere contro qualcuno.

☃️☃️☃️

~ N/a:
Buona sera stelline, come state? Come avete passato questa giornata di festa?
Io ammetto che quest'anno non sento molto lo spirito Natalizio (un po' come Willa e Nicolai. Forse è per questo che sto scrivendo questa storia). Ma non voglio lasciarmi condizionare dalle emozioni negative e cerco di sfruttarle per scrivere. Ecco cosa ho fatto oggi. Ho scritto.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Come sempre vi ringrazio per la partecipazione. Per me è importante ricevere i vostri commenti, per capire, per spronarmi a proseguire.
~ Fino ad ora, qual è il vostro personaggio preferito? Cosa ne pensate di nonna Ines? Willa avrà preso la decisione giusta?
Indovinate chi c'è dietro la porta? (Indizio: non è un elfo!)
Buona serata.
Un abbraccio virtuale,
Gio'.

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