Capitolo 28
Mi manca.
Non credevo possibile avvertire un'emozione tanto forte.
Mi manca. Ogni istante passato lontano, aumenta questo senso di vuoto. Queste ore senza di lei, senza di noi, mi sembrano un'eternità vissuta in un inferno in cui le fiamme continuano ad innalzarsi, a bruciare, a dilaniarmi. Più mi sforzo di concentrarmi, di non perdere il coraggio, la fiducia e la speranza, più ogni nostro singolo ricordo mi si insinua come un'ombra e divora un pezzo di me per volta. Sto precipitando verso l'oblio e senza di lei, il buio, inizia a somigliare tanto alla paura. Quella con cui ho combattuto per tutta la mia vita dopo essere stato abbandonato.
Sono da poco passate le cinque quando mi viene comunicato che è tutto pronto. Finalmente potrò andare a salvarla.
Non è stato facile rintracciare il furgone, seguire gli spostamenti di sua nonna e di quel bastardo. Alla fine, quando eravamo sul punto di fermarci per proseguire di giorno, grazie alle autorità e di un testimone che ha notato movimenti sospetti, abbiamo scoperto dove tengono Willa.
Si trova in un magazzino, fuori dal paese. Niente segnale per il telefoni, solo vecchie strutture abbandonate da anni a causa del tempo e immerse nel silenzio.
Ho recuperato le mie armi dalla soffitta e ottenuto un permesso speciale per collaborare con gli agenti, pur essendo il marito della persona rapita. Potrebbe essere d'ostacolo alle indagini, questo lo so, ma non avrei permesso a nessuno di tenermi lontano.
Userò le armi in mio possesso solo in caso di estrema necessità. Impugnarle dopo anni, è una strana sensazione. Ma è come rimettersi sulla bici dopo essere caduti un paio di volte e dopo averla appesa al muro per un po' di tempo. Ho anche fatto delle prove al poligono, per assicurarmi di non avere perso lo smalto. La mia vista funziona ancora e non posso non negare di essere lo stesso cecchino di un tempo, forse un po' più incazzato.
Stringo il giubbotto antiproiettile, prendo un lungo respiro e avanzo fuori dalla porta della stazione.
Mio padre, Luke e Darlene, mi aspettano fuori. C'è anche una piccola folla raccolta oltre il cancello, in attesa di una svolta.
Mi sono stati vicini, nonostante io sia sempre stato lontano. Questo, mi ha fatto rivalutare molte cose.
«Sei sicuro?», mi domanda Darlene, stringendosi sotto il giubbotto verde acido dopo avere soffiato sui guanti e saltellato sul posto a causa del freddo.
«Non la lascerò un altro minuto nelle mani di quel pezzo di merda».
Papà mi guarda con apprensione. Sta cercando di redarguirmi. Ma sa che da tempo ho smesso di essere irresponsabile. Sa che lo sto facendo per dare di nuovo sollievo al mio cuore stanco di soffrire.
Sono state ore dure per me. Minuti agonizzanti, che mi hanno messo a dura prova. Ma ho smesso di piangere non appena ho avuto la certezza di non essere stato lasciato.
Potrei essere sembrato un debole, forse lo sono sempre stato. Ciò che ho nascosto dentro mi ha solo fortificato esternamente.
«Non fare niente di avventato, mi raccomando», mio padre mi abbraccia brevemente. «E tornate da me sani e salvi».
Luke esita poi mi si avvicina. «Riportala a casa», dice passandomi un plaid color porpora. «È il suo preferito, si sentirà meglio quando l'avvolgerai con questo e dalle un abbraccio da parte mia».
Prendo il plaid, saggio la morbidezza sotto i miei polpastrelli ruvidi e avverto il suo profumo lieve ma in grado di raggiungere le mie narici in maniera decisa. «La riporterò da noi. Adesso devo andare», li avviso notando gli agenti farmi un cenno.
Annuiscono e mi seguono fino al furgone senza dire niente, dove gli agenti impegnati nell'operazione, aprendo lo sportello, mi fanno posto.
I minuti che intercorrono per raggiungere il magazzino, li passo tenendo in grembo la coperta, ascoltando quello che hanno da dire e appuntando mentalmente quello che voglio farne di quell'uomo se mai dovesse averle fatto del male.
Il furgone traballa, dopo una curva si ferma ad una piazzola di sosta per non lasciare tracce e scendiamo tutti sparpagliandoci silenziosi e attenti intorno alla struttura.
Non abbiamo avuto molto tempo per studiare un piano più elaborato e non sappiamo con certezza quanti uomini troveremo all'interno del magazzino e se la troveremo davvero qui dentro.
Raggiungo il retro, la pistola impugnata, la sicura tolta. Guardo ovunque poi faccio un cenno con la testa dando il via libera e gli agenti arrivano e si posizionano tutti, chi alle mie spalle, chi davanti per sfondare la porta.
Sentiamo delle urla, partono gli spari dall'altra parte e intuiamo che è arrivato il momento, prima che qualcuno possa scappare.
Mi volto, catturo l'immagine di un uomo pronto a farci saltare la testa e lo colpisco alla spalla prima che possa aprire il fuoco. Stramazza a terra e viene disarmato e placcato da due agenti.
La porta viene buttata giù ed entriamo all'interno del magazzino.
I miei occhi vagano alla ricerca di una sola persona e sono lì, a poca distanza, al centro di uno spazio pieno di impronte, polvere, acqua che scivola lenta sui tubi adagiati all'angolo, umidità e ratti che corrono per trovare un riparo.
I miei occhi si annebbiano non appena mi rendo conto della situazione, ma avanzo come un falco, la pistola puntata su di lui. Non ho mai commesso un solo errore e non lo farò neanche adesso, mi dico.
«Gettate le armi!»
«In ginocchio, mani alzate!»
Mi concentro su di lui. «Lasciala andare e nessuno si farà del male», ordino.
In risposta, ride. Non ha paura o se ce l'ha la nasconde dietro quello strato di strafottenza. Conosco i tipi come lui, ci litigavo sempre a scuola e non finiva mai bene. Puntualmente Boe mi riaccompagnava a casa dalla centrale con un nuovo livido e la soddisfazione stampata sul viso.
«Sei venuto a salvare la principessa?», preme la guancia sulla sua.
Il mio stomaco si strizza, il cuore urta violento sulla gabbia toracica. Una gocciolina di sudore, scivola lenta dalla mia fronte.
Devo concentrarmi e non dare di matto, continuo a ripetermi in un mantra. Devi mettere da parte la gelosia.
Lei strizza gli occhi disgustata, prima che lui continui a stuzzicarmi. «O sei qui per farci da testimone?»
Non distolgo lo sguardo dal suo. Voglio che si pisci addosso. Voglio che sappia che non sto scherzando. Che sono disposto a farlo fuori se necessario, togliere dalle palle un essere tanto orribile. So che non dovrei nemmeno pensarlo perché è una persona, ma l'odio che mi inonda il petto è tale da annegare ogni traccia di lucidità che a stento riesco a mantenere.
Se i miei calcoli sono corretti, dal modo in cui gli trema impercettibilmente la mano, dal tono della voce e dal tic alla palpebra, sto suscitando in lui paura. Ha capito di essere in trappola. Ma... in tutto ciò, dov'è Ines?
«Tutto ok, piccolo iceberg? Ti ha messo le mani addosso questo sporco maiale?»
Ho bisogno di sapere che non le ha messo un dito addosso, che non l'ha costretta a fare qualcosa contro la sua volontà per non premere il grilletto e mandare in fumo ogni cosa.
Miro intanto alla testa dello stronzo e quando Willa non replica, ripeto il suo nome fremendo, facendole capire che non resisto più.
«Sì», risponde con voce rotta. «Sto bene».
Sta mentendo. Riesco a percepire la sua paura da pochi metri. E non è spaventata per una penna puntata alla gola che la sta ferendo. Lei è spaventata per me.
Gli agenti intorno tentano di disarmare le guardie che rischiano di far partire un'altra sparatoria. Infatti si oppongono, lottano con loro, urlano. Non è quello che voglio qui dentro, ma sanno cos'è giusto fare, per cui mi limito a tenere d'occhio il mio obiettivo. Voglio solo che Willa esca incolume.
«Ho detto... lasciala!», ordino a fatica sempre più sul punto di far partire il colpo.
«E io ho detto non fare un passo in più. Lei verrà con me!», si incammina indietreggiando verso la porta, facendosi scudo con il suo corpo.
Che figlio di puttana!
«Vigliacco!», lo provoco. «Perché non la lasci andare e te la vedi con me?»
Si ferma. «Perché ti ho già fottuto, piccolo bifolco».
Miro ancora a lui, ma adesso guardo lei negli occhi. Vorrei che capisse, che riuscisse ad entrare nella mia testa in questo preciso istante, e che leggesse ogni mio singolo pensiero confuso. Vorrei che capisse quanto ha sconvolto il mio mondo, permettendomi di riprendere a respirare dopo anni di apnea. Mi ha ridestato dal sonno profondo, mi ha reso folle di un amore che non riesco a spiegare e sto provando a dimostrare.
Allora agisco organizzando un nuovo piano. Silenzioso, le chiedo di fare qualcosa che potrebbe essere un rischio, ma lei esegue e lo fa senza battere ciglio. In breve riusciamo a mettere a terra il porco schifoso.
«Figlio di puttana, farò in modo che la tua vita venga rovinata. Non sai con chi hai a che fare! Conosco tutto di te», urla. «Sei stato abbandonato dalla mammina e non ti sei mai ripreso, patetico sciocco!»
Non ci vedo più dalla rabbia. Ho resistito abbastanza. Lo raggiungo e appena osa sorridere, sfottermi e provocarmi, lo colpisco con ferocia fino a stordirlo.
Sto facendo il suo gioco ma deve capire che non ha a che fare con un ragazzino che si venderebbe l'anima per quattro soldi. Io e il mio amore non siamo in vendita. E deve capire che non si tocca la mia famiglia.
«Ti farò a pezzi in tribunale, bastardo», osa ringhiare sputando a terra un fiotto di sangue. Prova ad alzarsi, a colpirmi, ma lo sotterro e sbatto la sua guancia sul pavimento. «Se solo ti azzardi a toccare di nuovo mia moglie o a minacciare la mia famiglia, ti faccio fuori», gli sibilo all'orecchio prima di lasciarlo alle due guardie, soddisfatte del lavoro che ho appena svolto e per la freddezza usata.
Con affanno, mi volto e lei è ancora lì, per terra, sgomenta. Poche falcate e sono al suo fianco, la sollevo, la tiro al petto e le bacio la testa tenendola stretta. «Sei al sicuro», le sussurro. «È tutto finito».
Stringe con forza maggiore la presa. Non parla. Non ci riesce.
Credendo che sia sotto shock, per avere vissuto tutto questo, per avere visto una parte di me che credevo di avere assopito da tempo. La prendo in braccio e la porto fuori. Sul furgone, un agente mi passa il plaid e glielo avvolgo.
Non appena avverte il calore e la consistenza, ma soprattutto si accorge che è il suo, si rilassa. Lascia proprio uscire il fiato in un singhiozzo.
Le bacio ancora la testa. «Tra poco ti porto a casa».
Mi trattiene quando provo ad allontanarmi e allora mi siedo e lei si adagia sulle mie ginocchia, nasconde il viso nell'incavo del mio collo e smette di tremare.
Le accarezzo la schiena. Le bacio la fronte in ripetizione. Suggerendole: io ci sono.
Un'ambulanza arriva e i paramedici medicano i feriti prima che delle autovetture li portino via, compreso lui. Il viso reso informe dal mio attacco, zoppicante ma con il coraggio di parlare, di urlare e minacciare.
Appena prova a farsi vicino, dopo avere colpito entrambi i due agenti ed averli feriti, capisco che è arrivato il momento di reagire, di dargli una lezione.
«Tappa le orecchie e apri un po' la bocca», ordino a Willa.
Lei fa come dico, pur sgranando gli occhi, appena impugno la pistola ad una velocità impercettibile; miro alla sua gamba e sparo facendolo accasciare a terra come un maiale sgozzato.
Altri due agenti, lo tengono fermo, gli urlano le aggravanti, di nuovo i diritti. Infine lo sbattono dentro un camion blindato e si allontanano a gran velocità, seguiti dall'ambulanza.
Willa sussulta vedendo avvicinarsi un paramedico. Emette un verso stridulo e mi si aggrappa con forza maggiore.
«Signorina, voglio solo medicarle la ferita».
Lei nega.
Strizzo le palpebre e guardo il ragazzo dalla carnagione ebano e dallo sguardo apprensivo. «Lo farò io. Sono stato addestrato anche per questo. Grazie».
Mi lascia un kit e corre ad aiutare uno degli agenti feriti da quel bastardo. Ha un taglio sull'occhio.
Guardo Willa, le faccio una carezza. «Quando saremo a casa ti toccherà farti medicare da me e non so se sarò delicato come quel ragazzo».
Non si scompone. Chiude gli occhi e sospira.
La cullo mentre gli agenti salgono sul furgone e partiamo verso la centrale per una deposizione.
Durante il tragitto, a Willa viene spiegato quello che succederà, ma lei sembra sempre più triste e assente.
«Se non se la sente, tornerà domani», dice Boe venendoci incontro quando scendiamo dal mezzo.
Anche mio padre, Luke e Darlene corrono verso di noi. Sono spaventati e agitati.
«Che è successo? Abbiamo saputo della sparatoria».
«Perché sanguina? È ferita?»
«Tu stai bene?»
«Vi racconteremo tutto a casa, promesso», rispondo loro, sentendomi improvvisamente stanco.
Darlene accarezza il viso a Willa. «Tesoro», dice in apprensione. «Faccio preparare qualcosa di caldo da mangiare. Sarete affamati», estrae il telefono e in breve ordina qualcosa al cuoco dell'hotel.
Papà ci fissa. Continuo a tenerla in braccio. Non so che altro fare.
Come se avesse intuito, indica la Jeep. «Andiamo», dice. «Parleremo di tutto a casa. Ti aspettiamo lì», avverte Boe.
In auto, il silenzio è quasi insopportabile. Detesto tutto questo. Odio il modo in cui ogni cosa sta andando a puttane.
Le bacio la tempia e lei reagisce. Solleva la testa, la sua mano si adagia sulla mia guancia e finalmente torno a respirare.
Sì, cazzo, continua. Vorrei tanto dirle. Ma lei lo fa senza bisogno di parole. Abbassa il mio viso e preme la bocca sulla mia singhiozzando. La tengo forte per la nuca e le lascio il tempo e lo spazio di sfogarsi.
Ti amo. Le sussurro.
Ti voglio. Ti desidero. Ti terrò per sempre con me, anche quando non lo vorrai.
Lei ricambia, con la stessa delicata forza, mandando il mio cuore al collasso.
Giunti alla mia villa, la adagio sul divano mentre gli altri prendono posto ovunque, insieme agli agenti incaricati e in attesa della sua versione per potere incarcerare quegli uomini, soprattutto lui e sua nonna.
Il cuoco di Darlene arriva con una grossa busta di carta piena di teglie di stagnola calde e lei si sposta in cucina, dopo averle indicato dove trovare tutto l'occorrente per preparare i piatti.
Luke siede accanto a Willa in qualità di suo avvocato, le stringe la mano, mentre mio padre, appoggiato alla finestra, ascolta e poi vaga con gli occhi fuori.
«La signora Ines non era presente. Sa dove potrebbe essere andata?», chiede la donna con il tailleur grigio e un taccuino in mano.
«No. È andata via prima, presumo. Scusate ma sono stanca. Al momento non mi viene altro in mente».
«Bene. Continueremo a cercarla. Speriamo di non averle dato fastidio. Per qualsiasi cosa sa dove trovarci. Adesso dobbiamo andare. Grazie per il suo aiuto».
Luke li accompagna alla porta, io mi siedo accanto a lei e quando appoggia la testa sulle mie ginocchia, non posso smettere di perdermi nel colore tenue delle sue iridi. Le sfioro le labbra.
Papà ci osserva con lo stesso cipiglio di prima e quando riceve una chiamata va a rispondere. Luke raggiunge Darlene in cucina mentre Willa si solleva sul braccio e mi avvicina a sé.
Le sfioro la punta del naso con il mio e glielo bacio. «Mi hai fatto venire un colpo, piccolo iceberg».
Avvicina la mia bocca alla sua. «Mi dispiace», sussurra.
«Avete fame?»
Darlene ci interrompe con un sorriso, disponendo sul tavolo basso un paio di piatti con pietanze diverse. Le nostre preferite.
Willa si alza e l'abbraccia con impeto. Lo stesso fa con Luke poi con mio padre, appena rientrato in casa.
«Grazie», dice loro.
Papà mi indica. «Ha fatto tutto quanto lui. Noi abbiamo solo eseguito i suoi comandi. Adesso vi lasciamo soli, sarete stanchi», con un cenno, dopo averci salutati, si avviano alla porta.
Rimasti soli, avvolti dal silenzio, ci guardiamo. Le porgo un piatto pieno di purè di patate. «Sbaglio o mangeresti questo fino a scoppiare?»
Si concede un sorriso. Prende una forchetta e l'avvicina alla mia bocca poi ne prende un po' per sé e abbassa le spalle.
Dopo cena, facciamo una doccia insieme, senza malizia, senza giochi di seduzione; guardiamo un film davanti al camino e quando si addormenta, la porto al piano di sopra, la adagio sotto le lenzuola e mi infilo anch'io stendendomi accanto, vegliando su di lei.
Dopo appena qualche minuto, la sua mano avanza, cerca la mia, l'afferra e se la porta al petto. «Ti amo», mugugna.
Il mio cuore riceve il sollievo tanto agognato e rilasso le spalle sentendo il peso fluire, abbandonarmi.
E adesso lo so, l'ho capito. C'è un solo amore. Esiste una sola persona a renderci interi. C'è un solo amore in apparenza irraggiungibile ma che quando arriva ti travolge, ti cura ogni ferita e ti riempie le braccia, tappa quei buchi. C'è solo una persona che puoi perdere in un attimo ma tenere nel cuore per sempre. Adesso lo so. Esiste solo un amore, quello vero, quello tormentato. Quello che ti cambia, ti migliora, che ti fa credere che il fino alla fine è solo un nuovo lungo e duraturo inizio.
«Ti amo, piccolo iceberg».
Mi addormento come un sasso. Il sibilo del vento, il crepitio del fuoco del camino, il lieve oscillare della porta zanzariera al piano di sotto che ho dimenticato a chiudere bene con il fermo, tutto si allontana ed è solo pace.
Un fruscio, un movimento, qualcosa di freddo che mi sfiora il viso, mi induce ad aprire gli occhi di scatto.
Dalla finestra non proviene alcuna luce. È ancora notte fonda.
Willa, stesa su un fianco, mi accarezza la guancia.
«Perché non dormi?», mormoro assonnato. «Non avrò urlato nel sonno, spero».
«Scusami se ti ho svegliato. Non volevo. È bello guardarti dormire in modo sereno. Non so se hai notato ma... non hai più incubi da un po'».
Me ne accorgo solo adesso e sorrido mettendomi supino, un braccio dietro la nuca. «Se dormi tu, dormo anch'io. Sembra banale da dirlo, ma è così. Grazie».
«Per cosa?»
«Per avere scacciato i miei incubi e averli sostituiti con bei sogni. Tu sei uno di questi, il primo che io abbia avuto».
Abbozza un sorriso, mi si avvicina e l'accolgo tra le braccia. «Non ti ho mai abbandonato».
«Lo so».
Deglutisce. «Non ti ho mai lasciato. Neanche quando abbiamo discusso».
«Lo so», ripeto.
«Sono felice di vivere con te».
La guardo. «E la villa?»
Si morde un labbro. «Un progetto alla volta, uomo delle nevi».
«Il primo qual è?», inarco un sopracciglio guardandola di sottecchi.
Anche lei sta sorridendo di nascosto.
Non so chi dei due si muove per primo. Forse entrambi allo stesso tempo. La sua mano si sposta sul mio petto, il mio braccio a circondarle la schiena, la spinge sul mio corpo.
«Devo sapere solo una cosa», comincio.
Come se avesse intuito o letto dal mio sguardo carico di tormento, preme la bocca sulla mia. Usa la forza e morde, tira, succhia, portandomi alla follia. Scivola sotto il mio peso quando capovolgo la situazione. Solleva le ginocchia. «Nic?»
Abbasso il viso, le bacio il cerotto. Passo alla guancia. «Willa?», la scimmiotto, avvicinandomi al suo orecchio. «Tra i progetti... hai in mente qualcosa in particolare?»
Circonda il mio collo. «Un paio», sussurra ansimando mentre la mia mano scivola lenta lungo il suo corpo. Le sollevo la coscia e la sua mano si ferma sulla mia. Accarezza le vene del mio braccio, trattenendomi. «Un giorno potremmo provare».
Distende la mia fronte aggrottata. «So a cosa hai appena pensato e la mia risposta è sì. Ci proveremo. Lo voglio anch'io».
Schiudo le labbra sentendo forte il senso di amore che provo nei suoi confronti. Mi capisce al volo. Sa che ho appena immaginato noi, noi completi.
«Inoltre sei vecchio per non averne ancora uno», mi prende in giro.
Mi avvicino alle sua labbra. «Significa che vivrai qui?»
Mi sfila la maglietta. Abbassa i miei pantaloni e allora li tolgo. Intuendo che ha bisogno di sentire un contatto un po' più diretto, la spoglio e riporta la mia mano sulla sua coscia, sul tessuto degli slip. Infilo il dito intorno al tessuto e risucchia l'aria in pancia quando glieli abbasso baciandole il ventre. Ansima e cerca solo la mia bocca. Poi lascia che mi spogli per potermi avvicinare a sé.
«Significa che non ti liberi di me. Della signora Wood, uomo delle nevi».
♥️♥️♥️
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