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Flame


Ero cresciuta in mezzo alla strada.

Avevo visto la violenza, l'avevo respirata fin dalla culla, l'avevo persino sperimentata sulla mia stessa pelle in innumerevoli occasioni.

Avrei dovuto essere preparata ad affrontare qualsiasi cosa, non avrebbe più dovuto esserci nulla in grado di bloccarmi.

Eppure mettere i piedi dentro al Black Thunder aveva scacciato ogni barlume di sicurezza in me. Ero tornata ad essere la bambina spaventata che correva a rifugiarsi tra le braccia di mio padre.

C'era sangue.

Un sacco di sangue, molto più di quello che avevo mai visto sul pavimento di qualsiasi altro posto prima di allora.

E tutto quel sangue sul pavimento pulito di un night sembrava decisamente sbagliato.

Qualcuno avrebbe dovuto ripulirlo, perché camminare lì dentro senza sporcarsi era praticamente impossibile.

Fu quella la prima cosa che il mio cervello registrò, mentre lentamente mettevo a fuoco l'ambiente che mi circondava e mi rendevo conto del desolante spettacolo che avevo davanti a me.

Manny e Dimitri erano a terra, uno vicino all'altro, entrambi privi di sensi. Avevano tracce di sangue sugli abiti e sul corpo e, se non fosse stato per il ritmo cadenzato con cui si sollevavano i loro toraci, avrei giurato che fossero morti.

Dall'altro lato della sala, con la schiena appoggiata al muro, c'era mio padre.

Aveva ancora gli occhi aperti, ma leggermente vacui, e li sgranò appena quando si rese conto della mia presenza lì.

Fece per aprire la bocca, come se volesse ordinarmi di andarmene, ma non riuscì ad emettere nulla più che un gemito sommesso. Mi lanciai verso di lui, gettandomi a terra, e lo esaminai.

Aveva una brutta ferita all'altezza della tempia, dalla quale sgorgavano rivoli di sangue, causata probabilmente dal calcio di una pistola. Sulla camicia bianca, all'altezza dello stomaco, si era allargata una gigantesca macchia di sangue scuro; teneva le mani, ormai incrostate di sangue rappreso, premute contro la ferita come se volesse comprimerla il più possibile.

Le allontanai, ignorando le sue rimostranze.

- Lascia che controlli la ferita -, mormorai mentre cercavo di far uscire i bottoni dalle asole, - devo vedere come sei messo. –

Il rumore di passi affrettati mi raggiunse e, prima che potessi voltarmi, sentii la rassicurante presenza di Eric al mio fianco.

- È ferito. –

- Lo so, ho già chiamato un'ambulanza. –

Mio padre provò ad aprire bocca di nuovo, ma scossi il capo con vigore.

Sapevo come la pensava.

Niente ambulanze.

All'ospedale le ferite d'arma da fuoco venivano automaticamente denunciate alla polizia e da lì a scoprire in cosa fosse invischiato il passo sarebbe stato breve.

Quella volta però era diverso.

Non era una semplice ferita di striscio.

Il proiettile aveva causato un bel danno, riuscivo a capirlo persino con la camicia ancora addosso.

- Voglio vedere la ferita. Devo vedere quanto è grave – replicai, continuando imperterrita a cercare di svestirlo.

Mancai l'asola per la seconda volta.

Mi tremavano troppo le dita per riuscire a mantenere salda la presa.

Tentai ancora, fallendo per l'ennesima volta.

Mi lasciai sfuggire un urlo frustrato.

- Lascia che ci pensi io. –

Annuii, incrociando le sue penetranti iridi grigie, e gli concessi un po' di spazio di manovra.

- Se fossimo rimasti ad aspettare fuori... -

Lasciai in sospeso la frase, stringendomi le braccia al petto.

Non c'era bisogno che lo dicessi, il messaggio era chiaro.

Era incredibile pensare che una persona che avesse perso tutto quel sangue potesse essere ancora viva.

Se non ci fossimo sbrigati non sarebbe uscito vivo di lì.

Eric scoprì la ferita, dello spessore di due dita, mettendo in mostra nuovi getti di sangue.

Si sfilò la felpa, appallottolandola e comprimendola contro il ventre di mio padre.

- Farà male, scusami. –

Spinse con vigore, cercando di arrestare il flusso.

Provai a rendermi utile, trascinandomi verso Manny e Dimitri. Entrambi erano ancora privi di sensi, ma osservandoli non sembravano aver riportato danni troppo seri.

La violenza di Patrick si era riversata principalmente su mio padre.

Era lui il vero ostacolo, la minaccia da annientare, se sperava di continuare a fare ciò che voleva in quella zona della città.

- Che scena commovente. –

Sobbalzai, voltandomi di scatto verso il bancone del locale.

Sulla soglia della porta, appoggiato a uno stipite con disinvoltura, Patrick Fitzpatrick ci fissava con l'accenno di un'espressione compiaciuta che si faceva lentamente strada sul suo volto.

Aveva un paio d'anni più di mio padre, una cicatrice gli solcava la tempia sinistra e buona parte del sopracciglio, come una muta testimone della vita che aveva deciso di condurre; i penetranti occhi verdi sembravano essere completamente privi del più minimo barlume d'umanità.

Intravidi un paio di sagome alle sue spalle.

Qualche altro irlandese, poco ma sicuro, che da lì a poco avrebbe fatto la sua mossa.

- È una gran bella riunione di famiglia, non c'è che dire. Il padre, la figlia e lo zio... il quadretto ideale per una di quelle foto di famiglia da spedire per le feste natalizie. –

Quello che stava dicendo non aveva alcun senso per me, né per Eric a giudicare dal cipiglio che aveva, ma sembrava averne eccome per Patrick e mio padre.

- Cosa diavolo... -

Il rumore della sirena dell'ambulanza ci raggiunse e interruppe la mia richiesta di chiarimenti.

Dovevamo portare tutti e tre fuori da quel locale, perché dubitavo che gli irlandesi avrebbero permesso a dei paramedici di entrare lì dentro e aver modo di identificarli in un interrogatorio futuro.

- Lascia che li porti fuori -, presi fiato prima di continuare a parlare, - permettici di assicurarci che arrivino in ospedale sani e salvi. Se vuoi prendertela con qualcuno per l'arresto di Noel allora prenditela con me. È stata colpa mia – asserii.

Patrick continuò a scrutarmi, soppesandomi come se avessi detto o fatto qualcosa d'inaspettatamente interessante.

- Mi era parso di capire che avessi delle domande sulla nostra piccola riunione di famiglia. Eppure vuoi già andartene? –

Avevo delle domande, certo, ma ero sicura che fosse lui quello che più di ogni altro voleva parlarmene.

- Ascolterò tutto quello che hai da dire se prima ci permetti di portarli fuori. –

- Loro vanno e tu resti -, mormorò lentamente, - mi sembra un accordo ragionevole. Ho la tua parola che resterai se i miei ragazzi scortano i tuoi fuori? –

Avrei promesso anche di marcire all'inferno per l'eternità se fosse bastato a garantire a mio padre di sopravvivere.

- Hai la mia parola – assicurai.

Soppesò le mie parole, poi rivolse un cenno del capo agli uomini alle sue spalle.

Si fecero avanti, tirando su i tre corpi privi di forze, poi si voltarono verso Eric.

Patrick accennò con la testa all'uscita del locale.

- Anche tu vai via. –

- Non se ne parla proprio – replicò, affiancandomi.

- Eric -, mormorai afferrandogli un braccio e costringendolo a voltarsi verso di me, - devi ascoltarlo. Se non te ne vai non farà uscire nemmeno loro. –

Rinserrai la presa, mettendo in quel gesto tutta la mia disperazione. Avrei voluto supplicarlo, promettergli che non mi sarebbe accaduto nulla in sua assenza, ma le parole sembravano non avere la forza di abbandonare le mie labbra.

Parve capire, perché allungò una mano ad accarezzarmi lentamente il volto.

Poi tornò a guardare Patrick.

- Se le succede qualcosa, qualsiasi cosa... –

- Me la farai pagare -, tagliò corto sventolando una mano con fare affettato, - l'avevo intuito. Adesso sbrigati o, accordo o meno, Negan finirà davvero per morire ai miei piedi. –


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