Finale - A pesca d'amori
-Ciao, Azzurra.
I suoi occhioni celestini si allargarono quando sentì delle mani toccarle le spalle ed udì la voce di Emanuele, che le regalò immediatamente un sorriso.
Ruotò con delicatezza i piedi e diede le spalle al Colosseo, trovandosi davanti la sua t-shirt bianca.
Non pensò neppure di alzare la testa, semplicemente ci si fiondò sopra, abbracciandolo. -Ciao - disse con voce melodiosa, inspirando il suo odore.
Ogni domenica si incontravano proprio lì davanti. Per vedere lui, Azzurra scarpinava ogni settimana da casa Bandiera, in via villa Certosa, fino a Piazza del Colosseo, poco distante dalla casa di Emanuele. Ci metteva un'ora, ma non le importava tanto: in fondo andavano a messa sempre alla Basilica di San Clemente. Non solo Azzurra era stata cresimata proprio lì due anni prima, ma facendo lì catechismo aveva conosciuto lui. Ed ora stavano insieme da tre anni.
Mano nella mano, si diressero fin lì.
Mentre loro non proferivano alcuna parola, tutto intorno c'era un gran trambusto, tanta gente a discutere dell'imminente referendum. Monarchia o repubblica, un quesito che avrebbe cambiato l'Italia ma su cui non avrebbero espresso opinione: avevano solo quindici anni. Tutto ciò che Azzurra sapeva con certezza era che su un muro nella via di casa sua c'era un graffito antimonarchico, che chiaramente non era affidabilissimo. E non è che ne parlasse molto coi suoi; sapeva soltanto che sostenevano la monarchia, e neanche le avevano detto perché.
A qualche passo dalle scale dell'edificio Emanuele commentò: -Bello il tuo abito. - Ed indicò con lo sguardo il vestito bianco che le partiva dalle spalle ed arrivava fino ai suoi piedi.
-Ti ringrazio - rispose Azzurra.
-Non dubito, però, che sarebbe stato assai migliore un abito azzurro. - Emanuele fece un sorrisetto malizioso.
Lei rispose con un'energica gomitata. La sola idea le faceva ribrezzo: lei, indossare qualcosa di azzurro? Ma se era un colore semplicemente orrendo! E d'altra parte, malediva sua madre ogni volta che si sentiva chiamare per nome.
Una volta entrati nella basilica, fecero silenzio e si diressero alla panca alla penultima fila, dove le loro famiglie si mettevano sempre. In quel momento la fila era vuota, a parte la signora Bandiera, madre di Azzurra: era uscita prima quel giorno per andare da un'amica, a farsi dare qualche barattolo di marmellata alla fragola, invece di restare a casa. Gli altri li avrebbero raggiunti, come al solito, una decina di minuti dopo, quando la messa sarebbe iniziata.
-Come stai, Emanuele? - chiese la donna, con un sorriso. Intanto, i tre si sedettero.
-Bene, grazie - le disse. -Perché siete venuta prima?
Azzurra non sentì la risposta.
Aspetta, perché non sentiva niente?
Tutto era improvvisamente silenzioso, nonostante vedesse chiaramente che della gente stava parlando sulle altre panche.
Incontrò per un momento lo sguardo di Emanuele. E vi vide soltanto confusione.
Poi un dolore.
Sentì una fitta acutissima, come se una spada le stesse trapassando il cranio. Tanto dolorosa che istintivamente chiuse gli occhi, e liberò un urlo straziante.
***
Parecchi chilometri più in là, Lucia uscì di casa sbattendo la porta.
Fece di corsa due rampe di scale fino all'ingresso, diede un'occhiata rapida alla cassetta della posta. Senza un motivo preciso, semplicemente vi si posò il suo sguardo. Tanto non c'era niente, solo i cognomi Acardi e Bonzio incisi sul metallo, immobili come sempre.
Dopo di che, scese nella strada.
Percorse i viottoli di Bari, nel suo solito percorso che faceva ogni sera, verso la casa di tolleranza. Tutto questo con vari rumori e voci in sottofondo, a testimoniare che quella città viveva anche di sera. Roba redditizia, con cui alla fine tirava avanti, e non solo. Riusciva ad acchiappare un sacco di allocchi che parlavano a ruota libera l'effetto dell'alcol e di lei, piuttosto docili e facili da ricattare. Ancora rideva al pensiero di un uomo a cui aveva strappato il nome della moglie, e si era fatta dare un surplus per non rivelarle tutto.
Già studiava le domande con cui meditava di incastrare il prossimo pollo.
Ma una presa ferrea le afferrò l'avambraccio, costringendola a voltarsi. -Candy?
Sentendo il proprio soprannome, si voltò immediatamente rassicurata.
-Però, il signor Bandiera.
-Acciderba, te lo dico sempre, non chiamarmi per cognome - le rispose con una risata goffa e finta, dandosi una sistemata alle maniche della camicia bianca.
-Ad ogni modo, perché saresti qui?
-Niente, domani dovrò far ritorno a Roma, ricongiungermi alla famiglia ed incontrare mia nipote Azzurra - disse l'uomo. -Il suo ragazzo, Emanuele, non si sopporta proprio, dunque mi chiedevo se per confortarmi avresti potuto offrirmi l'ultimo servizio di questo mio soggiorno.
Lei gli passò una mano sulla guancia con delicatezza, quasi levigandogliela, ed esibì un sorriso tanto perfetto che, nonostante fosse falsissimo, pareva vero.
In fondo, era per questo che la chiamavano Candy.
Lui la spinse contro il muro, già infervorato.
-Ovviamente, farlo adesso ti procurerà un sovrapprezzo - precisò Candy con un sorrisetto.
Le labbra del signor Bandiera si articolarono a formare una risposta, ma lei non la udì.
Anche tutti i rumori di sottofondo che prima sentiva distintamente sembravano essersi volatilizzati, come spenti.
E poi venne un dolore.
Lucia avvertì un dolore lancinante alla testa, come se qualcuno stesse tentando di piantarci un chiodo, anche se lei non era affatto un muro su cui appendere quadri.
E mentre in preda alla sofferenza urlava ad occhi chiusi, si accasciò a terra in ginocchio e i suoi sensi cominciarono a venir meno.
***
Azzurra si svegliò.
Non sapeva quanto tempo fosse passato (ed erano state parecchie ore, forse una dozzina), fatto sta che era stesa per terra e sentiva un freddo incredibile.
Davanti a sé vedeva un corridoio illuminato da una luce bianca, come le pareti. Lei, invece, era in una stanza completamente nera, in cui non si vedeva niente.
Le venne naturale chiedersi dove fosse, il problema era che non lo sapeva.
Anche se la cosa la inquietava un pochino, visto che non era sola in quella stanza, decise di uscire per capire dove fosse. Se si era sentita male avrebbe pensato di essere in un ospedale, ma quello non assomigliava affatto ad un ospedale.
Così, alzatasi in piedi, procedette nella luce.
Sulla parete del corridoio stesso c'erano tre appendini. Solo uno era occupato, da un accappatoio azzurro.
La ragazza li ignorò bellamente, senza neppure degnarli di uno sguardo.
Il corridoio terminava un po' più in là: Azzurra si ritrovò in una grande sala bianca.
Al centro c'era un tavolo di ferro. Vi vide subito una serie di schermi allineati al centro, circondati da una serie di bottoni. Che funzione avessero, non ne aveva idea: ma la cosa strana era che quella parte di tavolo era racchiusa da un normale piano di legno, apparecchiato con piatti e bicchieri.
E davanti a due dei piatti stavano due uomini, entrambi vestiti di uno strano abito bianco spigoloso, spesso e pieno di pieghe. Azzurra non l'avrebbe mai riconosciuto, perché avrebbe visto un uomo nello spazio solo qualche anno dopo.
-Ah, ecco quell'Azzurra - disse quello a sinistra, passandosi una mano sulla testa pelata.
-Te lo dicevo, si sarebbe comunque svegliata dopo quell'altra - rise il secondo, ed Azzurra inorridì quando notò che erano perfettamente uguali.
-Già - replicò il primo. -Soltanto, Azzurra, potresti coprirti? - Indicò altri appendini su una parete, su cui stavano altri tre accappatoi celesti. -Voi umani avete un corpo abbastanza disgustoso.
Cosa?
Lei si guardò immediatamente, e si accorse di essere completamente nuda.
Lanciò una rapida occhiata ai due uomini seduti.
In condizioni normali non avrebbe mai toccato quegli accappatoi.
Ma quella scarica di vergogna improvvisa la fece correre verso il muro. Dopo cinque secondi, quel tessuto spugnoso già la avvolgeva ed era chiuso dalla cintura.
Passata l'urgenza, prese un secondo per osservare la stanza.
A parte le due entrate ai lati, il tavolone e il tappeto rosso che stava sotto, la sala era soltanto un grande candore.
Aspetta, non è vero.
Dal lato della stanza opposto ad Azzurra, c'era un albero di Natale, addobbato completamente di palline argentee.
Palline argentee?
No, erano forchette. Forchette cortissime e col manico allargato.
-Perché mai tenete un albero di Natale? A maggio? Con delle forchette? - chiese.
-Voi umani avete delle usanze così belle, solo che non sapete farle per bene! - disse il primo uomo. -Giusto, Ponk?
-Esatto, Penk - rispose il secondo. -Voglio dire, a dicembre? A dicembre? Ma siete seri? È il mese peggiore! E poi gli abeti ci stanno anche, ma le palline colorate sono orribili! Fanno più schifo di un tukkinel!
Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata. Azzurra li osservò allibita, senza capirli. Poi esplose. -Voi chi siete? Ed io perché sono qui?!
-Niente, ti avevamo adocchiato e parevi una buona umana, ottima per la collezione - rispose Ponk.
-Ponk, credo non capisca di cosa tu stia parlando - sottolineò Penk.
-Vero, Penk. Le racconto tutto dall'inizio e in breve?
-Vai, Ponk.
-Allora, Azzurra - cominciò - io sono Ponk, lui è Penk. Siamo del pianeta Narasnot, e la nostra passione è la pesca spaziale. Niente, l'altro ieri Penk ha pensato: perché non andiamo a pescare qualche umano? Alla nostra collezione manca ancora un essere simile a noi! Così ieri siamo partiti, ci siamo stabiliti in orbita intorno alla terra e oggi abbiamo catturato voi.
Azzurra li guardò un attimo, stralunata. Cercò di accettare l'idea, ma la sua mente cosciente la costrinse a chiedere: -Orbita? "Voi"? Ma siete dei matti?
-Tutt'altro! Falle vedere, Penk - rispose Ponk.
Penk premette un pulsante, e la parete dell'albero divenne trasparente.
Dietro si poteva vedere una sfera blu, piena di chiazze bianche. La Terra.
Spostando lo sguardo di lato, Azzurra poté vedere anche il Sole, ma dovette chiudere gli occhi subito a causa della luce accecante. Che di certo non era artificiale: quello era proprio il Sole.
-Penso le basti, Penk - disse Ponk, spingendo un altro bottone. -Comunque c'era anche il tuo ragazzo e Lucia.
-Il mio ragazzo? Come lo conoscete?
-Lucia ci ha detto il suo nome... ah, eccolo! - la informò Ponk, indicando il corridoio da cui era venuta.
Azzurra si voltò, e vide Emanuele, già con l'accappatoio blu indosso.
Nessuno dei due si mosse. Lei non sapeva proprio se era il caso di dirgli qualcosa, o se dovesse rallegrarsi di vederlo, così stette ferma.
-Oh, Lucia! - esclamò Penk, interrompendo il suo dubbio.
Dal corridoio opposto infatti entrò una ragazza, sempre con lo stesso accappatoio blu. -Oh, certamente tu sei Azzurra. E il tuo ragazzo.
-Come conoscete il mio nome?! - urlò Azzurra, che non sopportava più quel cumulo di confusione.
-Noi abbiamo letto i nomi nella vostra psiche - intervenne Ponk - lei poi ci ha rivelato il vostro... ehm... stato sentimentale. Ma voi sapete chi è?
Azzurra ed Emanuele la guardarono. Niente venne loro in mente, difatti risposero all'unisono: -No.
-Il mio mestiere ha i suoi vantaggi - commentò Lucia, senza dare altri dettagli.
-Okay, adesso devo tornare sulla Terra a prendere una sua cosa - disse Ponk. -Penk, scortali alle loro teche! - Dopo di che premette un pulsante e pronunciò: -Casa Acardi, Bari, Italia, Terra.
Scomparve di colpo, come polverizzandosi, davanti agli occhi di un'allibita Azzurra.
-Vieni, Azzurra! - gridò improvvisamente Emanuele, strattonandola per un braccio. Aveva immediatamente capito come funzionava il pulsante, e infatti vi si stava fiondando sopra.
-Altolà. - Asserì, definitiva, Lucia. Già impugnava una pistola, puntata contro loro due, che furono costretti ad alzare le mani. -Diciamo che - continuò - ho detto che sapevo come tenervi in pugno, visto che loro non sanno gestire gli umani.
Lucia, dopo un secondo di silenzio, fece un occhiolino a Penk. -E in cambio mi terranno a vita come loro inserviente.
-Già - rispose Penk. -Anche perché potremo riprodurre assieme quell'altra vostra usanza bellissima... come si chiama... l'abbiamo fatta tutti e tre poco fa...
-Ah, masturbazione?
-Esatto, così si chiamava!
Azzurra impallidì.
Al contrario, Emanuele ringhiò: -Mi pare piuttosto onesto servirsi di "inserviente" per rimpiazzare "puttana". - Gridò l'ultima parola, con evidente disprezzo.
-Scegli la parola che preferisci - rispose Lucia, ma ora seguitemi.
Loro, senza via di scampo, la precedettero lungo il corridoio. Emanuele sudava freddo per la sensazione della bocca della pistola spinta sulla sua schiena.
E camminarono senza batter ciglio, fino alla loro cella.
***
-Adesso che cosa faremo? - chiese Emanuele, senza però aspettarsi una vera risposta.
-Non ne ho idea - rispose Azzurra, neutra. -Penso che, se ci han pescati, quei due banchetteranno con la nostra carne.
Erano in una gabbia, vera e propria. Varie sbarre di metallo intrecciate li circondavano, mentre dal pavimento saliva una luce violacea. Era decisamente un brutto scenario, che li faceva rabbrividire, anche perché non avevano mai visto cose simili. Anche le porte, avevano visto, erano aperte da pulsanti. Azzurra aveva dedotto una cosa: non solo non erano terrestri, ma data la loro tecnologia sarebbe stato difficile che gente della Terra degli anni Quaranta li sconfiggesse.
Emanuele voltò la testa. Ora i loro nasi si toccavano.
Si guardarono negli occhi. Due stelle legate da un filo, di galassie che bruciavano di oscurità, di paura e fredda rassegnazione, ma anche di luce, di fuoco, scintille di desiderio che incendiavano quello stesso sottilissimo filo costringendolo ad accorciarsi ed avvicinarli, coscienti che forse non sarebbe mai più successo.
I loro occhi effettivamente si avvicinarono. Mentre si chiudevano, fecero lo stesso anche le loro labbra. Che arrivarono a toccarsi.
-Ehi, voi! - esclamò una voce. Entrambi non sapevano di chi fosse, e girandosi non videro nessuno, nonostante la luce sotto di loro.
-Chi è? - sussurrò Azzurra.
-Come? Sono io, ovviamente! - disse ancora la voce. -Ah, ma forse non vedete.
Passò qualche secondo. Emanuele ed Azzurra si guardarono di nuovo, ma sbigottiti.
Poi le luci si accesero. Tutta la stanza fu pervasa da una normale luce bianca. E loro poterono vedere.
Sotto all'interruttore della luce, che certamente era stato azionato, c'era un gatto nero.
-Datemi un attimo! Il vostro eroe vi tirerà fuori di qui! - Azzurra sentì di nuovo la voce, e contemporaneamente vide la bocca del gatto muoversi.
Stava parlando?
Sollevando la coda, si diresse verso un'altra serie di bottoni, mentre Azzurra chiese: -Chi sta parlando?
Il gatto voltò la testa e disse: -Io, ovviamente!
-Cosa?! - esclamò Emanuele.
-Tu parli! - aggiunse Azzurra.
-Parlo da sempre - rispose il gatto - ma anche quando dico parole magnifiche, voi umani mai mi capite.
-Come riusciamo mai a capirlo? - chiese Azzurra ad Emanuele. Anche se poi fu il gatto a rispondere: -Le mie superbe analisi suggeriscono che, se hanno potuto sapere i vostri nomi leggendovi la mente, probabilmente, ora siete sintonizzati sulle loro frequenze e quindi potete interpretare i messaggi che si vogliono scambiare, anche se tutti stiamo parlando lingue diverse. E fuori dall'astronave tutto ciò non varrebbe più.
Nessuno dei due aveva chiaro il concetto di "astronave", ma rimasero sconcertati da quelle frasi. Per di più, pronunciate da un gatto.
Lo stesso gatto poi balzò e premette un pulsante. Tutte le sbarre della gabbia si polverizzarono, come per magia, esattamente come prima erano apparse dal nulla sorprendendo i due.
I due non esitarono ad alzarsi e furono tentati di esultare dalla gioia, ma ovviamente per non attirare l'attenzione tacquero. Azzurra ed Emanuele, però, non rinunciarono a darsi un abbraccio.
Azzurra però suggerì subito: -Però fuggiamo. Voglio rincasare, adesso.
Emanuele annuì, e lasciò il tessuto azzurro dell'accappatoio.
Il gatto si diresse verso un corridoio, sussurrando: -Da questa parte. Io vi salverò.
Percorsero il corridoio in punta di piedi, per non attirare l'attenzione.
Questo era piuttosto lungo, e quella luce bianca asettica e uniforme rendeva tutto così monotono ed immobile che Azzurra sentiva quasi la nausea. Prima, quando erano entrati, la pistola di Lucia era tutto ciò che catturava la sua attenzione, tanto che non ci aveva proprio pensato.
Quando arrivarono alla sala, constatarono che non c'era nessuno.
Si avviarono a passetti verso il pulsante, mentre il gatto sussurrava: -Prima di andarvene, potreste farmi passare a Bari? Io vengo da lì!
Azzurra si girò un attimo a guardarlo. Non parlò, ma pensò un attimo.
Cosa avrebbero fatto una volta a Bari? Non aveva assolutamente intenzione di lasciare solo quel gatto, ma loro due sarebbero rimasti bloccati a chilometri e chilometri da Roma.
-Non potresti andarci per conto tuo? - gli chiese Emanuele, anticipandola.
-No - rispose. Ho già provato a scappare, e non reagisce ai miei comandi. Suppongo sia necessaria una voce umanoide, come se la mia non fosse abbastanza magnifica.
Azzurra disse ad Emanuele: -Ci penseremo dopo. Adesso pensiamo a tornare, tutti, e non dimenticare che lui ci ha salvati.
-Oh, ma io non credo farete ritorno.
Lucia era sulla soglia del corridoio. E teneva sempre quella pistola.
-Voi. Ora tornate. Nella. Gabbia. - Scandì, categorica.
Azzurra la fissò. Ma non lasciò trapelare neppure un briciolo di paura, soltanto determinazione ed affronto. Lucia ricambiò l'espressione con uno sguardo ancora più carico di rabbia.
-Poi lui che vi ha liberati... va be', loro hanno già vari gatti nella collezione, comunque merita di morire. - E sparò a bruciapelo un colpo.
Azzurra stentò a credere ai propri occhi.
Quel gatto nero, che li aveva salvati, che stava davanti a loro, era stato freddato senza pietà.
Entrambi guardarono Lucia con occhi pieni di orrore.
E poi la rabbia di Azzurra esplose. Ed anche quella di Emanuele. Difatti, quest'ultimo, mentre la propria ragazza sparava a zero improperi di ogni tipo, si fiondò sul pulsante e disse: -Tieniti pure i tuoi alienacci, puttana! Se vorrai impedire a me e Azzurra di tornare, dovrai passare sul mio cadavere!
Lucia emise un mugolio annoiato. -Peccato - commentò. -Però in effetti io uno come te ce lo vedrei bene sulla tavola, con una mela in bocca.
Un altro sparo.
Gli occhi di Azzurra si dilatarono improvvisamente, quasi scoppiando.
La mente e il cuore sembrarono svuotarlesi quando vide Emanuele cadere verso il suolo, e sbattere la testa, cosparsa di sangue, contro il tavolo.
Pensò soltanto ad una cosa.
Si affrettò a mettere una mano sul pulsante, pregando che fosse proprio quello giusto, e gridò a velocità supersonica: -Mia camera, Roma, Italia, Terra! - imitando Ponk quando se n'era andato.
Il suono di un altro sparo.
La vista di Azzurra si dissolse, in un lampo di luce bianca.
Un attimo dopo sentì del morbido sotto di sé.
Era in camera sua, come aveva chiesto, seduta sul suo letto.
La mattina dopo non avrebbe ricordato come aveva passato quella notte. Avrebbe saputo dire soltanto che era stata notte fonda, perché fuori casa era buio, e che nessuno era venuto a cercarla: nessuno si era accorto che era tornata, anche perché probabilmente la sua famiglia stava dormendo. Ma non avrebbe ricordato se si era addormentata subito o se aveva passato quella notte piangendo (ed in effetti andò così), poiché soltanto quando toccò il materasso realizzò completamente la dura verità: Emanuele era morto.
Fatto sta che, nonostante il dolore, alla fine il sonno la vinse, e la costrinse a scivolare nelle viscere dell'inconscio. Fu una notte senza sogni, e tanto meglio: perché un qualsiasi sogno, in un giorno come quello, non sarebbe stato bello.
Durò finché i raggi del sole non filtrarono dalla sua finestra, gettando la luce di un nuovo giorno in quella camera. Per un attimo ebbe le palpebre ricoperte dal luccichio del mattino, poi il suo cervello recepì il cambiamento. Cominciò a dare dei comandi, Azzurra cominciò a uscire dal sonno, diretta ad un nuovo giorno con tutte le conseguenze di tutto ciò che le era successo. E si svegliò nel suo letto.
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