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Cap 7. Make Me Smile

"There's nothing left,
all gone and run away
Maybe you'll tarry for a while
It's just a test, a game for us to play
Win or lose, it's hard to smile
Resist, resist, it's from yourself
you have to hide"


La cosa che forse più mi manca di te è vederti sorridere. Perché il tuo sorriso non c'entrava proprio niente con quel fuoco che ti corrodeva l'anima, con quelle ombre scure che ti inondavano gli occhi. Era il sorriso innocente di un bambino che ancora deve imparare a crescere, il sorriso puro di chi è ignaro dei pericoli incombenti. Un sorriso splendente, limpido, incorrotto.

Vedere quel sorriso spuntarti sulle labbra era un momento di assoluta beatitudine per me. Mi innamoravo ogni volta di più e sentivo la speranza esplodermi nel petto. Lo rincorrevo fino a perdere il fiato quel sorriso, per cercare quella parte di te che ancora era rimasta integra. Per provare a riportarti indietro, a farti restare, come mi avevi detto tu quella notte prima di perderci l'uno nell'altra.

E tu lo sapevi. Lo sapevi quanto io amassi vederti sorridere, che se me ne avessi privato per un giorno intero mi sarei sentita morire. Perché è stata la prima cosa a farmi capire che avrei voluto passare il resto di quegli anni al tuo fianco. A qualsiasi costo, a qualunque sacrificio.

È successo durante il tour di Hazel O'Connor, dopo il concerto a Manchester. In modo totalmente inaspettato, quella consapevolezza mi ha investito come un treno ad alta velocità, in una serata in cui tutto era andato nel modo giusto e tu stavi tirando fuori la tua parte migliore. Quella è stata la prima volta in cui ho saputo prendere il controllo e farmi finalmente vedere da te. E l'hai fatto, mi hai guardato dentro. Mi hai scavato sotto la pelle e dentro la retina degli occhi, fino ad arrivare a sfibrare i muscoli delle ossa, a stringermi il cuore e sfiorarmi l'anima. Non so quanto tu abbia capito da ciò che hai visto. Ma mi ero denudata completamente davanti ai tuoi occhi ed ero pronta ad accettare qualsiasi tua parola, qualsiasi giudizio. Non sono sicura che tu abbia capito, ma io l'ho fatto. Mi ero finalmente resa conto di ciò che volevo e di ciò che avrei rischiato per averlo.

E tu, John? Tu l'avevi capito?

Il tour è stato pazzesco. Siamo rimasti lontano da casa per tre settimane, dal 18 novembre al 6 dicembre.

Per la prima data era previsto il concerto al Top Rank di Cardiff, poi ci siamo spostati a Manchester, poi a Sheffield e a Lancaster. Abbiamo girato l'Inghilterra e il Galles a bordo di un camper Winnebago, riempiendo la notte di grida di gioia e di rabbia, di risate rotte e cristalline come le stelle, di parole lasciate a metà e frasi sussurrate all'orecchio a notte fonda.

Il primo concerto, a Cardiff, è stato terribile per voi. La maggior parte del pubblico era costituito da cockney* ubriachi che per tutta la durata dell'esibizione non ha fatto altro che insultare il vostro modo di vestirvi, il trucco e la tinta ai capelli. Quella sera, in hotel, mi hai confessato che non vedevi l'ora di scendere dal palco, cosa che capitava raramente ad un musicista. Ma dopo quella prima tappa, il tour è andato alla grande sotto ogni aspetto.

Quelle settimane mi si sono impresse dentro, mi hanno cambiata. Mi hanno permesso di avvicinarmi ulteriormente alla band e di imparare ad apprezzare l'esuberanza di Andy in contrasto con la controllata compostezza di Roger e la stravaganza di Nick. Passavo sempre più tempo con Simon, l'unico con cui mi sentissi realmente a mio agio in tutto quel caos fatto di riflettori puntati in faccia e corse folli sul camper, per arrivare in tempo ai concerti dopo aver passato notti insonni e permeate di alcol.

Eravamo sempre gli ultimi a uscire dalla sala prove e accadeva spesso che le nostre chiacchierate sui balconi delle stanze degli hotel si trasformassero in discorsi lunghi ore. Nonostante tutto, non vedevo trapelare una singola goccia di gelosia dai tuoi sguardi. Simon a quei tempi aveva iniziato ad uscire con una giornalista del New Musical Express, quindi era chiaro che ciò che ci univa era pura amicizia. Ma soprattutto avevi capito che io non avevo occhi se non per te e che non mi sarei mai azzardata a desiderare le attenzioni di nessun altro. Ed era così. Negli anni ti sei divertito a usare quest'arma contro di me e a giocarci in modo da convincermi a restare ogni volta che avrei voluto andarmene.

Ma mi piace pensare che ti scervellassi per indovinare di cosa parlassimo. Avranno parlato di me? Di noi? Oppure no, forse non conto così tanto per lei.

Sono quasi sicura che lo facessi, ma eri troppo orgoglioso per rivelare i tuoi dubbi a Simon. Certamente non l'avresti fatto con me, o avresti perso tutta la tua credibilità, immagino.

Ma non avresti potuto preoccuparti di nulla. Quando non ero con Simon, il tempo lo passavo in tua compagnia o a suonare la chitarra. Inoltre, grazie a voi avevo imparato ad apprezzare la musica in tutte le sue sfumature e ora, oltre ai Beatles, che rappresentavano in qualche modo la mia vecchia vita e di conseguenza non avrei mai potuto abbandonarli, mi ero avvicinata anche a David Bowie e ai Clash.

Dopo l'esibizione a Norwich siete stati invitati agli uffici Emi (la migliore etichetta londinese con cui avevano firmato band come i Beatles e i Queen), che si trovavano in un edificio di sette piani in vetro e calcestruzzo a Manchester Square, dove avete ottenuto il vostro primo contratto discografico. E tu, preso dall'euforia, mi hai promesso che finito il tour mi avresti portato a vedere i Clash. Hai mantenuto la promessa e abbiamo comprato i biglietti. Il 6 dicembre, il giorno dopo l'ultima data al Dominion Theatre di Londra, abbiamo raggiunto Newcastle a bordo della Citroën lasciando il resto della band a Birmingham. Eravamo a pezzi: gli occhi ci si chiudevano dalla stanchezza, tu parlavi con un filo di voce e io avevo due occhiaie che toccavano terra. Ma nonostante questo ho cantato ogni singola canzone a squarciagola, con i tuoi occhi e il tuo sorriso puntati addosso, ché passavi più tempo a guardare me invece che Joe Strummer.

Ma la serata migliore è stata quella dopo il concerto di Manchester. Mentre vi guardavo cantare Sound Of Thunder da dietro le quinte, mi si è insinuato dentro un nuovo desiderio, il primo dopo tanto tempo. Volevo fare qualcosa per me stessa, qualcosa che mi permettesse di apprezzarmi, anche solo per una notte, anche solo per poche ore. Volevo scrivere una canzone.

Siete stati fenomenali: eravate stanchi ma non così tanto da crollare sul letto appena rientrati in hotel. Prima che uscissi insieme agli altri per raggiungere qualche night club, ho bussato alla porta della tua stanza, che condividevi con Simon, rimanendo in piedi a torturarmi le unghie della dita nell'attesa che aprissi.

«Avril.»

Ho alzato lo sguardo e tu mi stavi già sorridendo. Indossavi i soliti pantaloni neri, una maglietta bianca a rete e una giacca color pervinca con le maniche arrotolate fino ai gomiti che ti donava. Sulle labbra erano ancora presenti le tracce del rossetto che avevi usato per il concerto, abbinato con i capelli, che avevi iniziato a tingere di rosso scuro. Eri una meraviglia. Ancora non mi capacito del fatto che stessi bene con qualsiasi cosa indossassi.

«John, io vorrei scrivere una canzone», ho detto tutto d'un fiato.

Eri sorpreso. «Una canzone?»

Ho accennato un sorriso. «Sì, dici... Dici che ne vale la pena?»

«Assolutamente.»

Mi hai afferrato per il braccio e mi hai trascinato nella stanza.

«Simon!» Nessuna risposta. «Simon, porta subito il tuo culo qui.»

Ho visto sbucare i suoi capelli biondo cenere dalla porta del bagno, un'espressione esasperata stampata in volto. «Che c'è?»

Appena mi ha vista, i suoi occhi si sono subito addolciti: «Oh, Avril, arrivo subito.»

Ti ho visto alzare gli occhi al cielo e ho riso.

Il cantante è uscito dal bagno lasciandosi dietro una scia di profumo e ha appoggiato un braccio sulla tua spalla. «Che succede?»

«Avril vuole scrivere una canzone.»

Simon si è aperto in un sorriso raggiante carico di affetto e ti ha guardato in modo eloquente. Tu hai annuito: vi stavate parlando con gli occhi.

«John ti porta in un posto perfetto in cui scrivere.»

Qualche minuto dopo mi sono ritrovata sul sedile posteriore di un taxi con una benda nera sugli occhi, una mano stretta intorno alla chitarra, l'altra nella tua e una canzone dei Joy Division che passava in radio come sottofondo.

«Ora si scopre che in realtà il tuo scopo è sempre stato quello di uccidermi in un vicolo buio a notte fonda mentre io sto pensando che tu invece mi stia aiutando a realizzare la più grande ambizione a cui abbia mai aspirato. Sarebbe una bella fregatura, sai?»

Ti ho sentito ridere e quella risata mi è ribollita nel sangue, scaldandomi il cuore.

«Mi ferisci, Avril. Dopo tutto questo tempo ancora non ti fidi di me?»

«Non è passato ancora abbastanza tempo.»

«Ah, no? Non mi sembrava che fossi di questa idea quando due settimane fa...»

Ti ho chiuso la bocca con la mano e sono scoppiata a ridere. Mi hai leccato il palmo e io l'ho tirata via, arrossendo. Non potevo vederti, ma immaginavo avessi un'espressione divertita e piacevolmente compiaciuta.

«Sì, John, ho afferrato il concetto.»

Dopo tre canzoni e parecchie svolte, il taxi si è fermato e tu mi hai aiutato a scendere. Hai pagato il tassista lasciandogli qualche sterlina senza aspettare il resto e mi hai presa nuovamente per mano, conducendomi verso il luogo designato da Simon.

«Vai piano», ho detto cercando di smettere di ridere, ormai senza fiato. Non mi sono mai più sentita leggera come in quel momento, con il vento che mi scompigliava i capelli e le tue dita che si attorcigliavano alle mie.

«Okay, siamo arrivati.»

Hai aperto una porta da qualche parte sulla parete alla mia destra e mi hai presa per le spalle guidandomi all'interno. Mi hai fatto salire dei gradini e mi hai girata. Poi ho sentito le tue mani che lavoravano tra i miei capelli per slegarmi la benda.

Ho aperto gli occhi, ma vedevo tutto nero. Eravamo immersi nel buio più totale.

«John... Ma che?»

«Aspetta qui.»

Ti sei allontanato e dopo qualche istante sono stata investita da un fascio di luce accecante. D'istinto ho alzato una mano per coprirmi il volto.

«Avril.» Mi hai afferrato il braccio e l'hai abbassato delicatamente, per permettermi di vedere l'enorme sala che si apriva davanti a me.

Ho spalancato gli occhi, rimanendo senza parole.

Eravamo sul palco dell'Apollo Manchester, il teatro in cui vi eravate esibiti appena tre ore prima. Le poltrone in velluto rosso sembravano sorridermi e i riflettori ballare intorno a noi. Eravamo soli. C'era un silenzio caldo, accogliente. Tutto era al posto giusto, tutto era assolutamente perfetto.

Mi sono voltata verso di te, ancora incapace di formulare un pensiero coerente.

«Ma come...? Cioè, noi non dovremmo...»

«Va tutto bene. Il proprietario del teatro è un amico del college di Simon ed era in debito con lui per una vecchia scommessa, così gli ha chiesto questo piccolo favore come ricompensa.»

«Non avrebbe dovuto. Insomma, non è così importante.»

Mi hai guardato negli occhi, per la prima volta serio. «Lo è, invece.»

«E se non riesco a scrivere niente?»

«Non te lo dico mai, Avril, quindi te lo dico ora: sei brava, sei brava davvero. Ce la farai. Ci sono qui io.»

Ma eri davvero tu, John? Erano tue quelle parole così cariche di affabilità?

In quel momento non mi importava. Eri convincente, persuasivo... e terribilmente affascinante.

Sei sceso dal palco, lasciandomi lì in piedi sotto i riflettori, e ti sei seduto in prima fila a braccia incrociate.

«Mi suona qualcosa, signorina?»

Ho sbuffato divertita. «Ti sei per caso drogato prima di venire qui?»

Mi hai guardato di traverso.

«Sei strano.»

Hai fatto una smorfia. «È che sto bene qui con te, in questo momento.»

Ho lasciato cadere l'argomento per non entrare nei particolari: era tutto troppo surreale. E bellissimo.

Ho preso la chitarra e l'asta con il microfono e ho chiuso gli occhi. Provavo a fingere di essere sola, ma sentivo comunque la tua presenza. Non avevo mai suonato per nessuno se non per i miei genitori prima di conoscerti. Nessuno mi aveva mai fatto i complimenti: mamma e papà ammettevano che con la chitarra me la cavassi abbastanza bene, ma non lo avevano mai considerato più di un hobby qualunque. Mi avevi confessato che inizialmente anche i tuoi genitori erano stati restii a permetterti di suonare a tempo pieno, ma poi nel corso di qualche mese avevano capito che era la tua più grande passione e così ti avevano concesso un anno di prova, al quale se ne era aggiunto un altro e poi un altro ancora, fino a portarti nella situazione in cui ti trovavi in quel momento. Era diventato il tuo lavoro e la tua ragione di vita.

I miei invece non sono mai riusciti ad accettarlo.

"Still don't know what I was waitin' for
And my time was runnin' wild
A million dead end streets and
Every time I thought I'd got it made
It seemed the taste was not so sweet
So I turned myself to face me
But I'm never caught a glimpse
How the others must see the faker
I'm much too fast to take that test" [*]

Ho riaperto gli occhi e ti ho visto sorridere. «Wow, non avevo mai sentito cantare una canzone di Bowie in questo modo. È pazzesco.»

«Lo dici solo per farmi contenta.»

«Se c'è una cosa che non sopporto sono i falsi complimenti. Dalla mia bocca non sentirai mai uscire nulla che io non pensi davvero.» Ti sei fatto una croce sul cuore e io ho alzato le mani in segno di resa, divertita.

E invece, John, sapessi di quante promesse infrante non ti sei mai reso conto...

Ma quella notte l'aria sembrava elettrica e io per la prima volta mi sentivo in potere di controllarla, con la mia chitarra appesa al collo e i tuoi occhi puntati sulle mie mani e sulle mie labbra. E il suono non è mai stato tanto perfetto come quella notte in quel teatro, dove le nostre voci si sono mescolate per ore intere nel tentativo di buttare giù un testo dignitoso.

Mi facevi chiudere gli occhi e posavi delicatamente le tue mani sui miei fianchi: a parer tuo in quel modo avrei dovuto trovare la concentrazione più totale. Io rimanevo in silenzio e non muovevo un muscolo, ma tutto ciò che ero in grado di sentire erano i brividi che mi correvano lungo la schiena e il fuoco che mi divampava nelle vene. Non sarei mai riuscita a concentrarmi con il tuo corpo a così pochi centimetri di distanza dal mio.

Abbiamo corso lungo i corridoi del teatro ridendo come dei bambini e abbiamo cantato insieme le canzoni dei Roxy Music fingendo di esibirci davanti ad un pubblico sfegatato.

Alla fine, le parole sono arrivate da sole. Ci siamo seduti al centro del palco, con il respiro affannato e le fronti imperlate di sudore. È a quel punto che mi hai sorriso.

Mi hai sorriso come non avevi mai fatto. Non era un sorriso dovuto alla felicità del momento né all'affetto che provavi per me.

Era puro, celestiale. Ma non era rivolto a me: stavi sorridendo per te stesso. È stato qualcosa di totalmente spiazzante, perché era come se fossi appena venuto al mondo, come se stessi vivendo tutto per la prima volta.

Mi sono resa conto di quanto fosse bello vederti sorridere, ma bello sul serio. Bello che capisci di non poterne più fare a meno. Bello che vorresti fosse la prima cosa che vedi ogni mattina. Bello e lontano come le stelle che illuminano il mondo.

Allora mi sono avvicinata, ti ho preso il volto tra le mani con tutta la foga di cui ero capace e ti ho baciato fino a perdere il fiato. Tu hai sussultato sulle mie labbra, poi ti sei ripreso immediatamente e mi hai stretto le braccia intorno al busto. Questa volta ero io ad avere il controllo. La testa mi diceva di fermarmi, ma il corpo stava iniziando ad aver vita propria e non rispondeva più ai comandi.

Intanto, mentre il tuo profumo mi inebriava e mani e piedi si cercavano in un gioco silenzioso, il testo della canzone prendeva forma nella mia testa. Parlava di te e di noi e di quella danza di corpi sotto i riflettori del teatro, ma soprattutto parlava di me e di come avessi ritrovato me stessa e quello per cui avrei lottato da quel momento in poi.

Perché quella notte me ne resi finalmente conto: ero perdutamente, follemente, inequivocabilmente innamorata di te.

"Come up and see me, make me smile
Or do what you want, running wild"

*cockney: abitanti di Londra

[*]Changes - David Bowie (1971)

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