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Cap 5. Is There Something I Should Know?

"Can you read my mind
Can you see in the snow
And fiery demons all dance
When you walk through that door
Don't say you're easy on me
You're about as easy as a nuclear war"


La prima volta che avete suonato su un grande palco, eravamo tutti in trepidazione. Erano passati tre mesi ed erano successe parecchie cose. Paul e Mike erano riusciti ad affittare gli Air Studios, in modo da avere una sala vera e propria per registrare; a Londra vi era stato assegnato un agente, Rob Hallett, che aveva le giuste conoscenze in campo musicale e grazie al quale avete iniziato ad essere conosciuti anche fuori Birmingham; io mi ero avvicinata a Simon, con cui avevo passato qualche serata a suonare la chitarra e a parlare della band.

Con te, invece, la situazione aveva preso una strana piega. Lavoravo regolarmente al Rum Runner come barista e qualche volta vi aiutavo in sala prove a sistemare gli strumenti: il tutto per potermi permettere una stanza sopra al locale, come mi avevi promesso. Era piccola, con un letto addossato alla parete, una finestra che si affacciava su Broad Street e un armadio a due ante accanto alla porta del bagno, ma perfetta per passarci la notte e avere la certezza di un luogo in cui potersi rifugiare. Gli unici segni della mia presenza erano lo zaino abbandonato sotto al letto e la chitarra appoggiata al muro. 

Ad ogni modo, non potevo lamentarmi di come vivevo e della possibilità che tu e gli altri mi avevate concesso. Con il passare dei giorni, sono riuscita ad inserirmi nel vostro gruppo e, quando mi sono accorta che non osavate iniziare le prove senza di me, ho capito che mi avevate accettata completamente. Era bello sentirsi importante per qualcuno.

Nonostante questo, c'erano giornate in cui avrei voluto andarmene, o semplicemente essere invisibile ai tuoi occhi. Erano i giorni in cui mi ignoravi, in cui faticavi a rivolgermi il saluto e in cui sembrava non ti importasse assolutamente nulla della mia presenza. Non mi guardavi, non commentavi le mie risposte quando Simon mi chiedeva un parere e lasciavi la sala prima che potessi avvicinarmi.

Ma allora perché mi hai voluto qui con te, John?

E la riposta non tardava ad arrivare. Sentivo bussare alla mia porta alle due o tre del mattino e quando mi alzavo per aprire, tu eri lì in piedi con la testa bassa. Ti facevo entrare e ti sedevi sul letto, appoggiandoti con la schiena al muro. Poi mi facevi segno di mettermi accanto a te e ti scusavi per come ti eri comportato durante tutto il giorno.

Avril, oggi non abbiamo passato nemmeno un minuto insieme. È stata colpa mia.

Mi dispiace di non averti salutato questa mattina, ero di cattivo umore.

Mi sei mancata oggi.

E io rispondevo sempre nello stesso modo: «Non preoccuparti, John. Ora sei qui».

E tu sorridevi, mentre il buio della stanza sembrava fondersi con il colore dei tuoi occhi, e io sorridevo e mi innamoravo. Giorno dopo giorno, canzone dopo canzone.

Era quasi un amore platonico il nostro. Non mi avevi ancora sfiorata con un dito, il tuo corpo non aveva ancora cercato il mio. Eri sempre attento ai miei movimenti e agivi di conseguenza. Avevi paura di toccarmi, come se la mia pelle scottasse, come se temessi di bruciarti o di prendere la scossa.

Le mie labbra, invece, ardevano. Andavano a fuoco ogni volta che ti incrociavo in sala prove o al pub. Ti desideravano, mi urlavano il tuo nome. E le mie mani formicolavano quando eri vicino a me ma non potevo toccarti, ogni volta che ti allontanavi di un passo per non starmi troppo vicino. Morivano dalla voglia di afferrarti il viso e toglierti quei maledetti vestiti.

Ma mi stavi uccidendo lentamente. Ero lì che speravo ti avvicinassi o mi prendessi nuovamente per mano, che cercavo di farti capire con gli occhi ciò che non ero in grado di dirti.

Credevo di non interessarti in quel senso, pensavo di non essere abbastanza per te. Ed era terribile, credimi. Non immagini quanto fosse frustrante credere che non ti importasse più. Era già finito il mio momento magico? Avevi trovato qualcosa di più interessante?

Cosa ci faccio ancora qui?

John, ti prego, parlami, toccami, scoprimi.

Ma poi una sera, grazie a Simon, ho capito che lo facevi di proposito, che in realtà volevi ciò che volevo io. Ma avevi paura. Temevi che se anche solo mi avessi sfiorata, non ti saresti più fermato. Temevi di rovinarmi, di violare il mio corpo. Perché sentivi che questa volta era diverso, che non potevi semplicemente comportarti come avevi sempre fatto. Ero qualcosa di nuovo per te, un terreno del tutto inesplorato. Qualcosa di prezioso, qualcosa che andava custodito. Avevi paura di diventare dipendente, di aver trovato qualcuno a cui avresti potuto affezionarti e di conseguenza di non essere più padrone dei tuoi sentimenti. E questo ti destabilizzava parecchio, tanto da non essere più in grado di pensare razionalmente.

Perciò a volte decidevi di ignorarmi, per far capire a te stesso che non avevi bisogno di tutto questo, ma poi ti rendevi conto che senza di me non riuscivi a starci e quindi bussavi alla mia porta, sicuro di trovarmi lì ad aspettare quel momento, che era solo nostro.

Tra tutte quelle sere, ne ricordo bene una in particolare, una di inizio settembre. La notte di quel terribile temporale, ricordi? Non era molto tardi - forse le dieci o le undici - ma tu eri già ubriaco fradicio. È stata la prima volta in cui ti ho visto ridotto in quello stato: la prima di tante.

Ti ho fatto stendere sul letto, mentre farneticavi frasi sconesse su un certo sogno che avevi fatto la notte precedente. Mi sono seduta accanto a te e ti ho posato una mano sulla guancia, ridendo sommessamente.

«John, è meglio se dormi.»

Mi hai afferrato il polso delicatamente, tenendo gli occhi chiusi e parlando con la voce impastata dall'alcol.

«Cantami una canzone.»

Ho sorriso. Sembravi un bambino.

Ho preso la chitarra e ho cantato con un filo di voce il ritornello della mia canzone preferita, mentre fuori infuriava la tempesta.

"Little darling, the smiles returning to the faces
Little darling, it seems like years since it's been here
Here comes the sun
Here comes the sun, and I say
It's all right" [*]

Ricordo di aver pensato, mentre dormivi beato tra le mie lenzuola, che non avevo mai visto nessuno comportarsi in quel modo da ubriaco. E in effetti quella è stata la prima e unica volta in cui mi è bastato cantarti una canzone per risolvere il problema. Dopo, sarebbe stato sempre tutto più doloroso.

Per il resto, i giorni trascorrevano tranquilli. Nessuna bufera in vista per il momento: andava tutto a meraviglia.

E tutti hanno pensato che sarebbe andata ancora meglio quando dopo il concerto al Marquee, un famoso music club di Londra, Rob Hallett ha telefonato comunicandovi che avreste aperto il concerto di Pauline Murray and the Invisible Grils al Lyceum Theatre.

Sapevate bene cosa significasse per un gruppo emergente salire su un palco del genere. Era una struttura unica nel suo genere - non c'era nulla di simile a Birmingham. Quelle assi di legno erano state calcate dai più grandi artisti del paese ed era impossibile non farsi contagiare da un tale retaggio. Era un teatro immenso: chiunque si sarebbe sentito piccolo davanti a quell'infinità di poltroncine in velluto verde.

Ricordo che i giorni precedenti al concerto furono un caos totale. Paul e Mike erano in ansia costante perché non facevano altro che pensare ai giornalisti del "Melody Maker" e del "New Musical Express" che avrebbero assistito allo spettacolo; il vostro agente continuava a chiamare ininterrottamente per sapere se fosse tutto sotto controllo; voi non desideravate altro che salire sul palco sotto quelle luci mai viste prima e iniziare a suonare con il più grande impianto sonoro che aveste mai provato; e io mi logoravo nell'attesa di vederti nuovamente suonare.

Siamo arrivati a Londra il 7 ottobre. Avreste dovuto esibirvi due giorni dopo, ma Mike voleva accertarsi che foste al massimo delle forze. Sarebbe stato il vostro trampolino di lancio e non potevate permettervi di sprecare una simile occasione.

Abbiamo prenotato due camere allo Strand Palace Hotel. Io avevo insistito per rimanere a Birmingham e raggiungervi solo il giorno dello spettacolo, ma Simon ha convinto Micheal e Paul a portarmi con voi.

Era quasi come se facessi parte dei Duran e la mia presenza fosse in qualche modo fondamentale. Almeno per te, lo era.

Ricordo quanto fossi agitato, quanta paura avessi di sbagliare, ma allo stesso tempo quanto fossi impaziente di suonare davanti a tutte quelle persone. Io me ne stavo lì a guardarti, in camerino, mentre camminavi avanti e indietro sotto gli occhi preoccupati degli altri.

«John, andremo alla grande» ha detto Andy, battendoti una mano sulla spalla. «Stai tranquillo.»

«Sì, Andy, lo so.»

Allora ho capito che mi sbagliavo, che tu non temevi assolutamente di commettere un errore durante l'esibizione. No, avevi solo paura di abituarti a palchi del genere e poi magari renderti conto che non ne eravate all'altezza. Avevi paura di vederti strappato via quello per cui stavate lottando tanto duramente.

Mi sono alzata dal divano e mi sono avvicinata a te, piantandoti gli occhi nelle pupille.

«Ve lo meritate. Ve lo meriterete. E continuerete a suonare, sempre e comunque.»

Hai annuito piano e poi ti sei voltato verso Andy.

«Quello che ha detto lei» ha replicato con una scrollata di spalle e un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Ti si sono illuminati gli occhi. Lui ti metteva di buon umore con quel suo sorriso. Era impossibile non lasciarsi contagiare dal suo entusiasmo verso qualsiasi cosa. Andy Taylor era un distributore ambulante di buon umore.

Quando vi hanno chiamato sul palco, prima che uscissi dalla stanza ti ho afferrato il braccio e ti ho tirato verso di me.

«John, andrà bene. Ti fidi di me?»

«Non ti conosco ancora abbastanza bene.»

Ho riso e ti ho lasciato andare. Sono rimasta lì per qualche minuto, ferma a fissare il muro e ad ascoltare le urla del pubblico che giungevano ovattate nella stanza. Vi ho sentiti suonare le prime note, cantare le prime parole di Girls On Film. Poi ho visto la testa di Mike spuntare da dietro la porta.

«Non vieni, Avril?»

«Sì, arrivo.»

Era uno spettacolo di luci e colori straordinario. E voi eravate magnifici, quasi in grado di mettere in ombra il gruppo principale. Avete cantato per mezz'ora, dando tutti voi stessi.

Quando il sipario si è chiuso, vi siete guardati a vicenda e avete sorriso, senza pronunciare una parola. Avevate capito che era fatta. Ci eravate riusciti: in un modo o nell'altro avreste realizzato il vostro sogno.

E io sono stata testimone di quel momento magico in cui ho potuto chiaramente vedere nei vostri occhi tutta l'euforia e la speranza, tutta la consapevolezza. Sapevate che era arrivato il momento di fare sul serio e sapevate anche che sarebbe stata dura. Ma non vi importava. In quel frangente, tutto sembrava possibile.

Siete scesi dal palco uno alla volta. Tu eri l'ultimo. Mi hai visto sorriderti, lì in piedi accanto alla porta del camerino.

E allora è successo qualcosa che ancora oggi non riesco a spiegarmi. Ti sei avvicinato e prendendomi il volto tra le mani hai posato le tue labbra sulle mie, con una foga disperata, continuando a sorridere.

È durato un attimo, una frazione di secondo. Eppure se ci ripenso oggi, mi sembra di ricordare che le nostre bocche fossero rimaste unite per delle ore, in un gioco iniziato per caso e mai portato a termine.

Perché l'hai fatto?

Perché quando mi hai lasciata andare, mi hai guardato in quel modo? Come se non fosse successo nulla, come se non mi avessi appena baciata. Come se non valesse la pena fermarsi a pensare al motivo che ti aveva spinto a farlo.

Forse per il bisogno di scaricare l'adrenalina su qualcosa; forse per condividere quel momento con me. O forse perché avevi finalmente deciso di assecondare le richieste del tuo corpo.

Mi piace pensare che avessi immaginato quel bacio fugace per tutta la durata della vostra esibizione, che mentre ti muovevi accanto a Simon con il tuo basso legato al collo stessi pensando a quale sapore avrebbero avuto le mie labbra e che non aspettassi altro che precipitarti da me per scoprirlo.

È stato il nostro primo bacio e nemmeno lo ricordi. So che è così, che non l'hai mai considerato importante. Ma per me ha significato più di quanto avresti mai potuto immaginare. Perché speravo fosse l'inizio di qualcosa, che fosse il tuo modo per dirmi: «Okay, Avril, sono pronto».

Non sai quanto ho aspettato quel giorno che avrebbe rappresentato una svolta per noi, in cui ci saremmo posizionati sulla linea di partenza senza più voltarci indietro e avremmo iniziato a correre insieme, per arrivare al traguardo mano nella mano. Ma quel giorno non è mai arrivato. È successo tutto troppo lentamente, come una gara al rallenty. E io ero sempre un passo dietro di te, senza mai riuscire a raggiungerti.

Il tempo passava ma tu non te ne accorgevi. Sono sempre stata lì ma tu non mi vedevi, non ci riuscivi proprio a guardarmi.

La nostra storia non è mai iniziata e non è mai finita. Dalla tua bocca non è mai uscita una parola che potesse farmi credere che mi considerassi la tua ragazza, ma dal tuo atteggiamento era chiaro che mi volessi costantemente al tuo fianco.

Lo vedi? Ti rendi conto della situazione in cui ci eravamo cacciati? Tu intrappolato in quel circolo vizioso di alcol, droga e decisioni mai prese; io incapace di prendere in mano la mia vita e lasciarti andare.

Pensa che ancora oggi non ci riesco a dimenticarti. Pensa a quanto potessi essere innamorata che, sebbene consapevole della tua presenza distruttiva, non facevo che restarmene lì, alle tue spalle, pronta a raccogliere ogni pezzo dimenticato lungo la strada.

Non eravamo niente, ma quel bacio ha significato tutto. La speranza, l'attesa: questo è ciò che mi ha ucciso. Lentamente, senza che me ne accorgessi, come la punta sottilissima di un ago che ti perfora la pelle. Il dolore lo sentivo, ma non gli davo importanza. Prima o poi sarebbe finito, perché tu avresti fatto in modo che cessasse.

Ma sono ancora qui che aspetto, che spero in qualcosa che non arriverà mai a salvarmi.

Se poi ripenso al dopo, mi viene da sorridere.

Sorrido se ripenso a noi tutti stretti nella Citroën diretti verso Birmingham, io incastrata tra il finestrino e il tuo corpo, a cercare i tuoi occhi e le tue mani, con le labbra che ancora fremevano e sapevano di te. Non è più andato via quel sapore, come inchiostro indelebile a ricordarmi un lusso che non mi è più concesso.

Durante il tragitto ha parlato solo Andy. Tutti gli altri avevano qualcosa a cui pensare. Tu a cosa pensavi, John? Guardavi dritto davanti a te, tenendo gli occhi fissi sui sedili anteriori, con le labbra socchiuse e le ciglia a solleticarti gli zigomi. Tutto l'entusiasmo delle ore precedenti sembrava essersi dissolto nell'aria, e con esso il ricordo del nostro bacio.

Ma io continuavo a guardarti ogni volta che l'auto passava sotto la luce di un lampione, sperando di trovare i tuoi occhi rivolti verso di me e un sorriso sincero a illuminarti il viso, sperando di leggere nel tuo sguardo la tacita promessa di parlarne più tardi nel buio della mia stanza, in uno dei nostri momenti.

Ero patetica, e ora lo sono ancora più che in quegli anni.

Continuo a restarmene qui, ad aspettare e aspettare e sperare. Non so nemmeno che cosa poi. Perché se, ipoteticamente, ti presentassi sulla soglia di casa mia ti chiuderei la porta in faccia. Perché è doloroso anche solo sentire il tuo nome dopo tutto questo tempo. Perché mi hai aperto le porte del paradiso per poi lasciarmi bruciare all'inferno. Perché quello che abbiamo avuto, quello che siamo stati, un nome non l'ha mai avuto.

Quindi che sto facendo? Perché non riesco ad andare avanti? Perché non riesco a pensare di innamorarmi di qualcuno che non sia tu?

Che cosa mi hai fatto, John? Che cosa mi sono fatta?

E se quello che abbiamo avuto era vero, come puoi stare bene? Come puoi non pensarci? Come puoi aver dimenticato che tutto ciò che sei ora è soprattutto merito mio? Come?

Perché io non sto bene per niente.
E ci penso.
E non riesco a dimenticare.

E fa male, credimi.

[*] Here Comes The Sun - Beatles (1969)

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