Cap 5/2. Is There Something I Should Know?
"With broken glass for us to hold
And I cut so far before I had to stay
Please, please, tell me now
Is there something I should know?
Is there something I should say?
That would make you feel my way
Do you feel the same 'cause
you don't let it show"
John
(1980)
Ho sbagliato. Non avrei dovuto baciarla in quel modo. Non voglio farle credere che sia cambiato qualcosa. È successo e basta: ero completamente fuori di me, ero euforico, e lei era lì che mi guardava con quei suoi occhi spalancati e quelle labbra piene socchiuse a sussurrare il mio nome.
Non ne abbiamo ancora parlato. So che lei vorrebbe farlo, ma io no, io non posso. Preferisco fingere che non sia accaduto nulla e che il nostro rapporto sia rimasto immutato. Stiamo bene così, non abbiamo bisogno di cambiare. Io sto bene così.
È entrata nella mia vita quasi per caso e ora non posso permettere che la stravolga. So di essere egoista: le ho chiesto di rimanere solo perché ho bisogno della sua presenza, di sentirla vicino. Ho bisogno di lei ma non vorrei. Perché mi sento impotente, incapace di pensare razionalmente, perché è la prima volta che mi sembra di non dipendere più solo da me stesso. E non mi era mai successo. Non mi era mai capitato di rimanere pietrificato davanti a un paio di occhi, di sentire il cuore contorcersi nel petto e di dover combattere contro quella sensazione di vuoto e angoscia.
Perché è questo ciò che è successo quando quella sera l'ho intravista tra la folla al Rum Runner. Non è stato un colpo di fulmine, non credo di amarla - non so nemmeno cosa sia l'amore. No, è stato terribile. Perché non riuscivo a togliermela dalla testa: continuava a tornare per ricordarmi che qualcosa era cambiato nella mia vita.
È un gioco a chi cede per primo, a chi arriva in fondo senza ferite e con l'armatura ancora intatta. Niente di più, niente di meno. Ma per me è una sorta di castigo. Come se il mio Dio avesse gettato quella ragazza là in mezzo e dall'alto mi stesse guardando divertito pensando "bene, vediamo come se la cava adesso".
Devo vincere, ma so già che non sarà così.
Non volevo conoscerla, non dovevo parlarle, non potevo guardarla. Perché sapevo che sarebbe stato diverso dal solito; la sentivo insinuarsi dentro le ossa e scorrere sotto la pelle quella sensazione di nervosismo dovuta all'incapacità di agire secondo la mia volontà. Era una battaglia persa in partenza.
Quando eravamo seduti al bancone del Rum Runner dopo l'esibizione e Simon mi ha fatto notare che dietro di me c'era quella ragazza di cui avevo parlato fino a quel momento, qualcosa dentro di me si è spezzato. Mi sono reso conto che l'avrei fatto e basta: mi sarei alzato e sarei andato da lei. Non avevo le forze per combattere contro me stesso.
Ed è diventata qualcuno per me, davvero. So che lei ci sarà quando busserò piano alla sua porta nel cuore della notte e che mi farà stare bene dopo aver sprecato tutta la serata a bere e a fumare. So che ci sarà prima di un'esibizione e dopo, pronta a rassicurarmi e a criticare le mie incertezze. Lei c'è sempre. E io non ci sono mai. Le dedico il mio tempo solo quando sono io ad averne bisogno, quando mi sento solo e quando voglio fuggire per qualche ora dalla vita frenetica che mi sono trovato a condurre da un giorno all'altro.
Ho sbagliato. Sbaglio sempre e non me ne rendo conto. Non so mai cosa fare e come comportarmi, soprattutto con lei.
«Ehi, John.» La voce di Simon mi riporta bruscamente alla realtà, nella sala prove del secondo piano degli Air Studios.
Siamo chiusi qui dentro da ore, per provare a sistemare un giro di accordi del mio basso che non riusciamo a incastrare con la chitarra di Andy. Queste quattro pareti bianche e spoglie mi opprimono.
È tardi, siamo rimasti solo noi tre e fra poco saremo costretti a lasciare gli Studios.
Non sopporto il fatto di non portare a termine un lavoro, specie se così semplice ma allo stesso tempo maledettamente frustrante a causa della poca concentrazione. Odio non aver voglia di suonare.
«John, hai sentito quello che ho detto?»
Sposto lo sguardo dalle corde dello strumento al volto del mio amico, che mi guarda con la fronte aggrottata e le sopracciglia alzate. No, Simon, ho smesso di ascoltare dieci minuti fa.
«Sono stanco, Andy è stanco, tu sei stanco. Continuiamo domani.»
Andy appoggia la chitarra e si siede sullo sgabello accanto a me. «Io non sono mai stanco.»
Simon sorride e alza gli occhi al cielo. «Va bene. Andy, tu vai pure: qui sistemiamo noi.»
Oh no. So che vuole parlare di lei. Ma io no. Almeno per qualche ora voglio fingere che non esista e che quando uscirò di qui non sarà il mio primo pensiero. Ma cosa mi fai, Avril?
Andy raccoglie le sue cose e ci fa un cenno di saluto, per poi sparire dietro alla porta in legno della stanza. Ascolto il fruscio leggero dei suoi passi risuonare lungo il corridoio, cercando di ignorare Simon, che ha iniziato a sistemare l'apparecchiatura.
Sospiro e mi alzo. «So che vuoi parlarmi di Avril.»
Simon fa una smorfia. Stacca il sintetizzatore e la tastiera e si appoggia alla parete incrociando le braccia più muscolose delle mie al petto.
«Sì che voglio parlare di Avril. È da quando siamo tornati da Londra che si comporta in modo strano. È successo qualcosa?»
«Simon, smettila di preoccuparti per lei. Non è successo niente.»
«È mia amica e mi preoccupo» ribatte piccato, guardandomi di traverso.
Sbuffo. «Amica, certo.»
«Perché dici così?»
«La conosciamo solo da qualche mese. Mi sembra azzardato considerarla già come un'amica.»
Guardo fuori dalla finestra, dove Oxford Street è illuminata dai lampioni e ancora bagnata dalla pioggia di stamattina. Non oso voltarmi verso Simon, di cui sento lo sguardo bruciarmi la schiena, perché non sopporterei di vedere quella sua espressione contrariata che mi ricorderebbe per l'ennesima volta che mi sto comportando da stronzo.
«Ma che problema hai, John? Lei per te significa più che per chiunque altro e lo sai bene. Ma ti ostini a non volerlo ammettere e in questo modo non fai altro che farti del male.»
Ha ragione. Cazzo, se ce l'ha.
«Io sto bene. Avril sta bene.»
«No, non state bene.»
Siamo ai lati opposti della stanza eppure mi sembra di sentire la sua predica prendermi a schiaffi. Si avvicina di un passo e io faccio lo stesso, assumendo la mia solita espressione di distaccata indifferenza. So che la odia.
Infatti alza le mani al cielo e fa roteare gli occhi. «E non guardarmi così. Sai che ho ragione.»
«Non sei mio padre, Simon. E nemmeno il suo.»
«Arriverà il giorno in cui ti pentirai di tutte le tue scelte di merda.»
Distolgo lo sguardo e sospiro, prendendomi ciocche di capelli tra le mani. Non sono mai stato bravo a mantenere la calma, specialmente quando so di essere dalla parte del torto. Ma ora si tratta di Simon e non posso permettermi di trattarlo male: non se lo merita.
«Ti... Ti aspetto giù?» chiede con un filo di voce, cercando di intercettare i miei occhi con il suo sguardo azzurro. È da quando ci conosciamo che mi tratta con delicatezza, andandoci con i piedi di piombo. Sa sempre come comportarsi e cosa dire e quando lo fa ti tocca dentro delle corde che nemmeno sapevi di avere. Ci sa fare con le persone: capisce fin da subito che tipo sei. E con me ci ha preso in pieno.
«No, vai pure. Faccio un salto al Rum e poi torno a casa.»
Simon annuisce, stringendo le labbra in una linea sottile. Vorrebbe scusarsi per quello che mi ha appena sputato in faccia, ma sa di avere ragione, per cui mi lascia solo con le mie paranoie ed esce dagli Studios. Lo guardo prendere il taxi e allontanarsi sotto le luci di Birmingham e rimango a fissare il mio riflesso nella finestra per quelle che sembrano ore, finché non sento la porta dello studio aprirsi.
«Taylor, è ora di chiudere.»
"I made a run, I run out yesterday
Tried to find my mountain hideaway
Maybe next year, maybe no go"
Ordino rum e coca e mi guardo intorno: stasera il pub è più affollato del solito. Ma non me ne lamento; mi piace stare in mezzo alla gente, ascoltare le conversazioni altrui e osservare. Mi fa sentire meno solo, meno fuori dal mondo. In particolar modo qui, dove tutti si vestono nel nostro stesso modo stravagante e non siamo presi di mira. È già capitato che noi brummies [*] venissimo guardati dall'alto al basso e insultati durante le esibizioni.
Mentre mi porto il bicchiere alle labbra e ascolto Lenny, il barista, commentare i prossimi gruppi che si esibiranno al Rum Runner, sento ancora le parole di Simon bruciarmi i timpani delle orecchie. Stringo forte il bicchiere tra le dita tremanti ed emetto un sospiro di esasperazione.
«John, tutto bene?»
Annuisco, senza distogliere lo sguardo dal cubetto di ghiaccio che tintinna contro il vetro. Simon mi ha fatto incazzare: perché deve sempre dire la cosa giusta al momento sbagliato? Mi ha trattato come un buono a nulla, come se non fossi nemmeno in grado di capire ciò che voglio. È forse così? Non lo so, non mi pongo mai domande del genere. E non ho intenzione di iniziare oggi. E' più facile fingere che vada sempre tutto bene.
«Per quando è programmata la vostra prossima esibizione?»
Alzo lo sguardo e mi ritrovo gli occhi verdi di Lenny puntati addosso. È poco più grande di me - credo abbia 24 o 25 anni - ma certe volte mi incute una sorta di timore reverenziale che mi spinge a non commettere passi falsi nei suoi confronti. Sarà per la giacca elegante à la Don Johnson, oppure per il taglio corto di capelli che lo fa sembrare più maturo di quello che è; fatto sta che dà sempre l'impressione di uno con cui è meglio non calcare troppo la mano.
«Il 22 ottobre, all'Holy City Zoo. È quel club sotto agli archi ferroviari della stazione di Snow Hill.»
«Ah, ne ho sentito parlare. È famoso per il tipo di pubblico di Bowie e dei Roxy Music.»
In realtà spero che quella data venga cancellata. Dobbiamo ancora sistemare parecchi problemi con il sintetizzatore e abbiamo troppe cose per la testa, specialmente io. Non possiamo permetterci di suonare male, non ora che siamo coinvolti in una sorta di lotta agli ingaggi che ci permetterà di compiere la svolta decisiva per la nostra carriera. Siamo il gruppo più in vista del momento e non posso che esserne entusiasta, ma a volte il carico di lavoro è davvero estenuante.
«Per tua informazione, ci sono due ragazze che ti fissano da quando sei seduto qui» bisbiglia Lenny, versandomi l'ennesimo bicchiere di rum e ragalandomi un sorrisetto complice.
Mi volto verso l'angolo del locale che il barista sta indicando con gli occhi e scorgo due ragazze appoggiate al jukebox che stringono tra le dita sigarette spente e mi sorridono divertite. Quella più grande, capelli ricci cotonati e gambe snelle fasciate da un paio di fuseaux viola, fa scivolare lo sguardo sulla mia camicia sbottonata che lascia intravedere il petto e si morde il labbro inferiore.
Ma questa camicia fa davvero questo effetto? Sto bene con il bianco, Avril me lo dice sempre.
Avril.
Finisco il liquore in un sorso e mi alzo, salutando Lenny con un'alzata del capo. Prendo l'accendino dalla tasca e mi avvicino al jukebox. La ragazza cotonata, vedendomi arrivare, si illumina e spinge indietro di un passo la sua compagna, che le lancia un'occhiata assassina.
Le sorrido e le prendo la sigaretta dalle mani, per poi mettergliela fra le labbra e accenderla.
Lei fa un passo avanti e mi sussurra all'orecchio: «Mi offri da bere?»
«Non mi va» ribatto strafottente con un'alzata di spalle.
Dopodiché inserisco una monetina nel jukebox e scelgo Babe I'm Gonna Leave You dei Led Zeppelin, sotto lo sguardo indignato della mora.
Mi allontano con passo cadenzato, mentre sento la ragazza più piccola sghignazzare e l'altra mormorare "stronzo" a denti stretti.
Mi faccio largo tra il gruppo di persone che si è radunato vicino alle scale che portano al piano inferiore e raggiungo quelle che invece conducono alle stanze sopra al locale. Avril sarà sicuramente lì, ma non mi starà aspettando. È da quando le ho dato quel bacio che non ci parliamo.
Il corridoio è stretto e illuminato solo da una lampadina che pende dal soffitto e che andrebbe sostituita. Cammino fino alla camera di Avril e mi fermo davanti alla porta. Alzo il pugno per bussare, ma poi sento una lenta melodia suonata con la chitarra e una voce flebile e spezzata che canta qualcosa. Mi avvicino e cerco di afferrare le parole. È The End dei Beatles. È follemente innamorata di quel gruppo e io della sua voce. È brava e non glielo dico mai.
Sospiro e rinuncio a bussare. Sento la testa girarmi e vedo i contorni del numero inciso sulla porta sfocati. Sono ubriaco, di nuovo.
Mi accascio contro la parete intonacata di bianco e lascio che il mio corpo scivoli a terra. Mi prendo la testa tra le mani e rimango lì, ad ascoltare Avril che suona la chitarra e che canta piangendo, mangiandosi le lacrime.
Piange per colpa mia?
Sono un pezzo di merda. Eppure non faccio niente, non riesco a muovermi. La lascio soffrire, mi lascio morire.
"Are you going to be in my dreams tonight?
And in the end
The love you take
Is equal to the love you make?"
*brummies: nomignolo usato per chiamare gli abitanti di Birmingham
Ciao a tutti! Per iniziare vorrei ringraziare chi è arrivato a leggere fino a qui. Ho iniziato a scrivere questa storia per caso e ora penso che ne stia venendo fuori qualcosa di carino, quindi cerco di impegnarmi al massimo😊❤
Comunque, volevo solo dire che so che tutti questi passaggi da passato a presente potrebbe scombussolare un po', ma ho intenzione di aggiungere anche dei capitoli narrati dal punto di vista di John, come questo, per svelare anche alcuni suoi lati nascosti che Avril non poteva ancora conoscere. E all'inizio voglio far parlare solo il John del passato, per evitare gli interventi di quello maturo del presente, come avviene invece per Avril.
È un po' complicato da spiegare ma spero che abbiate capito.
Buon proseguimento!
smarty_es🌸
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