Cap 15/2. Falling Down
John
(agosto 1982)
"Because I'm falling down
With people standing round
But before I hit the ground
Is there time
Could I find someone out
there to help me"
L'aeroporto di Chicago è molto più grande di quanto mi aspettassi. Io e Simon abbiamo rischiato di perderci più di una volta e, prima di raggiungere la sala d'attesa, siamo rimasti imbottigliati in mezzo ad un gruppo di americane esaltate che ci hanno riconosciuto e che volevano accompagnarci ovunque stessimo andando. Stavano per farmi saltare i nervi, ma fortunatamente ci ha pensato Simon, che è riuscito a congedarsi nel modo più gentile possibile. Ci siamo calati la visiera dei cappellini sulla faccia, sperando che nessun altro si accorgesse di noi, e ci siamo diretti a passo spedito verso la lounge.
Oggi non sono di buon umore e Simon l'ha capito, perché non mi ha quasi rivolto la parola da quando abbiamo lasciato l'hotel. In realtà, nemmeno lui vorrebbe che io fossi qui. Ce l'ha ancora con me per il mio "incidente" di Monaco, e non posso di certo biasimarlo. Anche io mi odio per ciò che è successo.
Mi accomodo su una delle sedie in plastica rivolte verso la pista di atterraggio scaldata dal sole, mentre Simon rimane in piedi con le mani in tasca. Abbasso lo sguardo sulla mano destra fasciata e provo a chiuderla a pugno. Una fitta di dolore mi attraversa il dito medio e le nocche, per poi estendersi fino al gomito. Chiudo gli occhi e sospiro, cercando di lasciarmi i ricordi di quella notte infernale alle spalle, ma finiscono inevitabilmente per scorrermi dietro alle palpebre chiuse.
Mi vedo ubriaco, fuori di testa, fuori di me. Un corpo morto che si trascina lungo il corridoio dell'hotel, due occhi smarriti che hanno perso il lume della ragione. Vedo sangue e vetro e lacrime e un corpo distrutto che si lascia cadere, che affoga nel suo pianto e nei suoi rimpianti. Mi vedo a pezzi, lacerato, senza più nulla a tenermi in vita. Vedo le conseguenze di quella notte riversarmisi addosso come una colata di lava: Mike e Simon che mi portano in ospedale nel mezzo della notte, la mia mano piena di punti, le date in Germania cancellate, un altro bassista al mio posto.
Un mese. Un mese che non suono. Un mese che non sento il peso familiare del basso tra le braccia. Un mese che le mie dita non ne pizzicano le corde. Suonare è parte di me. È l'unico momento in cui mi sento davvero me stesso, in cui smetto di pensare a qualsiasi cosa possa ferirmi, in cui smetto di essere John l'alcolizzato e torno ad essere John e basta. Ho bisogno di quel basso in modo viscerale. Ho bisogno di sentire la musica scorrermi dentro le vene. Ho bisogno di sentire che sono ancora in grado di fare del bene, di produrre qualcosa che piace agli altri e che mi fa sentire vivo.
E adesso mi sento perso, inutile, da buttare via. Non so quando potrò tornare a suonare con gli altri, ma so che non ne posso più di vedere un altro musicista al mio posto. Sapevo che sarebbe stato inevitabile, ma ad ogni concerto perso, ad ogni concerto a cui assisto come spettatore da dietro le quinte, mi sento strappare un pezzo di cuore.
Gli altri non mi odiano, perché loro non sanno. Pensano che fossi solo ubriaco e che avessi perso la testa vedendo Roger insieme ad Amanda. Rog, la sera dopo l'accaduto, mi ha raggiunto nella mia stanza e mi ha assicurato che tra loro non era successo niente, che stava solo cercando di aiutarlo. A me non importava proprio niente di Amanda, ma l'ho ascoltato in silenzio e ho accettato le sue scuse. Ho detto a tutti che mi dispiaceva, che non sapevo cosa mi fosse preso, che una volta guarito sarei tornato a suonare meglio di prima. Mi hanno creduto tutti, tranne Simon. Perché lui sa. Sa che non sono come Andy - ché anche lui prende la coca ma solo occasionalmente e in modo moderato -, sa che io esagero sempre e non riesco a controllarmi. E mi odia - glielo leggo in quei suoi occhi gelidi quando mi guarda e cerca di mostrare indifferenza - , ma non riesce ad arrendersi con me, non riesce a lasciarmi sprofondare del tutto. È lui quello che continua a sorreggere la corda alla quale sono aggrappato, per evitare di lasciarmi cadere all'inferno. È lui e...
«Avril.»
Alla voce di Simon che pronuncia il suo nome, alzo lo sguardo e i ricordi sfumano. Tutto ciò a cui riesco a pensare in questo momento è che vorrei alzarmi da questa sedia scricchiolante e correre da lei, sprofondare tra le sue braccia e restarci fino alla fine della mia patetica vita. Avril entra nel mio campo visivo come un'onda che si infrange sulla sabbia e i suoi occhi si fondono nei miei. La vedo là in piedi, che cerca di portarsi dietro la valigia e che con una mano si spazza via i capelli dal viso accaldato. Indossa una camicetta bianca scollata e un paio di jeans strappati che arrivano quasi a coprirle le solite nike. La familiarità di questa scena mi fa quasi male. Quando riesce a superare la fila di persone davanti a lei e ci raggiunge, mi si ferma il cuore.
Non ricordavo che fosse così bella. O forse non me ne sono mai accorto, forse l'ho sempre e solo guardata senza vederla veramente. E mi rendo conto solo ora che non la vedo da più di quattro mesi, che non sono in alcun modo preparato a questo momento. Non saprei cosa dirle, come parlarle, come comportarmi. Non so se è cambiata, se prova ancora gli stessi sentimenti travolgenti e laceranti.
Sei ancora tu? Sei ancora la mia Avril?
Sei qui per me?
Sì, deve essere ancora lei, deve essere qui per me. Non ci sono alternative.
La vedo abbandonare la valigia ai suoi piedi e gettarsi tra le braccia forti di Simon. Lui la stringe, affondandole il viso tra i capelli e facendo cadere il cappellino blu a terra. Distolgo lo sguardo, mentre una fitta acida mi punge lo stomaco e il petto. È qui per te, John. Non può non essere qui per te.
«John, non mi saluti?»
Mi azzardo a guardarla e sento il cuore spezzarsi. Mi sta sorridendo come ha sempre fatto. Nonostante tutto, quel sorriso continua ancora ad illuminarle il volto, ad illuminare me. Non me lo merito. Lei non può davvero volere questo. E mentre mi si avvicina e si siede al mio fianco, sento pesare sulle mie spalle ogni notte di questi quattro mesi. Ogni nottata passata a bere, a fumare e a cercare di perdermi in una miriade di altre labbra e altre mani. Sento il peso di tutte le ragazze con cui sono stato e di tutte le bottiglie che ho svuotato. E davanti a questo sorriso limpido, mi sento sporco fino al midollo.
Nonostante questo, le sorrido.
«Ciao, Avril.»
***
«Dovresti andarci.»
Avril si appoggia al parapetto del ponte e si sporge in avanti per osservare un traghetto affollato di visitatori, che si guardano intorno meravigliati e si voltano a fotografare ogni angolo della città. Io non ci trovo nulla di tanto sorprendente in Chicago. Tira sempre un vento del diavolo, l'umidità costante ti si appiccica alla gola e tutti questi grattacieli impediscono la vista sul lago Michigan.
L'unica cosa che merita di essere veramente ammirata, ce l'ho davanti agli occhi e mi sta guardando paziente in attesa di una risposta. Vuole che stasera vada al Creek per assistere al nostro concerto, ma sento che non potrei sopportare di vedere di nuovo uno sconosciuto che suona il basso alla destra di Simon. Quello è il mio posto. E stare in disparte, guardarli esibirsi da lontano, mi sta distruggendo. Mi ricorda che è la colpa di tutto questo è solo mia.
Avril mi prende delicatamente la mano bendata tra le sue, tenendo lo sguardo basso. Sta pensando che vorrebbe sapere come mi sono procurato questa ferita, ma allo stesso tempo non vuole conoscere questo nuovo John che si è ritrovata davanti. Non mi ha fatto domande sugli ultimi quattro mesi e io non mi sono azzardato a parlarne. Le va bene così, preferisce non sapere. Perché già sa e sentirselo ripetere da me la ucciderebbe ancora una volta.
«Tu ci vai?» le chiedo, cercando di sistemarmi i capelli scompigliati dal vento.
Avril sorride. «Dovresti tagliarli, sai? Iniziano a diventare lunghi.»
Vedendo che non rispondo, sospira e mi lascia andare la mano. «Io sì, insomma vorrei andarci. Non vi vedo suonare da una vita.»
«Di certo non vedrai suonare me.»
«Dovresti parlare con Simon.»
«Non mi rivolge la parola. Mi odia.»
Lei scuote la testa e si lascia sfuggire una risata. Io la guardo accigliato e lei si stringe nella camicetta, con quel sorriso genuino stampato sulle labbra.
«Lui non ti odia. Non potrebbe mai. È arrabbiato perché ti vuole bene. Vuole farti capire che se continui così...»
Si blocca, rendendosi conto di aver parlato troppo. Nessuno dei due vuole entrare in quell'argomento. O forse lei sì? Forse vuole rinfacciarmi ancora una volta il fatto che lei sia qui nonostante tutto, che è qui perché io da solo non ce la faccio.
All'improvviso mi sento debole, come se mi si stessero sciogliendo le ossa, come se i polmoni avessero iniziato a comprimersi. Sento che non ho più voglia di lottare, contro Avril e l'amore assurdo che prova per me, contro Simon e il suo sguardo ammonitore, contro la dipendenza e le sue conseguenze, contro me stesso. Sento di aver esaurito le energie, di aver toccato il fondo e di non avere più voglia di rialzarmi. Sento la vita scivolare via.
Sono qui su un ponte di Chicago, con il vento nei capelli e il sole negli occhi, davanti ad una ragazza che potrebbe essere l'amore della mia vita. Potrei avere tutto, ma mi ritrovo a mani vuote. Mani che non riescono a trattenere, che lasciano scorrersi le cose tra le dita come fossero acqua. Mani che non riescono più a toccare, occhi che non sanno più vedere, cuore che smesso di battere.
Sono vuoto.
«D'accordo, parlerò con Simon e andremo al concerto insieme.»
Avril mi guarda negli occhi e non sa cosa fare, non sa cosa dire. Lei sì che riesce a vedermi. Mi vede abbattuto, distrutto, privo di qualsiasi cosa l'avesse spinta ad innamorarsi di me. Non mi riconosce, e non riconosce nemmeno più se stessa.
Fa un passo avanti e mi stringe a sé. Mi avvolge completamente con le braccia che tremano, quasi avesse paura di spezzarmi come fossi vetro. Mi abbandono a lei e mi lascio trasportare lontano da qui, lontano da questo mondo che mi sembra ormai divorato dalle fiamme dell'inferno.
Non lasciarmi, ti prego. Non lasciarmi cadere da solo. Salvami, Avril. Afferrami prima che possa toccare il fondo.
"He thought nothing
could touch him
But here and now it's a
different storyline [...]
You see, I'm falling down"
Appena ti ho visto, ho capito che era accaduto l'inevitabile.
Eri caduto, John. Il filo che ti aveva tenuto in bilico fino a quel momento si era spezzato e ti aveva lasciato cadere tra quella cenere e polvere che era diventata la tua vita. Avevi toccato il fondo e non riuscivi a tornare indietro.
L'ho capito subito, non appena ho incrociato il tuo sguardo all'aeroporto di Chicago. I tuoi occhi erano vuoti, e così anche la tua voce e i tuoi gesti. Tutto era morto in te. Non esisteva più il John di cui mi ero innamorata due anni prima. Eri diventato qualcos'altro, qualcosa che ancora non avevo imparato a conoscere.
Ti guardavo e mi rendevo conto di amarti ancora. Non avrei mai smesso di farlo. Ma allo stesso tempo, ero consapevole di quei quattro mesi di distanza. Ero consapevole di tutto quello che eri stato disposto a fare per cercare di sentirti vivo. Sapevo che quelle mani che stavo stringendo avevano toccato decine di altre ragazze e si erano macchiate di polvere bianca centinaia di volte.
E io sono tornata ancora una volta da te. Nessuno lo avrebbe fatto. Chiunque al mio posto ti avrebbe lasciato affogare nella droga e nell'oscurità che ti portavi dentro, ma io continuavo a tornare. E vederti ridotto in quello stato mi ha fatto capire che sarei tornata sempre e comunque. Perché la mia vita ormai non la sentivo più mia, ma solo tua. Ti stavo offrendo una seconda possibilità, John. Una seconda vita. La mia.
Quella sera, hai mantenuto la promessa. Sei salito sul taxi insieme a me e Simon, ma non hai aperto bocca per tutto il viaggio. C'era tensione nell'aria e io mi sentivo andare a fuoco, lì incastrata tra voi due. Non avevate ancora parlato, ma presto sareste scoppiati. Era inevitabile.
Arrivati all'arena teatrale, già animata da migliaia di persone in attesa dell'inizio del concerto, tu hai aperto lo sportello e sei sceso per raggiungere gli altri. Ho guardato Simon e lui mi ha rivolto un'alzata di spalle e un mezzo sorriso triste.
«Andrà tutto bene, Simon. Lasciagli il tempo e lo spazio necessario e vedrai che sarà lui il primo a farsi avanti per chiederti scusa.»
Lui ha annuito poco convinto e poi: «Andiamo dagli altri» ha sussurrato in un filo di voce.
Sono scesa dall'auto per poi seguire Simon, che si stava dirigendo a passo spedito verso un gruppo di persone riunite accanto alle scale che portavano dietro le quinte dell'immenso palcoscenico. Sentivo le urla della gente che mi perforavano i timpani e le voci isteriche delle ragazze che chiamavano i vostri nomi, al di là dell'impalcatura.
Tu eri seduto su uno dei gradini più bassi, con una sigaretta stretta tra le dita e un'espressione concentrata rivolta ad un uomo vestito di nero con una cartellina in mano, che ti stava spiegando qualcosa indicando i riflettori. Non mi hai vista arrivare e io non volevo disturbarti, perciò ho stretto il braccio a Simon, che voleva farmi conoscere il nuovo bassista temporaneo.
«Avril, ti presento Sid Carter, il sostituto di John.»
Ho allungato la mano verso un ragazzo più grande di te di almeno un paio d'anni, una zazzera di capelli neri ad oscurare gli occhi verdi e un sorriso contagioso ad illuminargli il bel viso. Ho cercato di sembrare il più naturale possibile, ma dentro sentivo il sangue ribollire nelle vene. Nonostante tutto, non avrei mai potuto accettare di vedere qualcun altro sul palco accanto a Simon che non fossi tu. Ora capivo come ti sentivi, a dover rimanere impotente nell'ombra, con gli sbagli che ti gravavano sulle spalle e sullo stomaco e senza possibilità di cambiare le cose.
Ho cercato il tuo sguardo in mezzo a tutte quelle persone che non conoscevo e lei cui storie non mi importava ascoltare, e ho trovato i tuoi occhi già posati su di me. Sorridevi, ma senza alcuna emozione ad incresparti gli occhi e le labbra. Eri triste, e maledettamente solo. Là seduto, con i capelli ancora mezzi scompigliati e la sigaretta ormai finita che ti penzolava dalle dita, che facevi finta di ascoltare chi ti stava intorno, mentre avresti voluto essere dall'altra parte del mondo, magari su una spiaggia al tramonto a ballare insieme a me, fingendo che quella vita non ti appartenesse. Fingendo che non ci fossero problemi urgenti da affrontare, come la tua dipendenza, come il baratro vuoto e infinito che erano stati quei giorni senza di me.
Non ti avevo mai visto ridotto così, con tutta la consapevolezza di ciò che eri diventato insinuata in quelle pupille buie come la notte e in ogni ruga del viso, piantata sotto pelle e fin dentro le cavità delle ossa. Quella visione di te - di quello che era rimasto sotto la tua corazza ormai in frantumi - mi ha reso infinitamente triste e consapevole di aver fallito, e non mi sono resa conto di stare piangendo finché Simon non mi ha voltata verso di lui per stringermi tra le braccia.
«Non io, Simon» ho pianto sulla sua spalla, mentre chi ci circondava si stava lentamente allontanando per dare inizio al concerto. «Non sono io quella giusta.»
«Hai ragione, Avril. Ma non esiste nessuno giusto per John.»
Ho sciolto l'abbraccio e ho scosso la testa. «Per tutto questo tempo, sono rimasta. E sono ancora qui, nonostante tutto quello che ho dovuto sopportare. Voglio cercare di aiutarlo davvero questa volta. E se non ascolterà me, ci proveremo insieme, Simon. Perché John si merita di essere felice e non mi importa se finirà per odiarmi. Tengo più a lui che a me.»
«Avril...» ha sussurrato con gli occhi lucidi. Ha preso fiato per continuare, ma le parole gli si sono incastrate in gola. Avril, no. Avril, non continuare a farti del male. Avril, anche tu meriti la felicità.
«So cosa vuoi dirmi e so che hai ragione. Ma dopo essere arrivata fino a qui, non posso permettermi di pensare che sia stato tutto inutile.»
«Non puoi salvarlo, non così...»
«Non ha bisogno di essere salvato, Simon. Ha bisogno di essere capito. Ha bisogno di qualcuno che lo tenga per mano in tutta questa oscurità. Ha bisogno di qualcosa che nessuno può dargli, nemmeno io. Ma voglio provarci. Voglio fargli capire che non è solo e che non lo sarà mai fino a quando ci sarò io, fino a quando ci sarete voi.»
Non avevo mai parlato in quel modo a Simon, con le guance rigate di lacrime e il fiato corto a mozzarmi le parole. Ma in quel momento anche io avevo toccato il fondo, e tutto ciò che volevo era cercare di risalirlo insieme a te.
Lui mi ha preso per mano e un piccolo sorriso gli ha increspato le labbra. «Sei la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto, Avril Bailey. Un giorno scriverò una canzone che parla di te.»
Non è coraggio, avrei voluto dirgli. È debolezza.
***
Non avrei voluto perdermi quel concerto per nulla al mondo, ma mentre ascoltavo Simon cantare Save A Prayer - il pubblico in estasi con gli accendini accesi sollevati sopra la testa - ho realizzato quanto tutto sembrasse sbagliato senza di te. Perciò mi sono voltata e ho lasciato il palco, scusandomi con Mike e Paul, con l'intento di venire a cercarti. Eri rimasto al mio fianco solo per la durata di due canzoni, per poi dileguarti con la scusa di uscire a fumare una sigaretta e con la promessa che saresti tornato entro cinque minuti. Ma non sei tornato, e io ho resistito per altri venti minuti prima che la preoccupazione prendesse il sopravvento.
Non è stato difficile trovarti. Stavo scendendo i gradini della scala d'accesso e tu eri lì, seduto con la schiena appoggiata alla ringhiera di ferro e con lo sguardo perso in quella notte senza stelle.
Sono rimasta a fissarti per qualche istante, con le mani che fremevano per la voglia di realizzare un dipinto di quella scena. Molte volte, durante quei lunghi periodi che abbiamo trascorso separati, ho provato a ritrarti per essere sicura di non dimenticare i lineamenti del tuo volto. Ma c'era sempre qualcosa che mancava - qualcosa che sembrava non potesse essere afferrato e riprodotto - e ogni disegno finiva per sembrarmi nient'altro che un intrico di segni e curve aggrovigliate sul foglio.
Cercai di imprimermi quella scena nella memoria, promettendomi che un giorno le avrei ridato vita mettendola su tela.
Mi sono fatta avanti e tu ti sei accorto della mia presenza, ma sei rimasto in silenzio, portandoti la sigaretta alle labbra con una flemma disarmante. La camicia bianca troppo larga ti svolazzava intorno, lasciando scoperta la pelle pallida del petto e dei polsi. Sembravi dimagrito dall'ultima volta che ti avevo visto.
Mi sono seduta davanti a te, stringendomi le ginocchia al petto, senza staccarti gli occhi di dosso.
«Avevi detto che saresti tornato dentro.»
Hai fatto una smorfia, lasciando cadere la sigaretta e spegnendola con il tacco di una scarpa.
«Mi sono perso nei miei pensieri.»
Non sono riuscita a trattenere una risata e tu mi hai guardato quasi offeso.
«Scusa. Mi aspettavo più una risposta del tipo "Tanto facevano schifo", oppure "Quel Sid non potrà mai essere un mio valido sostituto".»
Hai sorriso, alzando gli occhi al cielo. «Non si può dire che tu abbia torto.»
Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto, cullati dalla brezza estiva e illuminati da una pallida luna alta nel cielo. La voce di Simon proveniva ovattata dal palco e così le grida della folla e i passi frenetici dei tecnici alle nostre spalle. Quel mondo sembrava talmente lontano da noi due, intrappolati in quel momento perfetto, contornato da sguardi che significavano tutto e niente sullo sfondo della notte e delle luci distanti della città, che quasi mi convinsi di non appartenervi.
Sarei rimasta lì in eterno, rinchiusa in quell'istante che non sarebbe tornato mai più. Sarei rimasta lì, John, te lo posso assicurare, con le sbarre della ringhiera che mi premevano sulle scapole e con le gambe intrecciate alle tue. A fingere che andasse tutto bene. A fingere che avremmo potuto essere davvero felici insieme.
Ma ci hai pensato tu a spezzare la magia.
«Di cosa stavate parlando tu e Simon?»
«Di te.»
È il momento giusto. Ora o mai più, Avril.
«Ti ho vista piangere.»
«Per te.»
«Sono vuoto.»
«Lo so.»
«Ti fa male guardarmi?»
«Sì, John.»
«Mi ami ancora?»
«Sempre.»
Ho sentito un lacrima scorrermi lungo la guancia e le tue dita sul mio viso, delicate, a spazzare via ogni traccia di dolore.
«Non devi piangere per me.»
«Non è una cosa che puoi controllare.»
«Lo so, ma non voglio farti ancora del male.»
«È inevitabile.»
«So anche questo.»
Faceva più male del previsto. Sentire quelle parole materializzarsi e diventare concrete nel breve spazio che ci divideva, e non crollare ai tuoi piedi mentre mi gettavi addosso quella verità di cui anche tu eri diventato consapevole: che mi avresti fatto del male, ancora e ancora. Perché non conoscevamo altro modo. Non sapevamo vivere che in quel mondo fatto di armature spezzate e lacrime e parole soffocate sul fondo della gola. Non potevamo fare altro se non continuare a resistere. Eravamo sopravvissuti, ma avremmo voluto iniziare a vivere.
«John, hai bisogno di aiuto.»
«Ho bisogno di te.»
Quelle parole furono un pugno al cuore, e quasi rischiai di cedere e abbandonarmi alle tue braccia, incapace di tenere insieme i pezzi di ciò che ero. Mi guardavi in modo disperato, come non avevi mai fatto prima. Ero sicura che se avessi allungato una mano e ti avessi anche solo sfiorato, ti saresti frantumato ai miei piedi.
Eravamo entrambi deboli, ma non potevo cedere adesso.
«Devi smettere, John.»
Ti sei guardato la mano fasciata e hai cercato di stringerla, con una smorfia di dolore a corrugarti gli angoli degli occhi e delle labbra.
«Non sei solo. John...»
Ti ho preso le mani e le ho portate sul mio cuore. Sentivo gli occhi bruciare per il dolore e sono sicura che tu, in quel mio sguardo, abbia potuto vedere tutta la disperazione e la sincerità con cui ti stavo rivolgendo quella muta preghiera.
Ti prego, John. Ti prego. Reagisci.
Alla fine, dopo secondi che mi erano sembrati non finire mai, hai annuito lentamente. Le tua mani avevano smesso di tremare e un sorriso era tornato finalmente ad illuminare quel volto che tanto amavo.
«Lo farò.»
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