Cap 10. Anyone Out There
"My face in the mirror shows
the break in time
A crack in the ocean which
does not align
I tried to sleep last night but
I've caught your dreaming
About days we used to wonder away"
Credo che tutto, in un certo senso, sia iniziato e finito a New York. In quella città, avvolta dal fumo e dal suono dei clacson, ho conosciuto il lato di te che stavi disperatamente cercando di tenermi nascosto. È buffo come ci siano voluti cinquemila chilometri e quasi sette ore di volo per scoprire il motivo per cui mi eri sembrato tanto angosciato; incredibile come tutto questo non sia accaduto tra le mura della nostra città ma in una maledetta stanza del St. Moritz, dove per un istante mi è sembrato di avere davanti agli occhi un completo estraneo e non quel ragazzo che credevo di conoscere.
Sì, è così. È iniziato tutto la mattina in cui ho preso il treno per Londra e, quasi senza rendermene conto, alle otto in punto ero già in aereo, seduta nella fila centrale, con le mani tremanti e sudaticce che tenevano stretta la borsa e il cuore che mi scoppiava nel petto - se di gioia o paura non ero in grado di capirlo.
Non ero mai stata a New York. A dire il vero, non avevo mai lasciato l'Inghilterra e, prima di conoscerti, nemmeno Birmingham. A mio padre non era mai piaciuto viaggiare e così la mamma, che invece avrebbe quantomeno desiderato visitare l'Irlanda e la Francia, col tempo ha finito per rassegnarsi per evitare inutili discussioni che non avrebbero fatto cambiare idea al marito. E io, di conseguenza, sono cresciuta senza la curiosità tipica dei bambini di sapere cosa nasconda il mondo esterno.
Inutile dire che non avevo nemmeno mai viaggiato su un aereo e mai avrei pensato di ritrovarmi a dover stringere la mano di un anziano signore, seduto accanto a me, che mi sorrideva cercando di tranquillizzarmi, per evitare che avessi un attacco di panico durante il decollo. Tutto questo solo per raggiungere te.
È iniziato tutto lì e poi quando sono scesa dall'aereo, le gambe che mi sembravano di gelatina e un presentimento di catastrofe che quasi mi impediva di muovermi; quando ho raggiunto il gate e ho recuperato le mie valigie e sono uscita sulle strade trafficate di New York, a respirare l'aria carica di smog.
E tutto è finito quando sono entrata nella prima cabina telefonica che ho incontrato, ho composto il numero del telefono della stanza di Simon e sono stata così fortunata da trovarlo in hotel a quell'ora del pomeriggio.
«Pronto?» La voce pacata del mio amico mi rincuorò e gli occhi mi si inumidirono per la nostalgia.
«Simon, sono Avril. Sono arrivata a New York.»
Tutto è irrimediabilmente finito quando ho fermato un taxi e mi sono diretta al St. Moritz, chiedendomi come avresti reagito vedendomi spuntare fuori da un momento all'altro senza preavviso, immaginando quale sfumatura avrebbero assunto i tuoi occhi nel momento in cui mi sarei avvicinata e ti avrei posato una mano sul volto. Avresti sorriso? Mi avresti lasciato un bacio in fronte e poi uno sulle labbra? Saresti stato contento della mia presenza o saresti rimasto indifferente?
Queste le domande che mi ponevo mentre i palazzi e le auto scorrevano veloci all'esterno. Non mi importava la città, non ricordo nemmeno se l'avessi trovata un bel posto in cui vivere oppure no. Ricordo solo la strada dall'aeroporto all'hotel, che mi era sembrato non finisse mai. Perché ciò che rendeva New York attraente ai miei occhi era solo e unicamente la tua presenza. Solo tu eri in grado di farmi sentire a mio agio in qualsiasi posto. Avrebbero potuto rinchiuderci in un cella e non mi sarei lamentata comunque.
Ma era troppo tardi, la valanga aveva lentamente inziato a sommergermi, ed era già tutto finito quando sono scesa dal taxi e mi sono ritrovata davanti a quel palazzo che sembrava toccare il cielo. Eri lì dentro, mi sarebbero bastati altri dieci metri e mi sarei trovata di nuovo i tuoi occhi incastrati ai miei, dopo tutti quei giorni passati ad aspettare le tue telefonate. Mi sembrò di essere tornata al primo giorno, a quella sera al Rum Runner, quando le pedine avevano iniziato a muoversi da sole e io non ero stata in grado di fermarle.
Il primo di voi che ho visto è stato Simon, che mi stava aspettando seduto su una delle poltroncine della reception, con le gambe accavallate e fasciate da un paio di eleganti pantaloni beige, un piede che si agitava nervosamente e lo sguardo puntato sulle porte scorrevoli dell'ingresso. Si è alzato ed è corso ad abbracciarmi, con un sorriso raggiante ad illuminargli il viso.
«Dammi le valigie. Ci penso io a prenderti una stanza.» Le ho lasciate cadere sul pavimento lucido della hall con piacere, massaggiandomi una spalla indolenzita. Ho guardato Simon con sguardo interrogativo e lui ha sorriso, paziente.
«È nella sua stanza. Ancora non sa del tuo arrivo.»
«Non vorrei disturbarlo», ho mormorato, nemmeno io convinta di quello che avevo appena detto.
Simon ha alzato gli occhi al cielo e mi ha posato una mano dietro la schiena, per poi spingermi verso l'ascensore.
«È la numero 230, al ventottesimo piano.»
Dopo aver preso l'ascensore e aver bussato alla porta della tua stanza, ricordo tutto in modo molto confuso. Quando ripenso a quel momento mi sembra di essere un'ombra che guarda la scena da lontano e ciò che vedo è una ragazza che si tortura nervosamente le mani nell'attesa; una ragazza dai capelli spettinati, gli occhi grandi e più verdi che mai ricolmi di speranza, e con una luce in volto a testimonianza del fatto che fosse ingara degli enormi massi insorreggibili che incombevano su di lei.
Vedo la porta aprirsi lentamente e un nido di capelli castani sbucare dalla fessura. Vedo due occhi scuri che si chiudono e si aprono, per poi soffermarsi sulla figura che si ritrovano davanti. E poi sento una voce ridotta ad un sussurro: «Avril? Sei tu?»
«Sono io, John.»
«Non puoi essere davvero qui.»
«Sono qui.» Vedo la ragazza sorridere e poi piangere, mentre allunga una mano fino a sfiorare la guancia di lui.
E poi vedo la porta aprirsi completamente e il ragazzo gettarsi a braccia aperte verso di lei, per poi stringerla fino a toglierle il respiro.
«Sei davvero qui», lo sento marmorare tra i suoi capelli.
Vedo le sue mani toccarle il viso, asciugarle le lacrime, passarle il pollice sulle labbra e poi sul mento, come ad accertarsi che non sia un sogno.
Vedo due ragazzi che sembrano aver scoperto un sentimento nuovo e totalizzante, che ti riempie fino a scoppiare, due ragazzi incasinati che stanno consumando l'amore nel corridoio del ventottesimo piano di un hotel, due ragazzi che non parlano ma che si stanno dicendo tutto. E sento i loro cuori battere. Non potrebbero essere più diversi di così, non potrebbero essere coinvolti in una storia più distruttiva di questa, ma i loro cuori battono allo stesso modo. L'hanno sempre fatto ma nessuno se ne è mai reso conto. Tantomeno loro.
Ricordo così quel momento. Ricordo di aver letto qualcosa di nuovo nei tuoi occhi ma di non essere riuscita a decifrarlo. Ricordo che siamo rimasti abbracciati per un'eternità, tu a stringermi e io a bearmi del tuo profumo. Avrei voluto che quel momento non finisse mai, perché per la prima volta mi è sembrato che tu avessi sinceramente bisogno di me. E anche se per i primi minuti non hai pronunciato una parola, sapevo che eri grato che io fossi lì, che nonostante tutto quello che stavi passando e che volevi tenermi nascosto avresti dato qualsiasi cosa purché io restassi.
Mi hai fatto entrare nella tua stanza, in cerca di qualcosa di giusto da dire. Ma tutto e niente era giusto in quel momento e di parole non ne servivano, non ancora. Eravamo insieme e io sentivo che sarebbe andato tutto bene. Le paranoie e i dubbi che mi avevano tormentato per tutto il viaggio in aereo si erano dissolti non appena ti avevo visto sbucare dalla porta, avvolto in quella tua giacca bianca mezza sbbottonata.
«Wow, questa è tutta tua?» ho chiesto, guardandomi intorno meravigliata.
La stanza era enorme, quasi una sorta di suite. Era uno spazio rettangolare con il pavimento rivestito di legno lucido e illuminato da grandi vetrate da cui si poteva ammirare in tutta la sua bellezza Central Park. A destra della porta principale ce n'era una scorrevole da cui si poteva accedere al bagno privato, mentre davanti alle vetrate era sistemato un gande divano in pelle bianca ricolmo di cuscini colorati, in contrasto con le pareti verniciate in carta da zucchero. Il letto era invece sistemato dietro ad un'ulteriore parete, che andava a dividere il resto della stanza dalla zona notte. Infine, un enorme lampadario di cristallo era posizionato sopra ad un pianoforte nero e un bancone ricolmo di bottiglie di ogni genere su una zona rialzata che fungeva da angolo bar, a cui si accedeva tramite qualche gradino.
«Devono costarvi un occhio della testa cinque camere così», ho notato, continuando a girare intorno al divano e lanciando delle brevi occhiate nella tua direzione. Ti eri seduto su uno sgabello e mi guardavi con un piccolo sorriso.
Mi sono avvicinata, lasciando cadere la borsa sul divano, e ti ho appoggiato le mani sulle ginocchia, puntando i miei occhi nei tuoi.
«Come stai, John?»
Avevi due occhiaie scure che ti appesantivano gli occhi e i capelli arruffati: sembrava che non dormissi da giorni.
Hai distolto lo sguardo per un secondo. Ormai avevo capito che non ti piaceva ti venisse fatta quella domanda, perché avevi sempre l'impressione che ce ne fosse sempre un'altra nascosta dietro. Hai bisogno di aiuto, John? Ma io non avevo secondi fini, non in quel frangente. Avevo semplicemente bisogno di sapere.
«Adesso meglio. Ma non voglio parlare di me. Stasera non abbiamo nessun concerto e le prove di oggi sono saltate per un problema di corrente in studio. Ho tutto il giorno libero e voglio passarlo insieme a te.»
A quelle parole mi si strinse il cuore e, se possibile, il sorriso sulle mie labbra si allargò ulteriormente.
«Mi sei mancato, John.»
Quel pomeriggio abbiamo parlato di tutto e di niente, mentre camminavamo per le strade affollate di Manhattan. Non ci tenevamo per mano perché io tra le braccia stringevo la giacca, troppo pesante da indossare per i diciotto gradi che facevano. Ero abituata al clima umido dell'Inghilterra, e mi sentivo del tutto impreparata ad affrontare una grande città che non fosse Londra.
Tu, invece, sembravi esserci nato a New York. Era una delle tue caratteristiche più evidenti: riuscivi ad adattarti a qualsiasi luogo, saresti stato in grado di vivere ovunque. Amavi la tua terra, ma non avresti mai potuto rimanere ancorato ad un'unica realtà. Avevi il bisogno di viaggiare, scoprire, ricercare il nuovo e il diverso. Una delle cose che tanto amavo di te, ma a cui tu non hai mai dato il giusto valore.
Ricordo che non mi feci visitare la città: a nessuno dei due importava in quel momento. Ci siamo semplicemente seduti su una panchina a Central Park, dove la sera prima, mi hai detto, si erano esibiti Simon & Garfunkel, un altro gruppo storico che conoscevo grazie a mio padre.
«Avrei voluto vederli.»
«Sì, ti sarebbe piaciuto.»
Siamo rimasti lì per ore intere, a osservare gli altri, a osservarci e ispezionarci a vicenda. Perché nessuno dei due aveva il coraggio di parlare del vero motivo per cui ero lì. Ti eri accorto che ero riuscita ad intuire qualcosa e probabilmente pensavi che me ne avesse parlato Simon, così per tutte quelle ore sei rimasto sulla difensiva, attento a non entrare nel discorso, come un bambino che ha fatto qualcosa di proibito e se ne resta muto davanti ai genitori, cercando di non farsi notare e sperando che non lo puniscano.
Ma mi dissi che c'era tempo, che prima o poi ne avremmo parlato, del tuo problema, che io ancora non conoscevo a fondo. Ma ero lì proprio per quello: per scoprirti, per abbattere il muro dell'indifferenza.
Così mi lasciai andare completamente e mi tolsi la maschera della ragazza circospetta e indagatrice. E fu subito uno di quei momenti, come quello nella mia stanza al Rum Runner o quello al teatro di Manchester. Noi e basta. Nessuna difesa, nessuna barriera a proteggerci.
Ricordo di aver sorriso, mentre il cielo sopra di noi si era ormai coperto di grossi nuvoloni neri, e tu mi hai seguito a ruota, consapevole che per quel giorno eri riuscito a salvarti. Poi la pioggia ha iniziato a scendere e, prima che potessi rendermene conto, mi avevi presa per mano e ci eravamo lanciati di corsa verso una delle tante uscite del parco, circondati dalla gente che come noi cercava una tettoia sotto cui ripararsi.
«Ecco la seconda cosa che ho imparato dopo aver lasciato Londra», hai ansimato, appoggiandoti con la schiena al muro di un negozio a un paio di chilometri dal St. Moritz.
«Quale?» ho chiesto, affiancandoti. Nel giro di pochi minuti si era scatenato un temporale in piena regola ed eravamo entrambi completamente zuppi. Ho preso una ciocca di capelli e ho cercato di strizzarla il più possibile.
«Che il tempo nel resto del mondo, in genere, è abbastanza imprevedibile.»
Avrei voluto ridere per l'assurdità della tua frase, ma pronunciata da te sembrava quasi avere un senso. Mi sembra che poi avessi continuato a parlare di tempo instabile e di quanto ti mancasse Birmingham, ma ormai non ti stavo più ascoltando. La mia attenzione era stata completamente catturata dalle tue mani, con cui cercavi di dare una forma dignitosa a quell'ammasso di capelli. Avevi delle dita così lunghe e sinuose che in quel momento non avrei voluto altro che mi accarezzassi, ovunque. Avevi anche un anello nuovo, scuro, che avevi infilato nell'indice della mano destra, quella con cui suonavi il basso. Avrei voluto baciarti, leccare via dalla tua pelle ogni singola goccia d'acqua che ti bagnava le guance, le labbra, il collo. Ormai anche la maglia a strisce bianche e blu che indossavi stava iniziando ad aderire al corpo. Non avevi gli addominali né un fisico scolpito, ma vedere il tuo petto mi metteva inspiegabilmente in imbarazzo. In effetti, dopo quella notte al Rum Runner di quasi un anno prima, eravamo stati a letto insieme solamente un'unica volta, e non ne avevamo mai parlato. Era come se stessimo portando avanti due relazioni separate tra loro: una di amicizia e una di puro sesso. E non si intrecciavano mai. Mai era successo che ci baciassimo fuori dal letto, per quanto io lo desiderassi.
Sarebbe sembrato troppo da fidanzati, vero John? Troppo da due persone che hanno una relazione stabile e normale.
Ma noi non eravamo né normali né stabili, e tantomeno lo sarebbe mai stata la nostra relazione.
A testimonianza di questo il fatto che, mentre poche ore prima non ti saresti mai azzardato a sfiorarmi le labbra nemmeno con un dito, ora, dopo aver aspettato che la pioggia calasse e dopo aver corso fino all'hotel, appena entrati in camera tua, me le stavi divorando quelle labbra.
Aspettavo quel momento da settimane e non mi sarei mai aspettata che ti saresti lasciato andare così facilmente. Piuttosto non mi sarei sopresa di vederti freddo e distante, come già molte volte era successo dopo che eravamo rimasti distanti per un lungo periodo. In quel momento, invece, eri pieno di energia e vitalità. Emanavi calore da tutti i pori.
Mi hai fatta stendere sul letto, mi hai sbottonato la giacchetta ormai appiccicata ai fianchi, per poi gettarla sul pavimento, e ti sei steso al mio fianco. Ho intrecciato le mani dietro il tuo collo e le ho fatte passare sui capelli ancora bagnati, mentre un sorriso si faceva spazio sul mio viso.
«Qual era la prima cosa?» ti ho chiesto quindi in un sussurro, prendendo tra le dita la tua collana e giocherellando con il ciondolo a forma di croce.
«Come?»
«La prima cosa che hai imparato dopo aver lasciato l'Inghilterra. Non me l'hai detto, prima.»
Hai deglutito rumorosamente e hai sorriso, allungando una mano per accarezzarmi la clavicola e poi lo spazio in mezzo al seno. C'era odore di pioggia e desiderio in quella stanza.
«Che lontano da te non riesco a starci.»
A quelle parole mi sono morsa il labbro inferiore e mi sono gettata tra le tue braccia, per perdermi ancora una volta in te e affidarmi completamente a quelle tue mani che stavo tenendo strette da quasi un anno e non avevo nessuna intenzione di lasciare.
Fu dopo quella perfetta giornata insieme, dopo quella notte che mai avrei dimenticato, che i massi iniziarono inevitabilmente a crollare su di me, su quella ragazza che credeva di poter aggiustare il tuo mondo imperfetto e corrotto, non rendendosi conto che per lei, che c'era entrata nel momento più sbagliato in assoluto, uscirne sarebbe stato impossibile.
Ciao a tutti (quelli che sono arrivati fin qui)!
Volevo scusarmi per il ritardo dell'aggiornamento, ma veramente nell'ultimo periodo ho fatto tanta fatica a concentrarmi e a riuscire a scrivere qualcosa di decente.
Ma alla fine eccomi qui, sono riuscita a riprendere il filo della storia. Volevo ringraziare chi sta ancora leggendo la storia perché significa tantissimo per me. E siamo quasi arrivati a mille visualizzazioni, non che sia tanto ma per me è pur sempre un traguardo!
Spero di riuscire ad emozionarvi almeno un tantino e... niente. Continuate a leggere perché adesso si entra veramente nel fulcro della storia e d'ora in poi sarà davvero un bel casino per entrambi!
smarty_es🌸
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