Cap 1. Planet Earth
Prima parte - 1980
"Look now, look all around
there's no sign of life,
Voices, another sound,
can you hear me now?"
Quando eri in tour con i Duran e ti trovavi a migliaia di chilometri di distanza da me, mi capitava spesso di immaginare che fossi lì al mio fianco. Sognavo le tue mani sul mio corpo, le tue labbra sul collo e sulle cosce, i nostri respiri intrecciati. Ma soprattutto mi piaceva immaginarmi la tua voce e il modo in cui muovevi la testa mentre parlavi e come pronunciavi il mio nome. Ho sempre pensato che sulle tue labbra avesse un suono diverso. Melodioso e duro allo stesso tempo. Un significato diverso. Quando mi chiamavi sembrava chiedessi aiuto, che mi pregassi, ma consideravi sempre la mia presenza come qualcosa che ti era dovuto. Sei qui con me? Bene, è esattamente dove dovresti essere. Qui per me.
Ma mi piaceva comunque ascoltarti mentre mi chiamavi. Ti lasciavo ripetere il mio nome più di una volta prima di raggiungerti. E spesso ti arrabbiavi per questo, perché non correvo subito da te. Avevo bisogno, perché ci hai messo così tanto?
Avril. Avril.
Chiamami ancora, John.
Avril.
E quel suono non è mai più stato così perfetto come quel primo giorno. Quando eravamo ingenui e inconsapevoli. Quando i nostri nomi suonavano ancora come un richiamo, che negli anni si sarebbe poi trasformato in una preghiera e infine in un lamento di morte e sconforto.
La prima volta che abbiamo parlato: la ricordo come se fosse ieri, anche se ora sembra siano passate centinaia di anni.
Avevate appena finito di cantare per la terza volta il vostro primo singolo, Planet Earth, che sarebbe poi uscito l'anno seguente. La gente chiedeva l'ennesimo bis, ma avreste dovuto lasciare la scena all'ultimo gruppo della serata. Così avete salutato la folla che applaudiva entusiasta e ancora teneva il ritmo della canzone sbattendo i piedi a terra. C'era odore di fumo, sudore e pelle. Io ero stata spinta indietro rispetto a dove mi trovavo all'inizio, ma tu non sei sceso dal palco finché i tuoi occhi non hanno trovato i miei. Hai sorriso, e poi te ne sei andato senza aspettare di vedere la mia reazione. Perché non ti importava, volevi solo farmi capire che ti piacevo e avevi dato per scontato che io ricambiassi.
Insomma, ragazzina, guardami. Come potrei non piacere a qualcuno?
Non sapevo cosa stessi provando in quel momento e cosa ti passasse per la testa quando hai deciso che io avrei in qualche modo fatto parte di qualcosa in quella serata di fine giugno. L'avrei capito con il passare degli anni, dopo aver studiato alla perfezione il tuo comportamento e il tuo malato modo di pensare in quelle situazioni.
Sarebbe andata come tu volevi che andasse. Uno sguardo, un sorriso, un incontro casuale, un bicchiere di birra offerto da te, qualche battuta di pessimo gusto. Poi il famoso "ti accompagno a casa in taxi". E in qualche modo era fatta: la ragazza in questione sarebbe caduta ai tuoi piedi e si sarebbe lasciata trascinare ovunque pur di rimanere con te e drogarsi del tuo fascino.
Banale ma efficace, immagino. Non sono mai riuscita a tenere il conto delle volte in cui hai usato questo metodo. Che poi, dopo il successo, ti sarebbe bastato guardare una ragazza per portarla nella tua stanza in hotel e passare la notte con lei. Non ci trovavi nemmeno più gusto. Nessun giochetto, nessuna possibilità di rifiuto. Ottenevi tutto ciò che volevi senza alcuno sforzo. Perché semplicemente eri tu.
Credo di essere stata la prima e l'ultima a non aver ceduto, ad aver scosso la testa davanti a quel taxi nero illuminato dalla luce giallastra del lampione e bagnato dalla pioggia. Dovrei forse sentirmi orgogliosa? Diversa dalle altre?
No, non ero affatto diversa da nessuno e forse se avessi acconsentito, tu, dopo quella notte, mi avresti lasciata perdere.
Dopo l'esibizione e il tuo sorriso eloquente e inebriante, mi sentivo strana. I colori delle luci al neon e delle acconciature stravaganti dei presenti mi spaesavano. Tu avevi smesso di suonare e la magia era finita. Ero nuovamente piombata nel mondo reale.
Mi feci largo tra la folla e raggiunsi le scale che portavano al piano superiore del locale. Una ragazza dallo stile punk vestita di nero e dalle labbra colorate di rosa fluo mi offrì una sigaretta, chiedendomi se andasse tutto bene. Dovevo avere un aspetto davvero orribile.
«No. Sto cercando il bagno.»
Non era vero. Stavo cercando te.
Lei si appoggiò alla parete e mi indicò con un cenno del capo un corridoio in fondo alla stanza.
La ringraziai con un sorriso stupido e mi allontanai in fretta. Mi girava la testa e le gambe faticavano a reggere il mio peso.
Raggiunsi il bagno e mi accasciai sul primo lavandino. Due ragazze stavano fumando accanto alla finestra che dava sulla strada e quando mi videro si lasciarono sfuggire un sorriso di scherno.
Probabilmente pensavano che fossi del tutto ubriaca. E forse lo ero. Guarda quella ragazzina. Non è pronta per questi locali.
Mi guardai allo specchio, tentando di capire se fosse rimasto anche solo un briciolo di lucidità in me. Stavo fissando un'estranea. Oppure no, forse quella ero davvero io.
Mi chiesi se il treno fosse già partito, se Jamie mi stesse odiando, se i miei genitori stessero sorridendo confidando nel futuro brillante della loro unica figlia. Mi chiesi cosa ci facessi lì, che cosa volessi, quale fosse la strada da prendere. Chi ero? Cosa sarei diventata?
Volevo piangere e urlare. Ma anche ridere, correre lontano da lì o tra le tue braccia.
Ero totalmente, completamente, irrimediabilmente vuota. Non sentivo più niente. Non volevo niente dalla vita. Capii che mi stavo lasciando trascinare dal caso.
E mi resi conto di quanto tutto ciò a cui avrei potuto pensare o aspirare fosse inutile quando uscii da quel bagno illuminato di bianco e ti vidi appoggiato al bancone insieme ai tuoi amici, che ridevi e bevevi.
Ti eri cambiato. Ora indossavi una camicia bianca e pantaloni cavaricci neri. Ai piedi, le tue immancabili de Angelis bianche.
Il bianco ti donava. Ti dava un'aria celestiale e ti faceva sembrare irraggiungibile, intoccabile. Un angelo dai capelli bordeaux e una sigaretta sempre in mano.
Eri troppo per me. Tu ti trovavi in cima alla vetta, mentre io non avevo nemmeno le forze per iniziare a scalare la montagna. Splendevi talmente tanto che la tua luce ha finito per accecarti e distruggerti. E io mi sono lasciata bruciare con te.
Stavo quasi per andarmene; non riuscivo a guardarti senza sprofondare nell'amarezza più totale.
Poi ho sentito una voce pronunciare il tuo nome. Era quella di Simon, che negli anni ho imparato a riconoscere fra mille altre. Sarebbe diventato come un fratello per me, il mio porto sicuro da raggiungere ogni volta che sarei stata male a causa tua.
Ho alzato lo sguardo lentamente. I tuoi occhi erano già su di me.
Ero lì in piedi in mezzo al locale, impietrita, senza respiro e a corto di parole. Era fatta. Stavi per entrare definitivamente nella mia vita.
Ti sei alzato, il bicchiere di rum ancora in mano, e hai spento la sigaretta nel posacenere nero. Hai guardato gli altri, che mi stavano lanciando delle occhiate strane.
Nick, gli occhi circondati di nero e le labbra rosse, mi fissava come se avesse pietà di me. Roger, nascosto dietro i capelli castani, teneva lo sguardo basso e giocherellava con il mozzicone di sigaretta. Andy aveva un mezzo sorriso stampato in faccia, mentre Simon, quello che aveva gettato l'amo, era impassibile. Loro ti conoscevano. O forse allora non tanto come avrebbero imparato a fare nel corso del tempo, proprio come me.
Ti sei avvicinato con il tuo passo cadenzato e mi hai sorriso. Di nuovo. Stavi recitando e devo ammettere che ti riusciva davvero bene. Ero in balìa di te e del tuo fascino new romantic.
Eri davanti a me, a un meno di un metro di distanza. Ora potevo studiare il tuo volto nel dettaglio, analizzare ogni particolare e magari trovare qualcosa che non mi piacesse, anche solo un minimo difetto che mi facesse dire "alla fine non è poi così bello". E invece no. Amavo tutto di te, a partire dal taglio di capelli fino ad arrivare alla punta delle scarpe.
Sopracciglia perfettamente curate, ciglia lunghe che ti incorniciavano gli occhi, un naso perfetto - dico sul serio, avrò incrociato milioni di persone nella mia vita, e nessuna ne aveva uno così dannatamente perfetto - labbra sottili ma carnose, che avrei sognato ogni notte per le successive due settimane, mento e mascella leggermente squadrati, della forma perfetta per le mie mani.
Avevi dei lineamenti così delicati che spesso esitavo a toccarti per paura di rovinare qualcosa di quel quadro incantevole. Sembravi uno dei cherubini dipinti da Raffaello.
Se non fosse stato per quegli occhi. Oh, quegli occhi. Erano così scuri da sembrare neri. In poche occasioni li ho visti veramente limpidi. La maggior parte delle volte erano quelle in cui eri strafatto, quando non pensavi a niente e allora potevi permetterti di rilassarti e scacciare ogni presenza negativa che ti soffocava, ma ci sono stati momenti in cui eri in te e ti rendevi conto che ero io a farti stare così bene. Solo io. Quelli erano i miei momenti preferiti, i ricordi più preziosi che ho di noi.
Ma allora non vi era parvenza di pace e tranquillità. No, infiammavano, bruciavano. Lì stavano prendendo vita tutti i demoni che già avevano iniziato a divorarti, che mi guardavano ghignando e che sembravano volermi avvertire del guaio in cui stavo andando a cacciarmi. Ridevano di me, già sapevano come sarebbe andata a finire, loro.
Io no, ancora non lo immaginavo. Non ci avevo fatto caso, alle fiamme. Non avevo occhi se non per te.
«Ciao, sono John. Prima ti ho notata, lì tra la folla.»
John. Ricordo di aver pensato a come avrebbe suonato sulle mie labbra, a tutti i modi in cui avrei potuto chiamarti.
«Avril.»
Non avevo la forza di pronunciare più di una parola alla volta. Tra noi due sei sempre stato tu quello eloquente, quello che parlava anche al posto mio davanti agli altri. Io invece ero brava ad osservare e ascoltare. E a te serviva questo: qualcuno che rimanesse in silenzio al tuo fianco e si sorbisse tutte le paranoie e le sbornie, che ti aiutasse a non perderti completamente; qualcuno che ti dicesse che andava tutto bene, che respiravi ancora ed eri ancora vivo.
«Avril... È un bel nome. Ti è piaciuta la canzone?»
Non c'era alcun segno di esitazione nella tua voce. Eri sicuro di te. E in qualche modo questo mi spinse ad essere un po' più audace, a sostenere il tuo sguardo per più di tre secondi.
«Sì, un sound molto piacevole. Siete insieme da tanto?»
Tu hai sorriso. Mi stavo interessando, ti bastava solo un altro piccolo passo.
«Vuoi sederti con noi? Ti offro da bere.»
Eri così sfacciato. Così maledettamente sicuro e consapevole dell'effetto che avevi su chi ti stava intorno, specialmente sulle ragazze. Forse non ti sei mai nemmeno reso conto che usavi sempre le stesse parole, perché tutte ti rispondevano in egual modo. Le catturavi già dal primo sguardo, bastava quello. E poi il resto veniva da sé.
«No, io... È tardi, devo tornare a casa.»
No? Cosa significa?
Tu ti sei guardato intorno e poi hai portato il bicchiere alla labbra, finendo il rum in un sorso solo. Hai scosso la testa per portare i capelli bordeaux indietro e hai fatto un cenno verso il tavolo, per poi voltarti e tornare dagli altri, che fingevano di non aver osservato tutta la scena.
Mi avevi dato una possibilità. L'ennesima di quella serata. L'ultima. Ma io non l'ho colta nemmeno quella volta.
Mi sono avvicinata al bancone, dove mi avevi lasciato un posto libero accanto a te.
Mi sentivo assolutamente fuori luogo fra tutti quei fronzoli e quel trucco. Avevate un vostro stile, elegante e d'altri tempi. Io indossavo un'anonima camicia rosa infilata nei jeans e un paio di adidas bianche. Un look per nulla adatto a quel tipo di locale.
Non sono mai stata una alla moda, non seguivo uno stile particolare. In diciotto anni della mia vita non avevo mai indossato fuseux colorati, scaldamuscoli e scarpe col tacco. Nemmeno una volta. Dall'84 poi le ragazze iniziarono a vestirsi tutte come Madonna: collane e bracciali d'oro, guanti bianchi, top e pantaloni neri e una messa in piega vaporosa. In quegli anni, se non seguivi la moda non eri nessuno. E io facevo parte di quella piccola cerchia di persone che non si distinguevano affatto e rimanevano invisibili agli occhi di tutti. Beh, per quanto mi riguarda, tutti a parte i tuoi.
L'avrei scoperto molto tempo dopo cosa ci avevi trovato in me quella sera. Prima di quel momento, ho sempre pensato che mi fossi semplicemente trovata nel posto sbagliato al momento giusto.
Mi hai offerto da bere e mi hai presentata ai tuoi amici. Simon mi è piaciuto fin da subito: parlava poco, proprio come me, ma sembrava simpatico. Aveva due occhi azzurri in grado di scandagliarti l'anima da cima a fondo e aveva sempre l'aria di chi stesse pensando a qualcosa di filosofico. In un'altra vita avrebbe potuto essere uno dei poeti maledetti dell'ottocento. Nick era intelligente e spiritoso, con i capelli biondi e la pelle pallida sempre in contrasto con il trucco scuro degli occhi. Roger era il più tranquillo del gruppo: se ne stava sulle sue la maggior parte delle volte, ma non mancava mai di intervenire per esprimere fermamente le proprie idee. Aveva i lineamenti del viso marcati ma al tempo stesso che ricordavano ancora quelli di un ragazzino. Andy, invece, con quel suo sorrisetto menefreghista sempre cucito in volto, all'inizio non mi andava per niente a genio; aveva una cattiva influenza su di te, ma tu lo cercavi sempre quando avevi bisogno di qualcuno con cui passare le serate. Con il tempo avrei imparato ad accettarlo.
«Non hai ancora risposto alla mia domanda.» Ti guardai portarti la sigaretta alle labbra.
«Devi perdonarlo. Si mostra tanto galante, ma fa sempre la figura del coglione» ti ha preso in giro Andy.
Tu l'hai ignorato e mi hai risposto che la band era stata formata da te e Nick due anni prima, nel '78. Poi era arrivato Roger, mentre Simon e Andy si erano aggiunti da poco.
Era strano parlare con voi. Mi sembrava surreale. Io, seduta al bancone di un pub con una birra in mano e tutte le attenzioni di un ragazzo che era spuntato all'improvviso e sembrava intenzionato a tutti i costi a conoscermi.
Perché io?
Non ero nulla di speciale. Anzi, credo che fossi una delle persone più incasinate di questo maledetto pianeta.
Ma mi piaceva. Stare lì, come una ragazza adulta, fingendo che quello fosse il mondo a cui ero sempre appartenuta. Tra le risate dei tuoi amici e le tue occhiate che mi sfioravano la pelle, assaporando il momento in cui quel corpo sarebbe stato tuo. Era bello, piacevole. La sensazione di amarezza e di vuoto era scomparsa. Avevo raggiunto un mio equilibrio. Stavo bene.
Dopo qualche ora il locale iniziò a svuotarsi. Non ricordo che ore fossero quando Simon si è alzato e ha lasciato i soldi sul tavolo.
Il barista l'ha guardato e ha scosso la testa. «Simon, voi non dovete pagare. Siete praticamente parte di questo posto.»
Lui ha sorriso e ha comunque spinto avanti i soldi. «Lenny, non rompere.»
Tu ti sei avvicinato e mi hai spiegato che i proprietari del Rum Runner, Micheal e Paul, erano i vostri manager e quindi passavate più tempo chiusi lì che in qualsiasi altro luogo. In quel periodo eravate impegnati a incidere il vostro primo album, che sarebbe stato un successo, ma mai quanto il secondo.
Era tardi. E io ero l'unica che non c'entrava più niente lì dentro. Il mio momento speciale era finito. Mi alzai e recuperai la borsa nera che avevo appoggiato sul bancone. Me la misi in spalla e ti guardai. Mi stavi scrutando con quegli occhi di fiamma, come per capire se volessi veramente andarmene senza di te.
«Grazie per la serata, ma si è fatto tardi. Devo tornare a casa.»
Ma quale casa? I miei genitori sarebbero rimasti estremamente delusi di ritrovarmi davanti alla porta numero 5 di Simon Road, stremata e senza alcuna possibilità di intraprendere quella vita che loro avrebbero desiderato per me. Non potevo tornare, né restare. La tua vicinanza stava già iniziando a diventare una dipendenza. Il tuo profumo era già familiare alle mie narici, il tuo tocco già pericolosamente sensibile alla mia pelle, e il tuo sguardo già capace di rendermi nuda ai tuoi occhi.
«Ti accompagno a casa in taxi?»
Era una domanda. Non stavi dando per scontato la risposta, come avresti invece fatto con tutte le altre. Ma non mi hai dato nemmeno il tempo di aprire bocca. Dopo una piccola esitazione, eri tornato quello di prima. Sicuro e determinato.
Ti sei voltato verso Simon, facendo un cenno con la mano. «Ragazzi, io accompagno Avril a casa. Ci vediamo più tardi.»
Lui ha annuito e mi ha sorriso in segno di saluto. Il resto della band aveva già raggiunto la sala prove per sistemare gli strumenti.
Poi mi hai preso per mano e siamo usciti dal locale, mentre un fuoco bollente mi bruciava le vene sotto la pelle. Il taxi era già lì, pronto per te. Hai aperto la portiera e ti sei finalmente degnato di guardarmi.
Volevi a tutti i costi che salissi, questo era palese. Ma io ho scosso la testa. Non volevo andarmene con te, o almeno, lo desideravo con tutta me stessa, ma sapevo che se fossi salita su quel taxi lo avrei rimpianto per il resto del tempo che avrei passato con te. E ancora oggi la considero una scelta giusta, una delle poche che ho preso nella mia vita.
Tu mi hai guardato con le sopracciglia aggrottate e un angolo della bocca alzato, i lineamenti del viso contratti. Odiavo quella tua espressione. Era quella che ti si dipingeva in volto quando non riuscivi ad accettare un rifiuto o una risposta che ti veniva data. In vita mia posso dire di averla vista fin troppo spesso e ogni volta avrei voluto prenderti a schiaffi, perché sembrava che non cambiassi mai. Facevamo un passo avanti nella nostra relazione e poi compariva quell'espressione. E tutto crollava di nuovo.
In quel momento credevo fossi deluso o amareggiato. Sai, mi sono addirittura sentita in colpa per non aver permesso a quel ragazzo tanto gentile e affascinante di accompagnarmi a casa.
Ha anche iniziato a piovere. Prima lentamente e poi talmente forte che sembrava di nuotare in mezzo a una tempesta. Ma tu continuavi a startene lì, appoggiato al tettuccio di quel veicolo reso lucido e bagnato dalla pioggia scrosciante, forse in attesa che ti dicessi che non era vero, che in realtà avrei assolutamente desiderato che mi accompagnassi.
Ma non l'ho fatto. Ti ho guardato e poi ho sorriso debolmente. Mi sono voltata e ho iniziato a camminare, verso dove ancora non lo sapevo.
«Aspetta! Avril, sta diluviando.»
La pioggia mi inzuppava i vestiti e i capelli, che si erano incollati alla schiena. Mi sono girata ma non sono tornata indietro, e tu non hai osato avvicinarti. Il tuo lavoro l'avevi fatto, eri addirittura andato oltre: ti eri sbilanciato e questo non doveva succedere.
«Tranquillo. Ho un'amica che abita qui a due passi.»
Ho ripreso la mia strada, quasi correndo, per allontanarmi il prima possibile da te, lasciandoti lì in piedi sotto il cerchio di luce di quel lampione che ti illuminava nel buio della notte di Birmingham.
Non ti ho lasciato modo di rispondere o di raggiungermi. Una delle cose che facevo spesso con te e che ti irritava maggiormente. Ti arrabbiavi da impazzire quando me ne andavo così. Perché solo tu potevi farlo. Solo tu potevi lasciare le persone senza parole. Solo tu potevi ferirmi.
Perché quella è sempre stata la nostra arma preferita da usare l'uno contro l'altra. Le nostre liti insostenibili finivano sempre così, con uno di noi due che se ne andava e basta e sarebbe tornato quando avrebbe voluto, lasciando l'altro in balìa della rabbia e della frustrazione.
Quella sera c'era una cosa che nemmeno tu sapevi.
Avevi trovato qualcuno in grado di tenerti testa. Qualcuno che ti avrebbe lacerato l'anima e fatto uscire i demoni e ti avrebbe messo davanti alla realtà: che ti stavi distruggendo, stavi rovinando la tua vita. E che ti comportavi in quel modo solo perché temevi che ti avrebbero abbandonato tutti se ti avessero conosciuto per quello che eri veramente, se fossero riusciti ad insinuarsi in quella piccola crepa della tua corazza e portare alla luce del sole tutti i tuoi dubbi e le tue insicurezze.
Perché la verità è che eri estremamente solo. Proprio come me.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro