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VI


Venni abbracciata per molto più tempo di quanto avrei desiderato, ma chiaramente non aprii bocca.
"Deve partire un'inquisizione. Devo avere la certezza che tu sia tu e devo sapere chi ha fatto questo. Capisci, Irina?"
"Mi chiamo Ekaterina." Protestai debolmente.
Elizaveta trasalì come se si fosse appena ripresa da uno svenimento.
"Tu ancora non sai chi..." La sua voce si affievolì di colpo.
"Oh, Dio mio. Sei sempre stata così vicina e io non ho mai..."
Venni stretta un'altra volta. Il mio campo visivo di ristresse ad una spalla e un odore di pelle pulita, ciniglia e qualcosa di dolce che faticai a definire mi invase le narici.
"Ti spiegherò tutto quando avremo più tempo. Sono certa che tu sia quella vera..."
Una goccia di sudore percorse la mia intera schiena, dal collo all'osso sacro.

Lo sguardo di Elizaveta si indurì: "Chi ti ha cresciuto? Chi sono le persone che hanno fatto questo?"
Improvvisamente mi risvegliai dallo stato di inebetimento nel quale ero caduta e le presi la mano, gettandomi in ginocchio davanti alla sorella della zarina.
"Vi prego, non punite la mia famiglia, sono certa che non hanno nulla a che fare con questa storia, date a mia madre la possibilità di spiegarsi, vi supplico."
Elizaveta mi osservò aspramente a lungo, poi decretò: "Solo perchè sono una buona cristiana. E perchè me lo stai chiedendo tu. Alzati, ora, non vale la pena buttarsi in terra per queste cose."
Mi alzai e le baciai la mano, ringraziandola non so nemmeno quante volte. 

Rimanemmo in silenzio per diversi minuti, loro probabilmente indecisi su cosa fare di me e io rimuginando su quando sarei potuta tornare a casa per chiedere spiegazioni.

"Irina... questi sono tre dei tuoi cugini: Olga, Tatjana e Aleksej." Li presentò Aleksandra, che fino ad allora non mi aveva rivolto la parola.
Chinai la testa, nuovamente, con rinnovata soggezione, ma presto la rialzai perchè la curiosità ebbe la meglio su di me.
Tatjana esitò per un momento, ondeggiando sui suoi stessi passi, ma poi venni stretta al suo corpo con calore. In quel momento, chiudendo gli occhi e cancellando dalla mente il suo sguardo disorientato e interdetto, potevo immaginare Darijana al suo posto, quando ancora non era nervosa e sbrigativa come nell'ultimo periodo. Mi beai del tepore che il corpo della granduchessa emanava ancora per qualche secondo prima di lasciarla.
"Ci sei mancata così tanto, Ira..."
Olga era stata poco più coincisa, ma il suo abbraccio espresse lo stesso tipo di affetto trasognato e vigoroso. Aleksej accennò un sorriso prima di incrociare le braccia dietro la mia schiena, in un mezzo abbraccio pudico e quasi intimidito.

Non passò molto tempo prima che il viso espressivo di Elizaveta si illuminasse come le avevo visto fare più di una volta quante le veniva in mente qualcosa.
"Vorrai sistemarti, fare un bagno, riposare un po'..." Evitò accuratamente di parlare del fatto che io lavorassi ancora lì, nonostante l'ovvia allusione.
"Non voglio risultare scortese, Vostra Altezza, ma quando potrò tornare a casa mia?"
Cinque paia di occhi pietosi si fossilizzarono su di me. Mi chiesi cos'avessi detto per meritare la loro carità.
"Non... non tornerai in quel posto, Irina. Rimarrai qui."
"Ma c'è- c'è la mia famiglia lì. Non li posso lasciare..."
"Ira, che vai dicendo? È già qui la tua famiglia. Tornerà tutto come prima, te lo assicuro."
Un sorriso intenerito spuntò sul volto di Elizaveta, come se non si fosse accorta di quanto fossero insensate le sue parole, mentre dentro di me cresceva un panico acre e doloroso. Mi sentivo sperduta, intrappolata. Non avevo salutato con abbastanza brio Anja, quella mattina, e non avevo preso in braccio Sasha anche se me lo aveva chiesto, perchè ero in ritardo.
Se solo non fossi andata, se non fossi nemmeno entrata in quel luogo che mi pareva in quel momento così soffocante e inanimato.

Senza capire come ci fossi arrivata, mi ritrovai a seguire una domestica lungo un largo corridoio. Venni aiutata a spogliarmi, senza reagire, e fui condotta in una vasca da bagno, immobile e cristalizzata dall'agitazione.
Nella mia vita i bagni caldi erano un lusso raro, di quando Darijana o Vasilka scaldavano dell'acqua e la gettavano ancora bollente in un catino di legno.
Qui l'acqua era poco più che tiepida, non ustionava la pelle ed era piacevole immergercisi. Mi fu data la possibilità di usare del sapone, che a casa non avevamo.
Quando fui asciutta, mi vennero consegnati dei vestiti: sui fianchi e sul seno mi stavano un po' larghi, non avevo idea di chi potessero essere.

Elizaveta mi aspettava in una stanza riccamente affrescata, seduta su una sedia foderata in velluto, a capo chino. Eravamo sole. Mi sedetti accanto a lei.
"Irina..." Sussurrò con febbrile insicurezza, come se dovesse accertarsi che fossi davvero lì.
"Mi chiamo Ekaterina. Da che io ricordi, almeno, è sempre stato così." Le ricordai, simulando un tono carezzevole e non lasciando trasparire il mio fastidio. L'inquietudine mi rendeva irritata.
Lei parve non avermi neanche sentito. Mi carezzò il dorso della mano, con dolcezza che vidi ma non avvertii nel profondo.
"Eri così piccola... così indifesa... avrei dovuto proteggerti."
Delle lacrime silenziose le bagnarono le guance.
"Cos'è successo?" Chiesi a quel punto, stanca che tutti parlassero di un passato che non sentivo mio.
"Sei nata il primo novembre. Eri un dono del Cielo: dopo vent'anni di matrimonio, mi arrivava una figlia, il miracolo in cui nessuno aveva più il coraggio di sperare."
Senza badare alla propria voce incrinata, Elizaveta guardava il muro senza nemmeno vederlo, trapassandolo con lo sguardo, arrivando in un posto lontano nel tempo, perso nella sua dimensione.
"Eri stata accolta con gioia, anche se non eri un maschio. Così allegra, così dolce, così bella... la figlia perfetta.
Era bastata una mattina a farti svanire. Senza indizi. Senza moventi. Un attimo prima avevi girato l'angolo e ti eri volatilizzata. Dissipata. Come se non fossi mai esistita. Era da allora che non ti vedevo. E non sapere nemmeno se fossi viva o..." Rallentò il suo monologo spaurito.
"Dio mio, è stato così terribile che non so nemmeno come ho fatto a sopravvivere." La sua voce si esaurì con vergogna, ritirandosi su sè stessa come il mare dopo l'alta marea.
"E adesso sei qui. Sei qui di nuovo. Sei qui e non mi sembra vero."
"Vostra Altezza-"
"Ti ho partorito. Se proprio non puoi chiamarmi 'mamma' dammi almeno del tu, ti prego."
Mi parve così disperata che l'ascoltai, anche se suonava fastidiosamente innaturale parlare in modo colloquiale con lei. Quando riaprii la bocca, un rantolo spezzato fu tutto ciò che uscì dalla mia gola riarsa. Mi schiarii la voce più volte, mentre riassumevo nella mente il discorso.
"Io... io sono estremamente grata per tutto ciò che è stato fatto per me fino ad ora, ma ho" mi umettai le labbra, con calma, "una famiglia che mi attende, a casa. Se non porto loro uno stipendio moriranno di fame. Fino ad adesso abbiamo a stento resistito così. Non posso... abbandonarli senza alcun ritegno."
"Se davvero i tuoi genitori non sono colpevoli, possiamo dare loro un sussidio, questo mese. Affinché non abbiano più bisogno del tuo stipendio."
"Ho una sorella malata. Un mese di sussidio non la guarirà."
"Più di così non posso fare, Irina."

Erano ormai le nove di sera, ma nessuno sembrava aver pensato alla cena. Forse Elizaveta aveva chiesto che non fossimo disturbate.
"Quando eri piccola passavamo molto tempo qui, con i tuoi cugini. Tuo padre è morto mentre eri ancora una bambina, non avevi nemmeno due anni. Eri così tranquilla, non mi hai mai dato alcun problema. Ed eri tanto curiosa... oh!, cercavi sempre di spiare qualsiasi conversazione e facevi così tante domande..." Una risata quasi felice interruppe il suo monologo impregnato di ricordi. Anche in essa, però, stava annidato un grumo di desolazione profonda, come se l'avermi trovata avesse reso improvvisamente più tristi gli anni che aveva passato sola.
"Eri così legata a Lioshka... eravate inseparabili, sai?"
"Lo zarević?" Chiesi scettica.
Non mi immaginavo certo amica dello zarević. In verità, fino a quella mattina non avrei nemmeno pensato avesse mai saputo della mia esistenza.
"Certamente, chi se no? Ma dimmi di te: come hai passato questi anni?"
Cercai di decidere rapidamente se edulcorare la mia vita e presentarle una versione slavata o se raccontare i fatti nella loro completezza. Non volevo che la sua opinione su di me cambiasse, se mai era stata positiva. Scelsi la verità, perchè mia madre si raccomandava sempre che fossimo sinceri in ogni occasione.
"Ho iniziato a lavorare qui poco meno di un anno fa, assieme a mia sorella maggiore. Ho tre fratelli: Vasilisa, Anastasija e Aleksandr. Mio padre è morto quando ero ancora una bambina. Aleksandr e Anastasija aiutano mia madre a coltivare, nei campi. Però non basterebbe, se facessimo solo quello.
Vasilisa ci odia, perchè vorrebbe essere nata in una famiglia ricca e invece si trova relegata a cucirsi da sola l'abito da sposa. Ho la sensazione che non ami nemmeno il suo futuro marito, ma lo sposi solo per andare via e dimenticare di essere mai stata figlia di mia madre. Talvolta sono triste per Georgej, l'uomo che la sposerà, perchè lui è innamorato perso di Vasilka e sembra che veda un angelo ogni volta che le posa gli occhi addosso. Nel suo sguardo ha le scintille di chi ha trovato davvero l'amore della sua vita. Mia madre pensa che sia troppo stolto per capire che lei non lo ama. In realtà lo capisce, ma semplicemente si illude di cambiarla. Darijana dice che gli innamorati fanno sempre follie: penso che la sua sia avere la pretesa di far innamorare di sè la sua futura moglie. È una causa persa, lo sa anche lui. Però non gli importa. Sperare che accada l'impossibile è molto più facile che rassegnarsi.
Qualche volta mi dispiace pure per Vasilisa, eternamente in conflitto con persone che non le hanno fatto nulla, e forse questo la fa solo più adirare perchè non ha nessun motivo per sfogare il suo rancore." Un'acredine primordiale mi invase, parlando di Vasilka, perchè era mia sorella e le volevo il bene conviviale che si vuole alle persone con cui si condivide il tetto, ma non meritavamo la sua più strenua avversione e dubitavo mi sarebbe stato possibile dedicarle più dell'affetto abitudinario che si prova pigramente per i famigliari a cui si è meno legati. Ormai era tardi, però, anche solo per volerle un bene non necessario.
"Che vita miserabile si deve condurre, per odiare con questo fervore? Spero trovi la pace che cerca, se mai è questo il suo vero obiettivo e non invecchiare inacidita dal livore...
Talvolta invece mi sento in pena per mia madre, che tenta con tutte le sue forze di farsi voler bene da sua figlia e si vede inevitabilmente ripudiata. E ogni tanto desidero che Vasilisa si senta almeno un po' in colpa, perchè è la causa di molte più notti insonni di quante le sarebbe lecito essere. Darijana è una buona madre, non perfetta, certo, d'altronde chi mai può esserlo?, ma non merita di crucciarsi per capire come non farsi disprezzare dalla donna che diciotto anni fa ha partorito."

A quel punto della sera, gli Smirnov avevano probabilmente già iniziato a cenare. Forse invece mi stavano cercando. Forse si chiedevano dove fossi. Forse erano preoccupati. Forse gli mancavo. Perchè ero ancora una parte della loro famiglia.

"Aleksandr è un bambino sveglio e vivace. È brillante, per la sua età, credo che se andasse a scuola sarebbe lo studente migliore. Non ho mai stretto con lui un rapporto di amicizia, perchè abbiamo poco in comune se non il cibo che mangiamo la sera. Adesso si atteggia come un uomo perchè è l'unico maschio di casa, ma per ora non fa molto se non arare il campo dei signori per cui lavora con Anja e Darijana." Feci un verso tristemente divertito e continuai: "Non abbiamo nemmeno un campo nostro...
In verità non so molto di Aleksandr, e mi sto sentendo una sorella terribile perchè non ho mai provato a conoscerlo a fondo, a capire cosa gli piacesse, ad ascoltare i suoi sogni. Nella nostra famiglia si evitano spesso le chiacchiere. Chissà quante occasioni di essergli amica ho sprecato... Credevo di avere ancora tempo, credevo che l'avrei conosciuto quando fossimo entrambi cresciuti. Come potevo immaginare che... be', che sarebbe successo questo?"
Scossi la testa, delusa dalla mia stessa stupidità. Credevo di essere previdente, invece questa incondizionata fiducia nel futuro mi aveva colto alla sprovvista, quando era troppo tardi per accorgermi di avere dato troppa fortuna per scontata.

"Anastasija invece è malata. Penso morirà a breve, ed è la prima volta che ho il coraggio di dirlo ad alta voce, perchè ha solo sette anni, deve ancora crescere, sposarsi, avere dei figli, invecchire accanto a suo marito... ed è ingiusto immaginare che possa non vedere nemmeno il sole della prossima estate. Mi fa paura pensarla sotto un cumulo di terra, perchè so che è il suo destino più plausibile. Anja è una di quelle bambine sempre vivaci e allegre. Non so perchè Dio la voglia già con sè. Forse ha anche lui bisogno di allegria, ma Anja non lo merita. Non ancora. Certe sere mi assale la paura di svegliarmi la mattina e vedere il suo corpo freddo, smunto e senza vita. Allora prego perchè il Cielo mi conceda un giorno in più, e poi la sera dopo torno a supplicare per le stesse cose. Credo che ormai anche l'Onnipotente si sia stancato delle mie insulse litanie..."
Una risata che mi sentii pronunciare senza allegria. Una mano ancora estranea che si poggiava sulla mia.
Parlai della collana d'oro che era stata inutilmente venduta, delle notti insonni per paura dei sogni, del freddo che la mattina entrava dentro le ossa, di quando si tornava a casa e anche fare un passo sembrava lacerare i tendini delle gambe, del lavoro a casa e a Palazzo, del ricordo sbiadito che avevo di mio padre e della volta in cui piansi perchè mi ero accorta di non ricordarne più il colore degli occhi, della fame che mordeva le viscere nelle sere di profondo inverno, di tutte le cose sagge che diceva Darijana, del disagio che a volte mi attanagliava se pensavo a quanto non somigliassi alla mia apparente famiglia.
Parlai così tanto che mi persi anch'io nei ricordi, e ogni volta che finivo di raccontare una cosa mi veniva in mente qualcos'altro da dire. Elizaveta era una buona ascoltatrice e per due ore mi aveva quasi fatto dimenticare perchè fossi lì. Veniva stranamente naturale, raccontarle cose che non avevo mai detto a nessuno, alcune nemmeno a me stessa.

Si era fatta quasi mezzanotte, quando venni accompagnata in una stanza da letto.
Qui ripercorsi con dolorosa lentezza gli avvenimenti della giornata. Chiusi dunque la porta dietro di me, feci qualche passo nella penombra e mi abbandonai ad un pianto disperato.

NOTE:

La famiglia dello zar faceva colazione con cibi piuttosto semplici, come il kasha o il pane nero, più simili al pasto di una famiglia di ceto sociale inferiore. Allo stesso modo, però, aveva accesso a cibi e bevande meno comuni, come ad esempio latte e cacao.

I contadini e più generalmente i poveri, non avevano accesso a servizi igienici (come ad esempio il sapone), ma conoscevano le erbe officinali, ad esempio usavano la menta per togliere la sporcizia di dosso e la lavanda per profumare i vestiti.

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