'La stanno medicando'
"Mi sono trasferito qui a Los Angeles perché la mia fidanzata vive qui, i miei hanno insistito tanto affinché mi sposassi proprio con lei e hanno cercato lavoro qui per potersi trasferire. Poi il fatto che mia mamma ha ricevuto l'ordine di trasferirsi proprio qui è un'altrra storia. Credevo di amarla. Ma quando vedo te.. quando vedo te mi dimentico di tutto." mi sorrise, accarezzandomi il viso. "Vorrei portarti via con me per stare con te e proteggerti, poi, però, ricordo che, a causa di ciò che sono, solo standoti lontano posso realmente proteggerti e questo mi distrugge" si allontanò, chiudendo gli occhi.
"Cosa sei?" chiesi, elaborando tutte le sue parole.
"Un nemico. Per molti. E sai qual è il torto peggiore che si possa fare al proprio nemico?" scossi la testa, attendendo una risposta. "Eliminare le persone che ama."
Un brivido mi percorse la schiena, nel momento esatto in cui pronunciò quelle parole.
"È un addio, quindi?" sussurrai, stringendomi le braccia.
"Lo spero, per te." sussurrò a sua volta, baciandomi la fronte.
Un secondo dopo, era già fuori l'uscio della sua porta. Lo guardai entrare, scomparve. Ero rimasta spiazzata da quelle parole, non riuscivo a capire il perché di tutto ciò che stava succedendo. Mi sembrava quasi di essere in un film. Un film con un epilogo terribile, dato che mi aveva esplicitamente detto addio.
E perché? Non lo avevo nemmeno capito del tutto.
Entrai in casa, salutai i miei con un dolce bacio per poi salire in camera. Non avevo nemmeno voglia di cambiarmi. Ancora scossa, presi il mio solito pigiama, mi spogliai senza far caso alle tende spalancate e presi il computer, accendendolo.
L'articolo che stavo leggendo era come scomparso. Provai a cercarlo su internet, ma nulla. Nulla di nulla. Era davvero stranissimo.
Scocciata, dato che neanche il computer era dalla mia parte, lo gettai sulla scrivania.
Camminai fino alla finestra, aprii le ante e, come tutte le volte in cui non riuscivo a dormire, cominciai a fissare le stelle. Erano così belle e lucenti, così piene di vita. Il mio opposto, insomma. In quel momento, l'unica cosa che volevo fare era piangere e sfogarmi, in qualsiasi modo. Infatti non mi resi nemmeno conto delle lacrime che cominciarono a scendere lungo le mie guance. Piangevo, piangevo in un modo così silenzioso che quasi mi spaventai. Guardavo le stelle e piangevo, interrogandomi su cosa avessi fatto per meritarmi tutto quello che stavo passando. Certo, mamma era tornata ed era una delle cose più belle che potessero mai succedermi. Ma Justin.. perché Justin doveva stravolgermi? Perché Justin doveva comparire nella mia vita e scomparire all'improvviso, devastandomi completamente come se fosse stato un uragano? Non riuscivo a darmi spiegazioni. Troppe domande, poche risposte.
Quasi come una carezza, una folata di vento mi fece rabbrividire. Le lacrime erano come scomparse dal mio viso. Il vento, che cominciò ad accarezzare il mio viso, mi cullò e mi fece sentire meglio. Chiusi gli occhi e mi abbandonai a quelle carezze, anche se c'era qualcosa di strano. Sentivo il vento sul mio viso, eppure le foglie degli alberi sotto casa mia erano ferme.
Mi guardai intorno spaesata non appena il vento finì di accarezzarmi.
Istintivamente, girai il mio sguardo verso la finestra di Justin. Le tende della sua camera si muovevano, ma di lui nessuna traccia.
Decisi di lasciar stare, la stanchezza mi stava rendendo piuttosto suscettibile. Avevo passato una giornata fin troppo lunga e stressante. Mi alzai dal davanzale della finestra e mi avvicinai al letto. Scostai le coperte, mi rannicchiai tra di esse e chiusi gli occhi.
Cercando di dimenticare tutto.
La mattina era sempre e dannatamente tragica. Mi svegliai presto e scesi in cucina, con la testa che praticamente mi scoppiava. Papà già era in piedi.
"Buongiorno, amore di papà." mi baciò la fronte, gli sorrisi. "Ho fatto i pancakes."
"Wow, tu che ti diletti in cucina?" alzai un sopracciglio, prendendo un po' di succo dal frigo.
"Ieri sera ti ho vista stanca e ho pensato volessi riposare ancora un po'. Da quando sono diventato capo ho cambiato il mio turno di lavoro in modo tale da cominciare per le otto e mezza e stare a casa il sabato e la domenica. Tra l'altro, dato che da adesso in poi ci sarà anche la mamma a casa, posso dedicarmi anche di più a voi con questi orari." annuii, abbracciandolo.
"Grazie papà." sussurrai, baciandogli poi una guancia.
"Adesso vado a svegliare i bimbi, se vuoi va a riposarti ancora."
"No, grazie.. Vengo ad aiutarti così che non fanno tardi. Sono cinque pesti quelle." sorrisi e poggiai sul tavolo il mio piattino, da cui non avevo ancora mangiato.
Salii di sopra con papà, svegliai Alyssia e Breanna, le vestii e feci lo stesso con Mirabelle e Jhonny. Scesi con loro di sotto, confusa perché papà non c'era ancora.
"Hai fatto i pancakes?" Jhonny saltò sullo sgabello.
"Li ha fatti papà. Cosa ci mettiamo sopra, cioccolata o sciroppo d'acero?"
Sorrisi nel vedere i loro visi contenti già di prima mattina. Aspettai che finissero di mangiare, li feci salire di sopra a salutare la mamma per poi accompagnarli alla porta, dove il pulmino era appena arrivato. Li vidi correre e incontrarsi con i bimbi della casa affianco. Sospirai, ricordando ciò che era successo la sera precedente. Chiusi gli occhi ed entrai in casa, non volevo ricominciare a pensare a Justin.
Entrai quindi in cucina e feci colazione, dato che mi ero concentrata sul dar da mangiare ai miei tesori. Bevvi il mio solito caffé ginseng, per poi salire di sopra. Essendo sabato, dovevo pulire casa. Non avevo tanta voglia di farlo, ma dovevo.
Dato che parlare con qualcuno era l'unica cosa che volevo fare, mandai un messaggio a Charly.
A: Pazza.<3
'Amore mio ci vediamo oggi pomeriggio, va bene? Adesso penso di fare una doccia e di riposarmi ancora.' inviai il messaggio.
La doccia la feci sul serio, una veloce così da perdere meno tempo. Pulii le camere dei bimbi, la mia, quella di Ryley, i tre bagni e il piano di sotto. Tutto da sola. Papà e mamma erano rimasti in camera tutta la mattinata, dato che non volevo disturbarli decisi di non entrare e sfrattarli per poter pulire.
Mi stesi sul divano una volta aver finito, sentendo i muscoli rilassarsi.
"Becky, cosa mangiamo oggi?" Ryley si sedette sul divano, affianco al mio viso.
"Non lo so." mi portai le mani sugli occhi. "Cosa vuoi mangiare tu?"
"Non lo so." fece spallucce, mi sospirai e mi alzai.
"Vado al supermercato, mi verrà qualche idea lì."
"Vuoi che vada io?"
Scossi la testa e mi avviai verso la porta, mettendo un giacchetto di jeans. "Tranquillo, vado io."dopodiché uscii di casa salendo sulla mia Ducati.
Schizzai per le vie di Los Angeles arrivando fino ad Hollywood. Volevo correre, volare, sentirmi libera. Volevo scappare via dalla mia vita volando, desideravo tanto diventare una bellissima colomba ed esplorare i posti migliori del mondo. E sulla mia moto, mi sembrava quasi di volare.
Schizzavo veloce tra le vie, facendo spaventare anche alcune vecchiette.
Volevo chiudere gli occhi e lasciarmi andare, ma non sarebbe stata la scelta giusta dato che sarei potuta andare a sbattere contro un albero o contro un negozio.
Non appena arrivai al supermercato, parcheggiai la mia Ducati in un posto abbastanza sicuro per poi entrare e comprare funghi, speck e panna. Qualcosa di semplice.
"Sono dieci dollari e cinquanta." pagai e poggiai il tutto in una busta, per poi uscire dal supermercato e salire di nuovo in sella alla mia moto.
Ripartii, più veloce di quanto andassi pochi minuti prima. In circa una decina di minuti, ero già nel mio quartiere. La signora Tompson stava annaffiando i fiori, Oliver giocava col cane. Insomma, sempre la solita monotonia.
Girai, più lentamente, verso il vialetto di casa mia, venendo però bloccata da una macchina.
Il mio corpo schizzò via dalla moto, mentre quest'ultima cadde a terra emettendo un boato sordo. Una fitta trafisse la mia coscia, istintivamente mi toccai sul punto dolente. Era tutto, completamente, rosso. Mi alzai a fatica da terra. Il ragazzo uscì dall'auto, correndo verso di me.
"Becky, oddio Becky, stai bene?" sgranai gli occhi, realizzando solo allora che quella macchina apparteneva a Justin.
"Tu.." sussurrai. "Ma correre di meno è un optional vero?!" sbraitai, avvicinandomi alla mia Ducati. "Oh no.." sussurrai, guardando l'enorme graffio sulla fiancata destra.
"Becky mi dispiace, io.. dovevo andare a.."
"Non m'interessa niente, Justin!" sbottai, salendo in moto.
"Becky davvero, ti ripagherò tutto, io non volevo assolutamente.."
"Non mi interessa, Justin, lo capisci?" accesi il motore, guardandolo un'ultima volta.
"Becky, stai sanguinando, lascia che ti porti in ospedale."
"So badare a me stessa." feci per andare quando mi ricordai della spesa. "Se proprio vuoi fare una cosa buona, porta questa a casa." poggiai la busta a terra, sentendo il dolore alla coscia farsi sempre più forte.
Sospirai e guardai i suoi occhi, non volevo perdermici ancora e ancora come -purtroppo o per fortuna?- succedeva ogni santissima volta. Lo guardai con uno sguardo pieno di delusione e dolore in quel momento. Non riuscii a trasmettere altro. Dalla sua espressione però, mi sembrava dispiaciuto e mortificato, quasi mi fece tenerezza.
Ma non dovevo cedere. Mi aveva appena investita, come minimo doveva sentirsi dispiaciuto.
Così, dopo avergli dato un'ultima occhiata, accesi il motore della mia Ducati e corsi via,verso l'ospedale. Avevo un dolore atroce alla gamba e vedevo che il jeans era diventato tutto rosso sulla parte destra. Quasi non riuscivo a muoverla. Accelerai ancora, volevo arrivare il prima possibile, mi stavo sentendo davvero male e le forze mi stavano abbandonando.
Quando pochi minuti dopo arrivai, non riuscii nemmeno ad abbassarmi per legare la moto. Attaccai la ruota a un palo, con molta ma molta fatica. Non appena mi alzai, sentii la testa girare. Vedevo ombrato e a scatti. Trascinando la gamba, arrivai all'entrata dell'ospedale.
"Ho bisogno di un medico." sussurrai, guardandomi intorno. Per poi vedere tutto completamente nero.
Justin's POV
Avevo una fottuta ansia addosso che nemmeno un maturando riusciva ad immaginare.
Il suo sguardo, quel suo sguardo così deluso e inerme mi aveva fatto venire dolore allo stomaco. Notavo il suo dolore e la sua delusione, due sentimenti che non volevo assolutamente provasse a causa mia.
Dopo aver lasciato la busta a suo papà inventando la bugia che Becky aveva dimenticato una cosa al supermercato, ero partito velocemente, ma facendo più attenzione, verso una meta sconosciuta. Non sapevo dove andare, non conoscevo nemmeno le vie di Los Angeles.
"Harris, trovami Rebecca."
"Sì, signore. La signorina Rebecca Abigail Myers si trova all'ospedale Cedar-Sinai Medical Center. Vuole che le tracci la strada?"
"Sì, grazie."
Harris fece apparire sul parabrezza dell'auto una raffigurazione in 3D della città e la via che dovevo seguire, tracciata di rosso. Ci volevano più di venti minuti. Venti. Fottuti. Minuti.
Strinsi le dita sul volante, facendo diventare le mie nocche bianche. Volevo vederla, il prima possibile. Assicurarmi del suo stato, capire cosa le fosse successo, cosa le avevo fatto. Ero ormai nel pallone, non ragionavo più. Avevo bisogno di vederla e avevo bisogno di stringerla forte a me. Avevo bisogno di rassicurarla. Avevo bisogno di scusarmi, sopratutto. Le avevo fatto male, molto male. E non volevo che rimanesse arrabbiata con me per sempre.
Vedere i suoi occhi, colmi dirabbia in quel modo, mi fece sentire male. L'avevo fatta grossa, molto più grossa di quando qualche giorno prima a Beverly Hills avevo guardato 'per bene' la commessa piuttosto che focalizzarmi su di lei.
Erano in situazioni simili che preferivo non conoscere nuove ragazze. Questa che stavo per sposare, Brigitte, non l'amavo davvero. Se l'avessi amata davvero l'avrei allontanata da me in modo tale che non fosse in pericolo. Mentre invece ero un codardo. Un codardo, perché prima di promettere che avrei passato tutta la mia vita con lei avrei dovuto pensarci duevolte, dopo quella promessa non riuscivo nemmeno a confessarle che non l'amavo più. Un codardo, perché i sentimenti che provavo per lei li provavo per una qualsiasi amica, ma non avevo il coraggio di dirglielo. Ero un codardo e uno stupido. Altroché se ero uno stupido. Altrimenti non mi sarei affezionato così tanto ad una ragazza, tanto attraente e dolce allo stesso tempo, così da far spegnere completamente quella minima fiamma che rappresentava l'amore che ancora provavo per Brigitte.
Rebecca mi aveva completamente stregato. E il solo pensiero di lei stesa su un letto incapace di muoversi a causa mia, mi faceva sentire ancora più stupido.
Arrivai in un quarto d'ora all'ospedale dato che corsi con la macchina. Vidi subito la Ducati, ormai rovinata, legata ad un palo della luce. Mi avvicinai, tastando i graffi. Nulla che Harris non potesse aiutarmi ad eliminare. Mi avvicinai a passo svelto verso l'entrata, notando una moltitudine dipersone correre a destra e a sinistra. Corsi ad uno sportello vuoto, dove chiesi immediatamente di Rebecca.
"È al reparto pronto soccorso, la stanno medicando."
"Dove si trova?" chiesi, guardandomi in giro.
"Devo andare anch'io lì, ti accompagno." sospirai sollevato, almeno non mi sarei perso per in un ospedale enorme. L'infermiera al mio fianco mi accompagnò fino alla stanza dov'era Rebecca. Non mi permisi di entrare, non ne avevo il coraggio. La vedevo, stesa sul letto inerme mentre un dottore le metteva dei punti sulla coscia. Il suo jeans era a terra, si riusciva benissimo a distinguere il colore rosso dal denim chiaro. Quasi non mi sembrava vero che, a causa mia, un segno indelebile come una cicatrice le sarebbe rimasto per sempre.
Dato che il dottore le stava ancora mettendo i punti, decisi di uscire e di andare a comprarle un nuovo jeans o una tuta. Trovai un negozietto lì nei paraggi, le presi un pantalone morbido così non si sarebbe fatta male indossandolo. Tornai quindi all'ospedale, sperando che il dottore avesse finito. Non appena arrivai nel reparto del pronto soccorso, la porta della stanzetta in cui era Rebecca si aprì, ne uscì un dottore.
"Potrei vedere la signorina Myers?" chiesi immediatamente, prima che potesse parlare con un suo collega.
"A dire il vero non potrebbe." lo guardai speranzoso.
"La prego." chiesi ancora, ricevendo un sospiro e un gesto della testa come risposta.
Ma dico, parlare no?
Insicuro, ma allo stesso tempo determinato, toccai la maniglia della stanza in cui era Rebecca aprendo poi la porta. La trovai stesa sul letto, con la coperta che le copriva fino al l'ombelico, lasciando però scoperta la coscia ferita. Non appena sentì la porta aprirsi, si girò verso di me. La sua espressione non lasciava trasparire nessuna emozione. Aveva gli occhi lucidi e le labbra tremolanti, sentii un groppo alla gola e l'unica cosa che volevo fare davvero era abbracciarla e non lasciarla più.
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