'Dovevo uccidere The Storm'
"Dove hai detto che vai, allora?" chiese la mamma, sorseggiando la sua solita tazza di the' pomeridiana.
"Da Starbucks, ho un appuntamento. Vuoi che ti porti qualcosa?" risposi per l'ennesima volta, sistemando al meglio il mio giubbotto di jeans.
Avete presente come sono le mamme, no? Che non fanno altro che chiederti sempre le stesse cose, ogni dieci minuti, per accettarsi del posto esatto, della compagnia, dell'orario di andata e l'orario di ritorno.. Insomma, avete capito. Be', nonostante avessi diciannove anni e avessi mandato avanti -relativamente da sola- una casa abitata da otto persone, di cui cinque erano bambini, per due anni, ancora si preoccupava. L'amavo sopratutto per questo.
"No, grazie. Con Justin?" chiese ancora, facendomi bloccare di colpo.
Serrai le labbra in una linea e sospirai rumorosamente. Si vedeva che ero stressata, vero? Era più che comprensibile, cavolo. Non avevo sue notizie da ore e mi scocciava parecchio quella situazione. Un secondo prima mi baciava, quello dopo non mi calcolava. Era lunatico, o forse voleva starmi alla larga. Non sapevo esattamente cosa pensare, sinceramente. Tutto mi faceva capire, fuorché cosa provasse davvero per me.
Ed io?
No, neanch'io sapevo cosa provavo per lui.
Avrei voluto prima ucciderlo e poi resuscitarlo con un bacio.
E questo solo per darvi un'idea.
"Non lo so" risposi, guardandola infine negli occhi. "Non so cosa stia facendo, non esco con lui" cercai di addolcire la mia espressione concludendo la frase con un sorriso, che risultò uno dei più finti che avessi mai fatto. Mi avvicinai alla mamma che ancora non aveva risposto, le baciai la fronte dolcemente per poi sorriderle sul serio. "Qualunque cosa, chiamami, tanto con lo scoot..-" chiusi gli occhi e sospirai, lo scooter non ce l'avevo. "-arriverò il prima possibile" continuai, avvicinandomi alla porta.
Sentii un "Okay, divertiti" in lontananza, dopodiché mi guardai attorno.
Erano le quattro e venti del pomeriggio, Starbucks non era tanto distante da casa mia ma con una coscia ferita non potevo andare poi così veloce. Cominciai quindi a camminare piano, sentendo ad ogni passo il dolore accentuarsi. Era terribile e odioso. Eppure, non riuscivo ad essere arrabbiata. O meglio, non riuscivo ad essere arrabbiata con la persona giusta.
Ero arrabbiata con me, con me che non avevo fatto niente. Ero arrabbiata con me e col fatto che non riuscivo ad arrabbiarmi con Justin. Assurdo, vero? Non mi ero mai fatta condizionare così tanto da un ragazzo, mai nessuno era riuscito ad entrare nel mio cuore in quel modo. Che aveva fatto lui, di tanto eclatante? Oltre al buttarmi sotto con l'auto, s'intende.
Era stato gentile, premuroso e dolce, ma allo stesso tempo misterioso e strafottete.
Aveva rubato i miei baci. Aveva rubato il mio cuore.
Aveva rubato anche la mia facoltà di ragionare.
Facendo cosa, poi? Niente. Niente di importante.
E forse, era proprio questo ciò che mi piaceva di lui. Il fatto che era spontaneo, ma pur sempre perfetto.
Tanto perfetto però non era, quando cominciava a scomparire. Anzi, l'istinto di stringerlo e strangolarlo saliva su come sale il mercurio in un termometro quando una persona ha la febbre. Il fatto che prendeva tanto alla leggera ogni cosa, davvero mi faceva impazzire. E non in senso positivo, tutt'altro. Ero delusa, era come se per lui non esistessi e quella sensazione era terribilmente insopportabile.
Sospirai e mi bloccai per un secondo in mezzo alla strada. Quel ragazzo mi stava scombussolando completamente. Passai una mano tra i capelli e ricominciai a camminare, ero quasi arrivata da Starbucks ed ero contenta di non dover più camminare, perché sentivo la gamba andare a fuoco.
"Piccola, hai bisogno di un passaggio?" mi immobilizzai. Perché la sua voce doveva assillare i miei pensieri?
"Rebecca basta, smettila di pensarlo" mugugnai contro me stessa, socchiudendo gli occhi. Sentii una lieve risata, così che mi girai verso il punto dove pensavo provenisse.
Oh, no..
"Che c'è, non fai altro che pensarmi?" ammiccò, indovinate chi?
"Justin, va via" alzai gli occhi al cielo e arrossii, cominciando a camminare -per quanto possibile fosse- più veloce.
"Dove stai andando?" guidava l'auto a passo d'uomo, era a pochi metri da me e, credetemi, sentivo il cuore uscire dalla cassa toracica.
"Non hai impegni o cose del genere come ieri sera? Ho un appuntamento, non posso star qui a perdere tempo che sono già in ritardo" sbottai acida, fulminandolo un secondo lo sguardo.
"Un appuntamento, con chi?" gridò dall'auto, mi morsi il labbro.
"Non ti riguarda" sputai fuori acida ancora una volta, stringendo sempre più le braccia al petto.
"Mi riguarda eccome" fermò di botto l'auto, facendomi sussultare. Scese velocemente e mi raggiunse a grandi falcate, era sempre un piacere -o una disgrazia- averlo a così pochi centimetri dal mio corpo. Avevo voglia di stringerlo, forte, ma allo stesso tempo sapevo di non poterlo fare. "Con chi sei?"
"Un compagno di scuola, deve parlarmi di un progetto" venni intimidita dal suo sguardo freddo, cupo, serio. Sembrava quasi non suo.
"E perché hai accettato?" sbuffai e alzai gli occhi al cielo. "Guardami" mi prese il viso tra le mani, costringendomi a guardarlo. "Dimmi nome e cognome, subito"
"Justin non sono dovuta a darti spiegazioni e nemmeno a dirti il suo nome. Sei diventato un agente dell'FBI, per caso? Lo hai detto stesso tu che io e te non siamo niente, e ti stai pure comportando di conseguenza. Sono stanca di stare ad aspettare sempre un tuo messaggio o una tua chiamata, quasi non mi pensi per giornate intere e questa storia mi ha scocciata. Se ho deciso di uscire con lui bene, allora uscirò con lui. Sto sbagliando, forse?" alzai un sopracciglio, mentre lui rimase impassibile con lo sguardo.
Finché, non sentii le sue labbra premere violentemente sulle mie.
Le sue mani, grandi e calde, circondarono il mio viso e mi attirarono a sé, mentre le sue labbra mi fecero andare in un altro mondo. Erano calde e sapevano, come sempre, di menta. Le sentii muoversi e danzare sulle mie, alla ricerca disperata di un mio segno. Ero rimasta immobile, impassibile, ero rimasta sorpresa e non poco dopo quel gesto. Mi ci vollero un paio di secondi per immagazzinare il tutto, e allacciare le mia braccia al suo collo.
Le sue mani, dal mio viso passarono ai miei fianchi. Li strinse in modo possessivo e quasi violento, mi avvicinò al suo corpo e circondò il mio con le sue braccia. Tutti coloro che passavano, ovviamente, non ci lanciavano le occhiate più belle di questo modo. Ma, in quel momento, era come se tutto fosse scomparso. Sentire quelle labbra premere in quel modo sulle mie valeva molto più di cento sms e di duecento chiamate.
"Ti voglio Becky, ti voglio mia" sussurrò, poggiando appena la fronte alla mia.
"Non è non calcolandomi che dimostri di volermi" sussurrai a mia volta, interrompendo quel contatto. "Devo andare, Justin"
"Ci vediamo stasera?" chiese, riattirandomi a sé.
"Purtroppo per me, sono una donna di parola" chiusi occhi nel preciso istante in cui sentii le sue labbra poggiarsi sulla mia fronte.
"Ciao" sussurrai, staccandomi definitivamente.
Ancora scossa, mi girai e cominciai a camminare nuovamente.
Cuore, smettila di battere così forte.
Non voglio essere dipendente da te.
-Rebecca, tu sei dipendente da Justin..-
Justin's POV.
La vidi andar via quasi zoppicando. Era buffa ma allo stesso tempo bellissima. Baciarla era per me come il realizzarsi di un sogno. Quelle sue labbra rosee e carnose erano la fine del mondo, erano come una droga e non riuscivo a farne a meno. Sapere che aveva un appuntamento con un ragazzo solo perché io ero un emerito idiota, mi faceva quasi girare lo stomaco. Non ero tipo da sms o tweet, piuttosto preferivo vedere da vicino una persona e passare con lei ore ed ore. Evidentemente, per lei un mio messaggio doveva essere qualcosa di importante ed io da stupido non me n'ero reso conto.
In quel momento, speravo soltanto che si scocciasse della compagnia di quel ragazzo -di cui non conoscevo nemmeno il nome- e che tornasse da me.
La volevo mia. Solo mia. La volevo così mia che ero disposto a fare di tutto per lei.
Anche a pedinarla, come feci in quel momento. Salii in macchina e la seguii a distanza, senza che se ne accorgesse. La vidi entrare nella caffetteria, così mi avvicinai ulteriormente. Parcheggiai l'auto poco distante e, a passo lento, mi avvicinai alla grande vetrata.
E lei era lì. Seduta vicino ad un ragazzo. E rideva.
Sospirai e misi degli occhiali da sole.
"Harris, identificami il ragazzo accanto a Rebecca" pigiai un bottoncino al lato della montatura dell'occhiale, un dispositivo elettronico posto al suo interno cominciò ad esaminare i vari volti. Una volta che un rettangolo inquadrò il viso del ragazzo vicino alla mi.. a Rebecca, Harris, attraverso l'auricolare che portavo, cominciò a parlare.
"Taylor Flyin, nato nel New Jersy il quindici aprile del novantasei, vent'anni. Figlio di Lucas Flyin, professore di filosofia, e Olivia Parker, professoressa di fisica. Frequenta l'ultimo anno della Loyola High School, è stato bocciato due volte in prima e in seconda elementare poiché aveva bruciato i capelli delle maestre. Non si trovarono accendini o fiammiferi nelle sue mani, la causa dell'incendio è tutt'oggi sconosciuta" aggrottai le sopracciglia.
"Harris, cerca nei nostri database se ricorre il cognome Flyin, cerca se si sono mai trovati in posti dove ci sono stati degli incendi. Parti dall'ultimo incendio"
"Subito, signore"
"E fammi sapere il prima possibile" sbottai, continuando a fissare quel ragazzo con uno strano presentimento.
Rebecca's POV.
Taylor era davvero, davvero, davvero dolce e simpatico. Era un piacere la sua compagnia, mi stavo divertendo un sacco. Aveva sempre la battuta pronta al tempo giusto e il suo sguardo mi catturava. Ancora una volta, mi trasmetteva calore e sicurezza. Mi piacevano quelle sensazioni, mi facevano sentire bene, mi facevano sentire a casa.
Una volta usciti da Starbucks, cominciammo a camminare verso il parco.
"Allora, che progetto avevi in mente?" chiesi, mettendo le mani in tasca. Trattenni un gemito di dolore, la gamba mi faceva malissimo.
"Be', per spiegartelo bene dovresti venire a casa mia. Lì ho tutte le ipotesi e le descrizioni"
"Almeno potresti anticiparmi qualcosa?" i miei occhi si illuminarono e si aprirono, feci così la faccia più dolce che potevo. Il suo sguardo serio mi fece intuire che non mi avrebbe detto niente nonostante la mia quasi infallibile tattica.
Non era come Justin.. lui si sarebbe subito addolcito e avrebbe soddisfatto ogni mia richiesta.
"Va bene, verrò a casa tua" mi sorrise dolcemente prendendomi sotto braccio, il suo corpo era dannatamente caldo. Eppure, fuori il tempo non era dei migliori.
Non viveva tanto lontano da casa mia, era giusto a un paio di isolati distante. Osservai con attenzione il vialetto che portava all'entrata, era di ciottoli e circondato da tanti fiori colorati. Seguii con lo sguardo i suoi movimenti: girò le chiavi tra le dita un paio di volte prima di aprire la porta con uno scatto veloce. Non mi diede nemmeno il tempo di osservare i dettagli dell'entrata e della porta; non che mi interessasse, ma non sapevo nemmeno il suo cognome.
"Mio padre è in laboratorio, spero non ti dispiaccia venire con me al piano di sopra" disse, poggiando le chiavi su un mobiletto all'entrata.
Deglutii, apparentemente nervosa. Eravamo relativamente soli. E lui era per me come uno sconosciuto.
Rebecca che diavolo hai in testa, il tonno?!
Sospirai e mi feci coraggio, annuendo.
Non appena la sua mano toccò il mio braccio come per farmi coraggio, sentii uno strano calore irradiarmi il corpo. Trasalii, ma mi rilassai allo stesso tempo. Lo seguii salire delle scale a chiocciola in marmo, erano davvero bellissime quanto pericolose. Immaginate la scena: tua mamma ha appena lavato le scale senza avvertirti e tu devi scendere al piano di sotto; non sapendo del pericolo passi sul primo scalino, scivoli, e ti fai le altre scale col sedere. Mitico proprio.
Guardai con attenzione ogni singolo dettaglio dell'edificio: le pareti erano bianche, di un bianco lucido senza imperfezione, alle quali erano appese dei dipinti di artisti famosi. Il corridoio che portava alle camere era lungo e spazioso, avremmo potuto posizionare una console e giocare a Just Dance.
Ma evidentemente, non era quello l'intento di Taylor.
"Questa è camera mia" mi sorrise, prima di aprire una porta bianca con su scritto 'non disturbare, o vi brucio'.
"Hai una bella camera" esordii, osservando le pareti bianche e i mobili rossi.
"Grazie, accomodati pure" da gentiluomo, spostò una sedia per farmici sedere, presi l'occasione al volo sedendomi.
"Allora, adesso hai intenzione di dirmi qualcosa?" chiesi, girando su me stessa. Amavo le sedie con le rotelle.
"Certo che sei impaziente, bambolina" dischiusi leggermente le labbra e arrossii visibilmente, nessuno mi aveva mai chiamato con quel soprannome. Non che mi piacesse, sia chiaro. Era solo strano, e forse anche un po' azzardato. Preferivo essere chiamata col mio nome, anche abbreviato, e usare soprannomi classici, come 'amore' o 'tesoro'.
Non mi piacevano le cose estrose, preferivo le cose semplici. Erano più vere.
"Comunque, avevo pensato a qualcosa del tipo..." si bloccò per un secondo, alzandosi di scatto e premendo un bottoncino sotto la scrivania.
Una scarica elettrica mi paralizzo, caviglie e polsi vennero bloccati da una paio di manette.
Piuttosto strette, vorrei aggiungere.
"Sai, Rebecca, ti facevo molto più furba. Con una mamma malata di leucemia e una casa a cui pensare, non pensavo fossi così irresponsabile. Prendere un caffé con uno sconosciuto non è un problema, ma addirittura andare a casa sua? Sai, vero cosa ti potrei fare? Potrei stuprarti, o peggio, ucciderti. Così lasceresti i tuoi fratelli, tuo padre, tua madre, o..Justin" strabuzzai gli occhi e cominciai a dimenarmi, volevo urlare, dirgli su di tutto perché Justin non lo doveva toccare, eppure non riuscivo a parlare, le mie labbra erano incollate fra loro. "E tutto questo, bambolina, perché sei stata irresponsabile. Non pensavo potresti commettere un errore simile, quando mio padre mi ha spiegato il piano per farti venire qui ero un po' scettico. Ma sai come si dice, no? Tentar non nuoce. E piuttosto che comandare i tuoi movimenti, in modo tale da perdere energia, ho provato a mettere in atto il suo piano. E credimi se sono rimasto scosso, quando hai accettato di venire a casa mia dopo nemmeno un'ora che ci conoscevamo" ridacchiò leggermente, prima di abbassarsi e strattonare la sedia verso il suo corpo. "Non voglio ucciderti. Non te, almeno" chiusi gli occhi e sospirai, meno agitata ma ugualmente scossa. "Sei pronta al meglio del peggio?"
Mi guardò negli occhi, che diventarono rossi, rossi come il fuoco. Un ghigno, più che un sorriso, si impossessò del suo viso. Mi spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, la mia pelle a contattò con la sua cominciò a bruciare. Si alzò di scatto e portò le mani sulle mie spalle, spingendoci così fuori dalla porta. Attraversò per lungo il corridoio, entrando, nel vero senso della parola, nel muro che, a contatto con la sua pelle, si aprì creando un varco di fuoco. Era surreale tutto ciò che stava accadendo. Volevo urlare, dimenarmi, scappare via e non tornare più in quel posto assurdo. Ma come aveva detto, ero stata ingenua e stupida.
Tutto ciò che riuscivo a fare era tenere le palpebre aperte. Non riuscivo a muovermi o a parlare. Riuscivo solo a provare emozioni, forti emozioni che mi facevano battere il cuore. Mille, duemila domande rimbombavano nella mia testa.
Cosa vuole da me?
Cosa mi farà?
Perché sono qui?
Perché ha scelto me?
Avevo paura. Una tremenda paura di non uscire viva da lì.
E le mie paure si accentuarono non appena vidi ciò che mi aspettava.
Entrammo in una stanza, una stanza dalle pareti bianche e dai molteplici macchinari. Al c'entro dello stanzone c'era una grande pedana d'acciaio, dove sopra era posizionato un tavolo di metallo e quattro laccetti posti agli angoli. Spostai lo sguardo sui grandi schermi, sui vari tubi in cui scorrevano sostanze misteriose, sulle piattaforme di controllo. Era roba di fantascienza quella, non aveva nulla a che fare con le persone normali.
"Vedo che mio figlio ha fatto una bella pesca" mi girai di scatto, strabuzzando ancora di più gli occhi non appena realizzai a chi apparteneva quella voce.
Il professor Flyn era lì, davanti a me. Avevo una voglia pazzesca di dargli una testata, ma ero come paralizzata.
"Le hai spiegato i dettagli, figlio?" chiese il professor Flyin a suo figlio, battendogli una pacca sulla spalla.
"Non ho ancora avuto il privilegio, papà" Taylor si abbassò alla mia altezza. "Ma penso che non ce ne sia bisogno, perché non ricorderà più niente"
Posizionò le mani sui miei polsi, irradiando un calore che riuscì a sciogliere le manette. Fece lo stesso con le manette che avevo alle caviglie, sentivo la pelle bruciare e un caldo assurdo, un caldo anormale. Con un gesto della mano, il mio corpo si alzò, senza che lo comandassi. Si avviò al centro della piattaforma, senza opporre resistenza. I miei occhi parlavano, le mie labbra non facevano altrettanto. Volevo urlare e scappar via; sapere che stavo andando incontro alla mia morte senza opporre resistenza mi faceva quasi schifo.
Mi stesi sul letto di freddo acciaio e stesi braccia e gambe, così che potessi essere legata.
Solo quando il letto di metallo si alzò mettendosi e mettendomi in verticale, sentii le labbra scollarsi e il mio corpo riprendere vita.
"Cosa volete farmi? Che volete da me?" chiesi, sull'orlo di una crisi isterica. "Non potete sequestrarmi, io vi denuncio!" urlai muovendomi ma sentendo solo un gran male ai polsi.
"Dolcezza, penso sia meglio che tu stia ferma" ridacchiò Taylor, indicandomi con la testa un punto della stanza sulla mia destra. Non appena mi girai, una siringa trafisse il mio collo.
"Tutto ciò che ti faremo sarà alterare leggermente il tuo organismo, non è nulla di complicato o pericoloso. O per lo meno, sui topi non ha dato esiti negativi. Si tratta solo del nuovo prototipo di Acelerator. Ti abbiamo fatto un'anestesia, che rilasserà il tuo corpo e sanerà le tue ferite. Vedi? Dopotutto, ti abbiamo risparmiato un po' di giorni di sofferenza" il professor Flyin si avvicinò a me, che quasi vedevo doppio.
"Lasciatemi andare" sussurrai, aprendo e chiudendo gli occhi.
"Solo quando avrai portato a termine il nostro piano. E sta tranquilla, non sarà difficile"
Vidi il viso del professor Flyin doppio, poi triplo. Tutto girava, sentivo la testa pesante e il corpo molle. Feci per chiudere gli occhi, quando dei dolori allucinanti mi spinsero a riaprirli.
Uno al cuore, uno al midollo, uno sul braccio, uno sulla fronte.
Con mio stupore, siringhe lunghe con un ago largo e lungo avevano appena perforato vari punti del mio corpo, rendendomi quasi immobile.
Il liquido, rosso, venne iniettato nel mio corpo.
Fuoco. Fuoco ovunque.
I miei capelli diventarono fiamme, i miei occhi assunsero un colore rosso.
Sentivo caldo, un caldo stranamente piacevole.
Era bello sentire il fuoco addosso.
Era bello sentire il calore.
Persi completamente la ragione, cominciando ad immaginare incendi, fiamme alte, caldo e fuoco. Fuoco ovunque.
Ovunque guardassi, vedevo solo fuoco.
Ovunque posassi il mio sguardo, l'oggetto prendeva fuoco.
Ed era bello.
Era dannatamente piacevole.
Non sapevo più chi ero o da dove venivo, in quel momento.
Avevo un solo obbiettivo, una sola necessità.
Uccidere.
Dovevo uccidere The Storm.
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