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Capitolo 9- Salvate il soldato Cooper! Vi prego...

  Rita Russo non era soltanto l'altera madre dello Sceriffo più nerd d'America, vantava un coraggio e un acume che la maggior parte delle persone poteva solo sognare di ottenere. Era stata la prima donna poliziotto di Rockheart per ben quaranta onorati anni di servizio. E, una volta in pensione, era tornata alla centrale per passare il tempo che le rimaneva ad addestrare la successiva generazione di agenti a suon di occhiatacce e tirate d'orecchio.

  Occasionalmente, fungeva da segretaria, ma la moltitudine di ignoranti sessisti di Rockheart, compreso me fino a poco tempo prima, credeva avesse avuto sempre quel ruolo.

  «Oh, non preoccuparti, tesoro. Non ti obbligo mica!»

  Nonostante fossero anni che la conoscessi, non ero mai riuscito a sbilanciarmi e a chiamarla "nonna". Ero cresciuto senza sapere nemmeno il significato di quella parola e, in un certo senso, mi faceva venire la pelle d'oca.

  Rita era davvero una brava donna, ma riusciva a mettermi i brividi e a creare in me il desiderio di prostrarmi ai suoi piedi con un solo sguardo. Immaginarla come un'amorevole vecchietta che lavorava a maglia, era un po' come figurarsi George Washington in gonnella, con una baionetta in una mano e una sciarpa destinata a un nipotino nell'altra.

  In una sola parola: destabilizzante.

  D'un tratto, Rita sospirò e diede qualche colpetto al materasso della mia cella. Quando vide che nessuna forma di vita aliena ne era uscita, vi si sedette composta. Poi, mi fece segno di accomodarmi accanto a lei.

  Non me ne ero reso conto, ma ero ancora appiccicato al muro come un fetta di pane ricoperta di burro d'arachidi lanciata da un poppante. Lo spiacevole evento con l'agente Taylor mi aveva terrorizzato.

  Mi staccai lentamente e mi avvicinai a lei, ma non presi posto sul materasso. Avevo l'impressione che se mi fossi seduto, le gambe avrebbero preso a tremare come l'asciugatrice malandata del vecchio appartamento in cui vivevo con mia madre prima che lei sposasse Abe.

  «Stai bene?» mi chiese Rita. Persino la sua voce aveva un che di rigido e bastarono poche parole a strapparmi via dai ricordi di un passato più felice; avevo ricominciato a piangere mentre ero perso tra i miei pensieri.

  Mi asciugai le lacrime con rabbia; dovevo sembrare un pappamolle agli occhi di Rita. Eppure, il suo sguardo non sembrava più comunicare uno sprezzante disgusto per tutti gli esseri inferiori che la circondavano, solo una sana preoccupazione per un ragazzino traumatizzato.

  «L'agente Taylor mi ha soltanto strapazzato un po'.»

  La sua bocca si storse leggermente.

  «Sai anche tu che non mi riferivo a quello.»

  Mi inumidii le labbra e finsi un sorriso convinto.

  «Non c'è nulla che non vada» affermai, serrando le braccia per sentirmi più sicuro.

  Rita osservò i miei movimenti come un ghepardo in attesa del momento giusto per attaccare la preda. Assomigliava tremendamente allo sguardo che Abe mi rivolgeva quando tentava di capire se stessi dicendo la verità. Forse, quella straordinaria capacità l'aveva ereditata da sua madre.

  Tuttavia, anche se Rita aveva compreso senza ombra di dubbio che stessi mentendo, non mi smascherò. Si limitò ad annuire e a sorridermi con dolcezza.

  Si sistemò lo chignon (che in realtà era già perfetto) e cambiò discorso.

  «A ogni modo, sono andata a controllare la scena del crimine con Abraham» iniziò.

  Era misurata anche nello scegliere le parole giuste per ogni situazione. Sperava che evitando di dire "casa tua", mi avrebbe risparmiato altro dolore. E, a essere sinceri, la cosa funzionò. Ero così concentrato sul suo discorso che quasi mi dimenticai della vista del cadavere di mia madre in soggiorno.

  Rita sembrava un androide programmato per comprendere la mente umana e manipolarla a suo piacimento in base al fine che doveva ottenere.

  «Non c'è dubbio: qualcuno ha tentato di incastrarti.»

  «Quindi non finirò in galera?»

  Rita abbassò lo sguardo felino.

  «È già stato tutto deciso.»

  Per quanto assurdo, l'avvertimento di Will cominciava a prendere vita sotto i miei occhi. Avanzai inconsciamente di qualche passo verso di lei.

  «Che vuoi dire?» La mia stessa voce non pareva più appartenermi; suonava come quella di un bambino spaventato, descrizione che non si discostava molto da come mi sentivo in quel momento.

  «Tra due giorni sarai spostato al Rockheart Juvenile Detention Center

  Pronunciò quel nome con lo stesso tono in cui avrebbe pronunciato Alcatraz.

  «Ed è una brutta cosa?» Sapevo già la risposta a quella domanda, ma la speranza era l'ultima a morire; e la mia si stava aggrappando a se stessa con tutte le sue forze.

  «Direi di sì. È un carcere per minorenni dove improgionano il peggio del peggio con l'intenzione di non permettergli più di uscire dal giro delle prigioni. Parlo di assassini, piromani, stupratori-»

  «Non aggiungere altro, ti prego.»

  Mi lasciai cadere sul letto con le mani sul volto. Come avevo fatto a cacciarmi in una situazione simile?

  «Anche se io e Abraham riuscissimo a dimostrare l'invalidità delle prove e convincessimo il tribunale a riconsiderare il tuo caso, sarebbe tutto inutile. Qualcuno più in alto della legge stessa sta muovendo i fili per un motivo sconosciuto, e noi non possiamo fare altro che obbedirgli come bravi burattini» concluse cupa. Si lisciò la gonna del tailleur in preda al nervosismo, rimuovendo pelucchi inesistenti.

  «Ma chi diavolo è questo tizio? E cosa vuole da me?»

  Rita scosse la testa.

  Più pensavo a quella faccenda e più mi appariva surreale. Insomma, chi poteva avercela così tanto con me e mia madre? E per quale motivo? Non c'era ragione che spingesse qualcuno a covare tanto odio nei confronti della mia famiglia da rovinare le nostre vite in quella maniera.

  Mi sentivo alla stregua di un giocattolo controllato da un moccioso perfido e volubile.

  «Allora è finita. Passerò la vita in carcere per un crimine che non ho commesso mentre il vero colpevole continuerà a uccidere innocenti.»

  Poco distante dal water di metallo, la pallina di Will giaceva su diversi strati di polvere e di... solo Dio sa cosa.

  Allungai una mano per prenderla e la strinsi nel tentativo di infondermi coraggio.

  «Mi dispiace, Ricky. Io e Abraham faremo tutto ciò che è in nostro potere, ma non saremo in grado di evitare che tu passi molto tempo in quella struttura. È frustrante, ingiusta e difficile da accettare, ma è la realtà.»

  «E se evadessi?» domandai, passando il pollice sulla superficie ruvida della pallina.

  «Dovresti fuggire per sempre e nessuno ti reputerebbe innocente.»

  «Ma sarei libero!» gridai, scattando in piedi. «Non sarei costretto a una vita che non merito!»

  «Ricky...»

  «Cosa dovrei fare?» sussurrai, a Rita e alla pallina.

  Il discorso di Will sembrava ancora da ricovero, ma anche la realtà lo era. Forse la mia "ancora" sarebbe servita a qualcosa... o forse ero solo un ragazzino che non voleva arrendersi all'evidenza.

  «Non lo so, tesoro. Vorrei che non ti ritrovassi in una situazione simile. Potrei-»

  «Cosa?» ringhiai. «Potresti fare cosa? Portarmi un'altra coperta pulciosa?»

  «Ricky! Sto solo cercando di aiutarti!»

  «Non recitare la parte della nonna amorevole! Sappiamo tutti e due che non sei così.»

  Rita aprì la bocca per replicare, ma la anticipai.

  «Se tenessi davvero a me, lasceresti aperta quella porta e mi permetteresti di fuggire!»

  «E poi?!» scattò in piedi e l'autorita che emanava sembrò schiaffeggiarmi per quell'onta subita. «Tu non sei un latitante, né un vero criminale! Verresti catturato in pochi giorni e io e Abraham scenderemmo a fondo con te!»

  Strinsi la pallina di Will e abbassai lo sguardo.

  Rita sospirò frustrata e tentò di avvicinarsi.

  «Non toccarmi!» le gridai.

  «Ricky, io-»

  «Va' via.»

  Rita alzò le braccia verso di me e mi osservò a lungo, poi unì le mani come se volesse applaudire a quello spettacolo.

  «Me ne vado... prima che entrambi diciamo cose di cui ci pentiremo.»

  Recuperò il mazzo di chiavi dell'agente Taylor dal materasso e uscì dalla cella, per poi chiuderla a chiave.

  Per i successi due giorni, non feci altro che deprimermi e fissare la pallina di Will nella speranza che reagisse in qualche modo. Abe mi veniva a trovare di continuo per consolarmi, ma nulla di ciò di cui potesse parlarmi mi avrebbe risollevato il morale.

  Quando, finalmente, arrivò il momento di trasferirmi in riformatorio, fu l'agente Taylor a fare gli onori di casa.

  Mi trascinò di forza fuori dalla centrale di polizia, sotto gli sguardi accusatori del resto dei poliziotti. Rita e Abe mi accompagnarono insieme a James fino al camioncino e poi mi abbracciarono.

  «Mi dispiace, Ricky» borbottò il mio patrigno, cercando di darsi un contegno ed evitare di piangere davanti ai suoi sottoposti. «Ho provato di tutto, ma è stato inutile.»

  Una parte di me avrebbe voluto urlargli che non si era impegnato abbastanza, data la mia situazione; l'altra desiderava tanto buttarsi tra le sue braccia per godersi l'ultimo contatto con la mia famiglia, ignorando le occhiatacce delle guardie carcerarie e dei poliziotti.

  Ma nessuna delle due prevalse.

  «Lo so» mormorai, respirando lentamente. Concentrarmi per espirare e inspirare mi era molto utile quando tentavo di non piagere.

  «Ricky...» sussurrò Rita.

  Non ci fu bisogno delle parole, i suoi occhi tanto espressivi mi comunicarono ciò che provava: tristezza per me, rabbia verso la corruzione del sistema giuridico, senso di colpa per aver fallito nel dimostrare la mia innocenza.

  «Scusami, Rita. Non avrei mai dovuto-»

  «Non preoccuparti per quello sciocco litigio, tesoro.»

  Feci un mezzo sorriso e osservai la guardia carceraria che mi avrebbe scortato in carcere. Oltre le spalle e il suo sguardo truce, spuntarono due figure, nascoste nell'ombra proiettata dal panificio. Mi si strinse il cuore quando mi accorsi che erano Crazy Pete e Bob.

  Quella mattina, il vecchio matto aveva piegato la stagnola come un cappello alla pescatora e assomigliava a un marinaio depresso per i tempi andati. Bob, alla sua destra, sembrava aver battuto il boss di fine livello della tristezza per rubargli il trono. Soltanto guardare quel viso paffuto così addolorato, mi fece sentire un egoista.

  Ero l'unico suo amico che non andasse in giro a urlare che gli alieni ci stavano spiando; senza di me sarebbe morto da solo.

  Era difficile leggergli le labbra da lontano, ma disse qualcosa del tipo: "Buona Fortuna". Io gli mimai lo stesso.

  Crazy Pete guardò me, poi lui e di nuovo me. Si coprì il lato della faccia rivolto a Bob e mi sussurrò:

  «Fuggi e torna su Marte, altrimenti ti dissezioneranno!»

  Io annui e sospirai. Mi sarebbero mancate le sue fantasie.

  «Le mani» mi ordinò la guardia carceraria; il suo alito al sapor di sandwich al tonno lasciato fuori dal frigo per troppo tempo mi riportò alla realtà. I suoi modi non si rivelarono migliori del suo fiato.

  Strappò le chiavi delle manette di mano ad Abe e poi gliele lanciò sul petto. Mi mise ai polsi e ai piedi dei cilindri cavi di metallo collegati da una robusta catena; poi, mi spinse all'interno del furgone nero con un grugnito.

  Lo spazio tra le caviglie non era molto e rischiai di cadere più di una volta prima di riuscire a salire.

  Guardai Abe e Rita finché la guardia non mi sbatté i portelloni del mezzo in faccia. Allora, mi accomodai sulla panca metallica che sporgeva dalla fiancata interna sinistra.

  Dopo qualche secondo, il veicolo partì.

  Dalla piccola finestrella oscurata, fui in grado di scorgere la sagoma della stazione di polizia di Rockheart rimpicciolirsi fino a diventare non più grande di un puntino in lontananza. L'asfalto e il deserto si sostituirono alla ridente cittadina.

  Per tutto il tragitto, non potei fare a meno di pensare a cosa mi aspettasse una volta percorsa l'autostrada.

  Cercai di ricordare i film e i telefilm ambientati nelle prigioni che avevo visto con Abe, ma più mi sforzavo, più quelle immagini mi scivolavano via dalla mente. L'ultima serata dedicata a quella parte di cinematografia era stata tre anni prima.

  Mi maledissi per non aver ascoltato Jimmy che mi aveva consigliato di guardare Orange Is The New Black.

  Forse, adesso non sarei stato completamente impreparato a quella situazione; magari...

  Ma chi volevo prendere in giro? Quella in cui stavo per essere rinchiuso era una prigione vera, con criminali veri.

  Le informazioni provenienti da una serie tv non mi sarebbe state di nessuna utilità. Non esisteva un corso di preparazione a una vita in carcere e, anche se ci fosse stato, sarei stato un pessimo studente.

  Volevo davvero entrare a far parte degli Skeletons?

  Cosa diavolo mi era saltato in mente? Non avrei mai avuto il fegato di spacciare droga e ammazzare i canarini. Era già tanto se riuscivo a non svenire alla vista del sangue!

  Pareva che il mio cervello si fosse infilato in un frullatore di pensieri e che non riuscisse più a uscirne. Il tempo passava e l'intensità dell'elettrodomestico aumentava, nuovi scenari e ipotesi mi balenavo nella testa.

  Mi accorsi di star tremando solo quando la guardia mi disse di piantarla di fare tutto quel baccano.

  Ma non ero in grado di smettere di tremare. Il corpo non era intenzionato a rispondere ai miei comandi.

  Quando arrivammo al cancello d'ingresso, i muscoli mi si immobilizzarono all'unisono, quasi fossero svenuti tutti insieme.

  «Stiamo per scendere!» mi urlò la guardia, dando qualche colpetto alla parete che ci divideva.

  Le porte di rete metallica si aprirono sferragliando peggio del catorcio del padre di Abe con cui avevo imparato a guidare. Mentre ci passavamo in mezzo, diedi l'ultima occhiata al mondo esterno.





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