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Capitolo 8- Agente, il mio vicino di cella è pazzo. Potrei cambiarlo?

  Dopo che Abe ebbe chiuso la porta metallica, rimasi da solo nella stanza degli interrogatori, con il mio riflesso distorto che sembrava quasi giudicarmi con aria di superiorità.

  Non ero mai stato un tipo solitario, anzi, tutto il contrario; diventavo depresso nel giro di poche ore senza nessuno intorno. Ed era proprio quello che stava accadendo nella trappola di ferro in cui mi avevano abbandonato.

  Continuavo a lanciare occhiate furtive alla porta pensando che se l'avessi guardata senza remore, non si sarebbe mai aperta una seconda volta; quasi fosse un'entità viva che sghignazzava al pensiero di me rinchiuso in quella stanza per sempre.

  Nell'attesa, giochicchiavo con la manetta destra, che mi impediva di muovere il braccio dal tavolo per più di venti centimetri. Per un attimo, fui abbastanza ingenuo da pensare che la penna lasciata da Abe fosse uno strumento di una qualche utilità in quella situazione. Infilai il tappo nella serratura e smanettai un po', alzando di tanto in tanto lo sguardo verso il vetro riflettente. Anche se ci fosse stato qualcuno lì dietro, non avrei potuto accorgermene; eppure la mia mente sembrava non capirlo.

  Proprio mentre ero con le mani nel sacco, l'agente Taylor entrò nella stanza, assottigliando gli occhi nel tentativo di comprendere perché credessi possibile forzare delle manette con una penna. D'istinto, la allontanai dalla serratura e la sventolai nell'aria a mo' di bacchetta magica come per renderla più innocua.

  «Mi... stavo annoiando» sorrisi nel modo più innocente a cui potessi pensare, ma dovetti assumere un'espressione piuttosto bizzarra perché il poliziotto si ritrasse e mi guardò confuso e un po' disgustato.

  «Lo Sceriffo vuole che tu venga trasferito in una delle celle.» Si avvicinò e mi liberò il polso, intimandomi di seguirlo. «Niente mosse improvvise» ringhiò.

  Annuii nervosamente, lui ridacchiò e insieme uscimmo dalla stanza degli interrogatori. Compimmo il percorso inverso a quello precedente e, questa volta, prendemmo il corridoio a sinistra. Arrivammo nella sezione della stazione adibita a prigione momentanea, c'erano circa otto celle, quattro per ogni lato.

  Non mi entusiasmava l'idea di passare del tempo dietro le sbarre, ma quel metro quadrato di spazio con un letto e un water di metallo era sicuramente più accogliente dell'asettico cubo mortale in cui avevo passato le ultime ore.

  L'agente Taylor aprì la più vicina al corridoio e mi spinse dentro senza troppi complimenti. Mi squadrò per qualche secondo e poi mi sbatté la porta in faccia.

  Lo guardai andarsene e poi mi schiantai sul crudo materasso dallo spessore di ben tre fogli di giornale.

  «Allora, per cosa ti hanno arrestato?» mi domandò una voce chiara e profonda dalla gabbia accanto. Non avevo notato nessuno prima di entrare, quindi sussultai per la sorpresa.

  «È... una lunga storia.»

  L'uomo sospirò divertito.

  «Lo è per tutti. In ogni caso, hai qualcosa di meglio da fare?»

  Mi morsi l'interno della guancia e pensai seriamente di confidarmi e raccontare la mia storia a quella voce. Però, come potevo sapere il modo in cui l'avrebbe intesa? Chi mi assicurava che mi avrebbe reputato innocente?

  «Andiamo, ragazzo. Sei l'unica cosa interessante che mi sia capitata nelle ultime quarantotto ore!» mi incitò, battendo il pugno contro il muro di mattoni grigi che avevamo in comune.

  «E tu per cosa sei qui?» Deviai il discorso, ero piuttosto a disagio a essere così spontaneo con gli sconosciuti, soprattutto dopo che l'ultimo aveva ucciso mia madre e mandato me all'ospedale.

  Al solo pensiero, l'aria mi si congelò nei polmoni e le lacrime mi implorarono di uscire.

  «Beh, sai, abito in un condominio e quello sotto di me stava facendo un barbecue sulla terrazza dopo che gli avevo espressamente detto di piantarla, così sono sceso a protestare e poi non è finita molto bene...»

  Mentre raccontava, tentai di concentrarmi sulla sua voce per distrarmi, ma non ci riuscii. Nel giro di qualche secondo, mi ritrovai a singhiozzare senza alcun controllo. Con tutto quello che era successo, non avevo avuto il tempo di elaborare il lutto, di trovare il momento giusto per compiangere mia madre. E tutti i sentimenti che avevo represso avevano travolto gli argini e percorso la mia mente come un fiume in piena. Proprio allora, ricordai che l'ultima cosa che avevo detto a mia madre era che non avrei mai voluto essere suo figlio. Sul momento, non avevo riflettuto bene su quanto pesante fosse quell'offesa.

  Ora, mi rendevo conto che era la cosa peggiore che avessi potuto dirle. Nathalie Cooper era morta pensando che la odiassi. Era morta...

  Non avrei mai potuto scusarmi con lei, sentire la sua voce, beccarmi il rimprovero quotidiano.

  Tutto ciò mi faceva sentire come se avessi messo il cuore in un tricarta e cercassi di rimetterlo insieme, ignorando che alcuni brandello era stati persi per sempre.

  «Ragazzo?» mi chiamò il vicino di cella. «Stai bene?»

  «Io...» 

  Non fui in grado di continuare, solo di appoggiarmi al muro per cercare di respirare nonostante il mio corpo non volesse collaborare.

  L'uomo continuò a parlare delle disavventure con quel tizio che viveva nel suo stesso palazzo e quando le finì, proseguì con racconti buffi e talvolta insensati, solamente per tirarmi su il morale.

  «E poi il mio cane sfondò la zanzariera di mia sorella e ci si ingarbugliò dentro» rise, nervoso, mentre camminava in tondo nella sua cella. «Non si rese conto di essere intrappolato e prese a correre per il giardino, trascinandosi l'amata aiuola di fiori di Kelly.»

  Dopo un po' (e parecchie storielle) mi calmai e ricominciai a inspirare ed espirare con regolarità.

  «Scusami» mi disse, in seguito a un religioso silenzio di qualche secondo. «Non avrei dovuto insistere, sono stato davvero maleducato.»

  «Non è colpa tua, è che...»

  A quel punto, le parole uscirono dalla mia bocca senza che potessi impedirlo e gli rivelai tutto, a partire da Abe, passando per l'orribile serata in cui mia madre era morta e finendo con l'interrogatorio.

  Lui se ne stette zitto a lungo, poi mugolò qualcosa e parlò.

  «E tu non hai alcun idea del perché quel tizio ce l'avesse tanto con la tua famiglia?»

  Scossi la testa, poi mi ricordai che non poteva vedermi e negai ad alta voce.

  «Tua madre è sempre stata un'infermiera? Non ha mai fatto altro?»

  La domanda in sé mi parve strana, ma risposi comunque.

  «Quando ero piccolo viaggiava spesso, ma non ricordo quasi niente.»

  «Proprio nulla?» 

  «Io... no. Perché me lo chiedi?»

  «È solo che la faccenda non quadra. Quel tizio è entrato in casa tua con il solo scopo di uccidere tua madre e incastrare te per il suo omicidio. Eppure, lei non era altro che una semplice infermiera, giusto?»

  Non aveva senso e, purtroppo, non era altro che la realtà.

  «Quindi mi credi?»

  «Non dovrei?»

  «No! Cioè, sì... cioè, io-»

  «Ehi, respira!» mi interruppe. «Non conosco tutti i fatti, ma non mi sembri un ragazzo cattivo.»

  «Grazie» soffiai, prendendo una grande boccata d'aria. Stavo quasi per commuovermi; mi ero già dato per spacciato dopo che gli abitanti di Rockheart mi avevano giudicato un assassino al primo sguardo.

  «Tuttavia, la verità non è qualcosa di stabile e di rado è universale.»

  «Che vuoi dire?»

  «Ho la netta impressione che tu abbia attirato l'attenzione di qualcuno abbastanza influente da manipolare prove e fatti. Ti aspettano tempi duri, ragazzo.»

  Aggrottai la fronte e mi alzai in piedi, avvicinandomi al muro in comune come se in quel modo potessi comprendere meglio le sue parole.

  «Non ti seguo.»

  Restò in silenzio a lungo, tanto che pensai si fosse addormentato di botto. Non avevo avuto l'occasione di vederlo, ma lo immaginavo come un vecchio scorbutico con il volto incorniciato da capelli e barba bianchi.

  «Roger... ho poco tempo, quindi ascolta e fa' silenzio.»

  Il repentino cambio di tono nella sua voce mi causò una pelle d'oca così potente che non mi accorsi neppure che mi aveva chiamato "Roger".

  L'attimo prima era un cordiale burlone e quello dopo pareva quasi un soldato nel bel mezzo di una missione potenzialmente letale.

  «Non avrai diritto a un equo processo-»

  «Cosa?» lo interruppi. «Sono un cittadino di questo Paese, certo che ce l'avrò!»

  Ignorò la mia affermazione e riprese il discorso.

  «Ti manderanno in una prigione a qualche chilometro a nord di qui entro settantadue ore; è di recente costruzione e gestita da gente tutt'altro che raccomandabile. Vola basso ed evita il più possibile il contatto con le guardie.»

  «È un'altra storiella insensata? Non fa affatto ridere.»

  I telefoni nella stazione di polizia presero a squillare all'improvviso, uno dopo l'altro, e a un volume talmente alto che riuscivo a sentirli come fossero nella mia cella, proprio accanto al water di metallo scintillante.

  Il mio strambo vicino mormorò qualcosa, ma nel caos che si era creato non capii nulla.

  «Una volta là» continuò. «Cerca Mario.»

  «Il fattorino di Luigi?» chiesi, confuso all'inverosimile. «E lui per cos'è dentro? Ha consegnato in ritardo una pizza alla persona sbagliata?»

  «Smettila di scherzare! È una cosa seria, ne va della tua vita!»

  Mi ammutolii all'istante. Non sapevo il perché, forse a causa del tono della voce, forse perché, in fondo, gli credevo, ma obbedii. Persino il suo vocabolario era cambiato repentinamente.

  «Fidati solo di lui e stagli accanto in ogni singolo momento, mi hai capito?»

  «Io-»

  «Mi hai capito?» ribadì, con più determinazione.

  «Sì.»

  «Bene» si calmò di colpo. «Prendi questa.» 

  Infilò la mano tra le sbarre più vicine alla mia cella e lanciò ai miei piedi una pallina; era una di quelle inflazionatissime dei film ambientati nelle prigioni, che i carcerati facevano rimbalzare per non impazzire.

  «A cosa dovrebbe servirmi questa?» 

  «Tu tienila stretta e non lasciarla andare mai, nemmeno se cercheranno di obbligarti fisicamente. È la tua ancora.»

  «La mia che?»

  Gli squilli dei telefoni si interruppero e le mie orecchie ringraziarono per la pace ritrovata. Allo stesso tempo, riuscii a udire dei passi provenienti dal bivio che io e l'agente Taylor avevamo imboccato poco prima.

  «Devo andare» sussurrò, poi creò un gran fracasso.

  «Buona fortuna a uscire da lì senza la chiave» gli dissi alzando un sopracciglio, cosa che mi causò una fitta di dolore.

  Ero una calamita per pazzi, non c'era altra spiegazione. 

  «Sii forte, Maverick.»

  Sgranai gli occhi e mi allontanai di scatto dal muro in comune come se gli fosse spuntata una bocca e avesse tentato di mangiarmi. 

  Come conosceva il mio nome?

  Io non mi ero ancora presentato.

  «Chi sei tu?» gli domandai, avanzando cautamente.

  «È una domanda difficile, questa.»

  «Ma non è una risposta.»

  Lo sentii ridacchiare e sospirare.

  «Chiamami Will. Spero di poter parlare con te di nuovo. Fino ad allora, ti auguro il meglio.»

  Davanti alla mia cella apparve l'agente Taylor, in tutto il suo burbero splendore. Mi lanciò una bottiglia d'acqua e una coperta. Adocchiò la pallina, che ancora stringevo in mano, e storse la bocca.

  «Dove l'hai presa?»

  «Era sotto il letto» mi sbrigai a dire, lanciando occhiate alla mia destra. Le parole di Will sembravano un arrivederci, ma era impossibile che fosse uscito dalla sua cella. Di sicuro, era ancora accanto a me.

  Il poliziotto sbuffò e accarezzò mamma opossum. Mi dedicò una lunga occhiata sospettosa, ma poi liquidò i suoi pensieri e si avviò nel corridoio da cui era arrivato.

  «Aspetti!»

  Si fermò e si voltò svogliatamente verso di me. Riuscivo a stento a vederlo data l'angolatura della mia prigione.

  «Chi è il mio vicino di cella?»

  L'agente Taylor corrugò la fronte come se gli avessi appena chiesto di elencarmi le prime cento cifre del pi greco. Tornò indietro e controllò.

  «Non c'è nessuno qui, Cooper. Cos'è uno scherzo?»

  Strabuzzai gli occhi e mi aggrappai alle sbarre, tentando di sporgermi per verificare di persona.

  «Ma... io ho parlato con qualcuno!» protestai. Il cuore corse su e giù per il petto come se stesse facendo delle vasche.

  «Adesso senti pure le voci? Guarda che non riuscirai a passare per un povero matto incapace di intendere e di volere. Pagherai per il crimine che hai commesso!» ringhiò, sbattendo la mano contro le barre di metallo.

  «C'era un tipo!» insistetti, stringendo i pugni.

  Non potevo essermelo immaginato, altrimenti dove avrei preso la pallina? Era senza dubbio tangibile e reale dato che anche l'agente Taylor l'aveva notata. 

  «Mi ha detto che uno importante sta facendo pressione affinché mi mandiate direttamente in prigione senza un processo!»

  Il poliziotto mi guardò come se le prime cento cifre del pi greco le avessi appena enunciate io.

  «Chi è il tuo informatore?!» sibilò, avvicinandosi minaccioso.

  «Eh? Non ne ho uno!»

  Prese il mazzo di chiavi e si sbrigò a trovare quella che apriva la porta della mia cella. Entrò e avanzò verso di me, mentre io indietreggiavo contro il muro.

  «Voglio sapere il nome della talpa!» mi strillò, a pochi centimetri dal viso.

  Inspirai più aria possibile nel tentativo di calmarmi e trovare un'uscita da quella situazione.

  «Agente, mi ascolti, io-»

  Mi afferrò per il maglione blu di Abe e mi alzò di peso da terra, sbattendomi contro la parete alle mie spalle. Odiavo sentirmi così impotente in quelle situazioni.

  «Il nome!» urlò.

  «James!» gridò una voce squillante fuori dalla mia prigione. «Lo Sceriffo ha esplicitamente ordinato che non gli venisse torto un capello. Ogni cittadino è ritenuto innocente fino a prova contraria!»

  L'agente Taylor mi lasciò andare e si sistemò la camicia.

  Oltre le sbarre, comparve l'esile figura di Rita, la più anziana dipendente dalla polizia di Rockheart. Indossava un tailleur rosa antico e dei vertiginosi tacchi che non credevo una donna della sua età potesse gestire. Il viso a forma di cuore era solcato da molteplici rughe, che non aveva mai cercato di celare, e i capelli grigi, mai stati tinti, erano raccolti in un alto chignon. I severi occhi marroni scrutavano il poliziotto come quelli di una maestra che aveva colto in fallo uno dei suoi marmocchi.

  «Stanne fuori» la minacciò James, ma Rita sbuffò e lo sorpassò senza timore, con la solita postura da regina ancora in carica.

  «Va tutto bene, Ricky?»

  Ricacciai indietro le lacrime e mi morsi il labbro mentre annuivo.

  «Ne sono lieta. James, saresti così gentile da porgermi il tuo mazzo di chiavi?»

  «Non hai nessuna autorità per-»

  «Ti ricordo che lo Sceriffo affida a me il comando della stazione quando non è qui. Quindi, ho tutta l'autorità che mi serve.»

  L'agente Taylor grugnì e lanciò a terra il portachiavi, per poi andarsene borbottando e pestando i piedi a terra.

  Rita sospirò e si chinò a raccoglierlo con grazia.

  «Sicuro di non avere nessuna ferita superficiale?»

  Annuii di nuovo, sembrava che le corde vocali si fossero nascoste in un'altra parte del corpo e non avessero intenzione di tornare tanto presto.

  «Mi dispiace, avrei dovuto prevedere che se la sarebbe presa con te alla prima occasione. Conosci la sua storia.»

  La conoscevo eccome! Abe me l'aveva raccontata per mesi, ogni volta che avevo osato dire qualcosa di negativo sull'agente Taylor. 

  Suo fratello era stato ucciso da uno scippatore, ma l'avvocato del criminale era riuscito a scagionarlo quasi completamente in tribunale. L'omicida non fu mai punito per l'atto commesso e il giovane James aveva promesso di diventare un poliziotto per impedire che situazioni del genere accadessero di nuovo.

  «Non è colpa tua, Rita.»

  «Usi ancora il mio nome per rivolgerti a me?» ridacchiò, portandosi una mano dalle dita affusolate davanti alla bocca. «Quanto ti deciderai a chiamarmi nonna

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