Capitolo 7- Essere dei criminali fa schifo
A essere onesti, la cosa che mi fece più male non fu il pugno, ma il disgusto e la rabbia che torcevano i lineamenti dolci del viso del mio patrigno, che in quel momento assomigliava di più a una di quelle maschere tribali rappresentanti il demonio.
I suoi occhi celesti brillavano d'odio e scommetto che se avessero potuto, sarebbero saltati fuori dalle orbite per finire il lavoro del loro proprietario.
Per molti istanti, rimasi immobile a guardare Abe sconcertato come fossi uno dei tanti cittadini rispettabili di Rockheart intorno a me. Quella scena mi sembrava talmente assurda da non poter essere reale.
Il mio patrigno disdegnava la violenza e la utilizzava solo se strettamente necessario. Non sapevo spiegarmi una reazione del genere.
Insomma, Abe era trattenuto dai colleghi e da un muratore particolarmente sudato, le sue pupille erano dilatate, il respiro affannoso. Invece del solito elefante imbranato in modo adorabile, sembrava un toro il giorno della corrida.
«Che cazzo ti è passato per la testa, Ricky?!» mi urlò, dimenandosi dalla presa degli uomini ai suoi fianchi.
Io non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Parevano essere tutti impazziti all'improvviso e senza un motivo apparente.
«Volevi diventare un poliziotto, eh? Stronzate!» Il braccio destro scappò dalla presa umidiccia del muratore e per poco non mi ritrovai con il pugno di Abe in faccia. Per fortuna, l'agente Taylor lo fermò in tempo.
«Sei solo feccia della peggior specie!» continuò, scalciando.
«Chiudi quella bocca prima che lo faccia io!» gridai di getto, senza rendermene conto.
I presenti sussultarono all'unisono, indietreggiando impauriti. Mi guardai intorno in preda al panico, tentando di mettere insieme i diversi pezzi del puzzle per comprendere finalmente cosa potessi aver fatto di tanto grave. A ogni modo, la mia reazione esagerata non aveva affatto contribuito a dipingermi come un "bravo ragazzo innocente accusato per sbaglio".
«Io... mi dispiace, non volevo urlar-»
«È troppo tardi per le scuse!» ringhiò Abe.
«Si può sapere che ti prende?!» mi avvicinai a lui, temendo che potesse addirittura mordermi dato lo stato ferale in cui si trovava; il mio patrigno si calmò un po' e prese a scrutarmi con le sopracciglia aggrottate. «Io non ho commesso alcun crimine!» continuai.
I cittadini di Rockheart presero a sussurrare tra di loro, lanciandosi occhiate sospettose.
«Tu non te lo ricordi per davvero...» constatò Abe. I colleghi e il muratore lo lasciarono andare per poi dargli qualche pacca sulla spalle.
«E come potrebbe?» chiese l'agente Taylor, in modo retorico. «Aveva così tanta eroina in corpo da stendere un orso!»
«Cosa? Io non mi drogo!» protestai di fronte a quell'accusa assurda. Il poliziotto mi ignorò e si rivolse allo Sceriffo.
«È fortunato a essere vivo. Potrebbe anche esserci qualche danno alla memoria.»
Il flash dello sconosciuto che mi infilava l'ago nel collo mi colpì come un treno. Ecco perché tremavo, avevo la nausea e mi sentivo come se fossi stato una striscia pedonale per qualche ora... ero in astinenza. Questo spiegava anche perché mi avevano dotato di un secchio all'ospedale.
«Io mi ricordo tutto!» protestai.
«No, Ricky» disse Abe, con un pizzico di comprensione nella voce. Non sembrava più arrabbiato, solo molto, molto triste.
«Sì, invece!» ribadii, agitando i polsi involontariamente e ferendomi contro la parte interna della manette. Non mi ero accorto di star tentando di liberarmi finché non avevo sentito il sangue sulla pelle.
«E quindi hai anche presente il momento in cui hai ucciso Nathalie Cooper, tua madre, con una nove millimetri acquistata illegalmente, giusto?» mi domandò l'agente Taylor, quasi come se stesse parlando con un vecchio afflitto dal morbo di alzheimer.
«Non sono stato io» risposi, pronunciando ogni parola nel modo più chiaro possibile. «Il sangue di mia madre è sulle mani del figlio di puttana che si è introdotto in casa e che le ha sparato.»
Davanti a me, Abe si toccò il sopracciglio e sospirò affranto.
«E che aspetto avrebbe questo tizio che dici di aver visto?» continuò, portandosi una mano al mento. I due cuccioli di opossum che aveva per sopracciglia si unirono in un unico grande roditore.
«James...» iniziò il mio patrigno, ma il collega lo interruppe.
«Lasciamo parlare il ragazzo» propose, allargando le braccia. «Prego» mi incitò.
«Io... non l'ho visto bene in volto» confessai. Ed era vero: aveva indossato un visore notturno per tutto il tempo. «L'unica cosa che so per certo è che ha gli occhi di una tonalità molto chiara di celeste.»
«Beh...» fece l'agente Taylor. «Questo restringe il campo a circa un terzo della popolazione mondiale. Che dite di emettere subito un mandato d'arresto per chiunque corrisponda alla descrizione?»
Risero tutti nella stanza, ma forse più per smorzare la tensione che a causa di quella battutina ridicola.
«Sto dicendo la verità» insistetti, rivolgendomi con disperazione i presenti. Speravo che qualcuno mi avrebbe creduto, ma mi guardavano come avessi già la divisa da carcerato indosso.
«Sì, certo. E io sono improvvisamente diventato re d'Inghilterra.» James mi afferrò una spalla con forza e mi spinse oltre le scrivanie, verso le celle sul retro della stazione di polizia.
E Abe non alzò un dito per fermarlo. Non credeva più in me, anzi era persino peggio. Mi credeva qualcosa che non ero: pensava fossi un assassino e non uno qualunque, ma un matricida.
Come se avessi mai potuto anche solo sfiorare mia madre con l'intenzione di ferirla! Già solo essere me stesso e farla preoccupare mi straziava, se fossi stato davvero il suo killer, probabilmente mi sarei tolto la vita. Non avrei meritato di vivere.
Quando passammo davanti alla cella in cui avevo trascorso le notti per ubriachezza molesta, però, l'agente Taylor non mi disse di aspettare mentre la apriva. Continuammo a camminare, in direzione di una parte della stazione di polizia che non avevo mai visto.
Oltrepassammo una specie di sala relax del personale, con qualche divanetto in pelle rossa e un minuscolo bar vuoto. Poi, percorremmo un corridoio interminabile e svoltammo a destra a un bivio. In fondo, c'erano due porte di metallo.
Mi condusse in quella a destra, che si rivelò essere una stanza degli interrogatori. Il suo arredamento era di quanto più spartano ci fosse: un tavolo e una sedia, entrambi di ferro.
L'agente Taylor mi tolse una delle manette e l'agganciò a un anello grigio che spuntava dalla tavola; mi disse di sedermi e attendere, per poi andarsene.
Quando alzai lo sguardo verso il solito vetro riflettente visto migliaia di volte nei polizieschi, non riconobbi la mia stessa faccia.
Il viso ovale con gli zigomi pronunciati aveva perso la sua forma con tutti quei gonfi lividi violacei e i capelli neri, di solito mossi, che mi ricoprivano il lato destro della fronte, erano stopposi e aggrovigliati su se stessi in modi che non credevo possibili. Sul naso dritto c'era un taglio orizzontale che non ricordavo di essermi procurato e le labbra sottili non erano messe meglio. Gli unici dettagli del mio volto rimasti uguali erano i tratti ereditati da mia madre: le lentiggini sulla parte superiore delle guance e gli occhi verdi cangianti.
Quel giorno sembravano quasi grigi e non potevo biasimarli, era stata una giornata orribile e il peggio è che era solo all'inizio: era cominciata da meno di un'ora.
Infine, la pelle ambrata che, probabilmente, proveniva da mio padre, appariva più chiara del solito, quasi sbiadita.
Abbassai lo sguardo sui miei polsi martoriati e mi sorpresi di non vomitare di nuovo alla vista della sottile striscia di carne viva. Forse, stavo cominciando a sviluppare una certa resistenza alla mia emofobia, oppure il mio cervello era troppo impegnato a tentare di trovare un modo per cavarcela per preoccuparsi di qualche paura irrazionale.
La porta, di metallo anch'essa, si aprì in modo brusco e Abe entrò come una furia. Si avvicinò al tavolo e ci sbatté sopra una cartellina piena di documenti e prove. Si sedette difronte a me e sfogliò svogliatamente quei fogli, per poi disporne quattro al centro della superficie.
Si vedeva che l'ultima cosa che avrebbe voluto era condurre quell'interrogatorio, ma era l'unico davvero capace di capire se stessi mentendo. Ciò mi rincuorò un po', se non fosse stato troppo accecato dalla rabbia magari avrebbe potuto dimostrare la mia innocenza.
Incrociò le mani e si poggiò sui gomiti, poi dedicò la sua completa attenzione alla mia faccia.
«Maverick Cooper, hai ucciso tu Nathalie Cooper?»
Fu così strano essere chiamato con il mio nome intero che per un attimo mi dimenticai della situazione.
«No» mi affrettai a rispondere.
Abe aggrottò le sopracciglia e dischiuse le labbra screpolate, osservandomi con più impegno.
«Allora come spieghi le prove che ti incriminano?»
«Io... non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando» sospirai, passandomi una mano tra i capelli.
Il mio patrigno indicò uno dei quattro fogli davanti a sé.
«Prima di tutto, i Myers ti hanno sentito litigare con la vittima poche ore prima dell'omicidio.»
Alzai gli occhi al cielo e mi poggiai anch'io sul tavolo.
«Abe, discutevo con mia madre ogni giorno, per cose persino peggiori di quelle della sera in questione, ma non ho mai alzato un dito su di lei. E non ne ho mai avuto intenzione. Lo giuro.»
Lo Sceriffo alzò un sopracciglio, agitò la mano in aria e passò alla seconda prova.
«Una nove millimetri acquistata illegalmente a tuo nome» picchiettò sulla foto di un losco tizio degli Skeletons, dall'aria molto familiare.
«Cosa c'entra Big Mike in tutto ciò?» Riuscì a riconoscerlo solo dopo qualche secondo, era da molto che non lo vedevo.
«Quindi lo conosci?»
«Sì, e anche tu. Abbiamo fatto l'asilo insieme e te l'ho presentato lo scorso natale.»
«Giusto... ma io non sapevo che trafficasse armi.»
«Perché infatti non è lui il criminale che cerchi. Lizzie, la sua ragazza, ha partorito a gennaio e lui ha messo la testa a posto da allora. Al massimo, puoi accusarlo di essere un padre fin troppo permissivo.»
Erano quelle le prove che avevano contro di me? Nemmeno una reggeva sulle proprie gambe, solo insieme avevano senso.
Abe borbottò qualcosa e mi porse il terzo indizio.
«Impronte sull'impugnatura della pistola. Sono tue.»
«Lo sconosciuto indossava dei guanti. Prima di fuggire mi ha messo l'arma in mano, per questo c'è solo il mio DNA lì sopra.»
Lo Sceriffo storse la bocca. Sembrava che volesse credermi, ma proprio non riusciva a far tacere i dubbi.
«Chi è questo tizio a cui accenni in continuazione?» mi chiese, sistemandosi sulla sedia.
«È lo stesso che ti ho detto di aver visto nel vicolo accanto alla lavanderia a gettoni! Se ti fossi girato un istante prima l'avresti notato anche tu e io non sarei qui a prendermi la colpa al suo posto!» gli dissi, alzando la voce a causa della rabbia.
«Ricky...» sospirò lui.
«Sto dicendo la verità!» gridai. «Io-»
«E va bene!» mi interruppe, alzandosi in piedi. Si sedette sul tavolo con le braccia incrociate. «Ma come spieghi la polvere da sparo sulla tua mano destra?»
Aprii la bocca per replicare, ma non sapevo come rispondere a quell'accusa. Non ricordavo che quello stalker/assassino/psicopatico mi avesse cosparso le dita con qualcosa, forse era stato nei momenti in cui combattevo per restare sveglio.
«Quindi l'hai davvero uccisa tu!» mi puntò il dito contro.
«No... io.»
«Non osare mentirmi, Ricky!»
«Abe...»
«Se non confessi, la pena sarà persino maggiore! Vuoi passare tutta la vita in carcere?!»
«Non sono stato io!» urlai. Mi accorsi di star piangendo grazie allo sguardo preoccupato che mi diede Abe. Mi asciugai le lacrime in fretta e osservai il pavimento, mordendomi le labbra per la frustrazione.
Il mio patrigno sospirò e si massaggiò le tempie.
«Io vorrei crederti, sul serio, ma non posso. Hai smontato alcune delle prove, tuttavia la polvere da sparo ti incrimina senza alcun dubbio dell'omicidio.»
«È tutto costruito! Sono false, le tue stupide prove. Lo sconosciuto vuole incolpare me dei suoi crimini per scamparla e nessuno riesce a capirlo!» protestai, questa volta non me ne fregò nulla di piangere davanti al mio patrigno.
Lo Sceriffo mi diede una pacca sulla spalla e infilò di nuovo tutte le prove nella cartellina.
«Abe, ti prego... sono innocente» lo supplicai, implorandolo con lo sguardo.
«Anche se fosse, cosa pretendi da me? Per me non stai mentendo, ma è la mia parola contro delle prove fisiche.»
Tremavo senza alcun controllo. Non ero in grado di fare nulla per dimostrare la mia innocenza, sarei finito in carcere per un crimine che non avevo neppure commesso. Tentai di pensare a qualunque cosa potesse essere sfuggita allo sconosciuto. Era impossibile che fosse riuscito a essere preciso al cento per cento con le auto della polizia appena fuori dall'uscio di casa.
«Mi dispiace» mormorò Abe, aprendo la porta di metallo.
«Aspetta!»
Si girò appena.
«Dove hai detto che hanno ritrovato la polvere da sparo?»
«Sulla tua mano destra.»
Sorrisi e presi a tremare ancora di più.
«Io sono mancino.»
Lo Sceriffo si voltò completamente verso di me; aveva le sopracciglia talmente in alto che mi aspettavo prendessero il volo da un momento all'altro.
«Se, in via del tutto ipotetica, avessi voluto sparare a mia madre, non credi che l'avrei fatto con la mia mano dominante?» domandai, prendendo grandi boccate d'aria.
Abe mi guardò a lungo, si lisciò i baffi e venne verso di me con un passo affrettato. Mi abbracciò così forte che mi mancò il respiro per un paio di secondi.
«Grazie al cielo non sei stato tu, Ricky.» La sua voce era rotta come se fosse sul punto di piangere anche lui.
Tirò su col naso, si allontanò e puntò la cartellina verso di me.
«Tornerò a casa, ricontrollerò tutto personalmente. Ti farò uscire da qui, porta pazienza.»
Mi sorrise e scappò via, determinato a scagionarmi. Emettei un sospiro di sollievo e sprofondai nella scomoda sedia di metallo. Ero riuscito a convincere Abe della mia innocenza e mi ero meritato qualche attimo di respiro, ma non potevo ancora sapere se il mio imbranato patrigno sarebbe stato in grado di mantenere fede alla sua promessa.
L'ansia prese a salire.
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