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Capitolo 6- Congratulazioni! Ti odiano tutti!

  Quando ripresi i sensi, non mi ricordavo chi fossi, dove mi trovassi o perché fosse tutto così buio. Percepivo di essere su qualcosa di morbido; nell'aria c'era un odore pungente di disinfettante e speranze infrante, simile a un profumo che sentivo sempre addosso a qualcuno di importante, ma che proprio non riuscivo a tenere presente.

  A ogni modo, non avevo idea di come fossi finito in quel posto, tutto ciò che conoscevo era il nulla: un opprimente mare d'ombra dal quale mi sembrava impossibile uscire; una parte del mio subconscio che mi teneva prigioniero contro la mia volontà.

  In quelle tenebre, di tanto in tanto, qualche ricordo riaffiorava e mi accarezzava la coscienza.

  Poi, arrivava il dolore.

  Era come se migliaia di minuscoli aghi mi si infilassero nel cervello, la gola mi si seccasse di colpo e nelle orecchie cominciasse a risuonarmi un insistente ronzio che mi portava rasente alla pazzia. Per scampare a tutto ciò, lasciavo andare quello stralcio di memoria e tornavo a immergermi nel niente.

  Un regolare trillo elettronico era l'unico elemento che mi rammentava dell'esistenza di mondo oltre la mia mente. Mi ci aggrappavo con le unghie e con i denti, sperando di resistere abbastanza a lungo da avere la forza di aprire gli occhi.

  Eppure, nonostante lo desiderassi con tutto me stesso, le mani cedevano e io venivo reclamato dall'oscurità.

  Nelle ombre gli incubi mi rincorrevano per tutto il tempo, senza sosta, torturandomi e tormentandomi come più li aggradava.

  Tra di loro ce n'era uno ricorrente: mi trovavo sull'uscio di una villetta bianca, dove una donna sulla trentina mi accarezzava il volto e mi sorrideva. Non sapevo chi fosse, ma mi sentivo al sicuro con lei.

  Poi, arrivava un ragno grosso quanto un'auto e la strappava da me. Ogni volta che mi ritrovavo nella stessa situazione, combattevo fino a svenire, ma non riuscivo mai a salvarla.

  E la cosa peggiore era il dolore straziante che seguiva quel brutto sogno, che riduceva il mio cuore in brandelli. Ero sicuro che se fossi stato davvero cosciente, sarei scoppiato in lacrime, avrei urlato, mi sarei strappato i capelli dalla testa pur di smettere di rivivere quei momenti.

  Un giorno, il buio si affievolì e io potei aprire gli occhi.

  Non riconobbi nulla di ciò che mi circondava. Ero steso su un soffice letto, al centro di una piccola stanza. Alla mia destra, c'era una parete dipinta di un celeste pastello con una finestra aperta. Le tende svolazzavano con delicatezza cullate dal vento. All'esterno era notte fonda.

  Alla mia sinistra, oltre un arco, c'era un bagno; poco distante da esso, era presente una porta chiusa.

  Il petto mi faceva male come se qualcuno mi avesse preso a calci. La testa era annebbiata e confusa.

  Mi sfiorai la fronte e una fitta di dolore mi pervase il corpo.

  L'istante successivo, un flash mi illuminò la mente, scacciando la nebbia che nascondeva i ricordi.

  Qualcuno mi aveva afferrato per i capelli e poi... e poi...

  Un altro lampo mi rischiarò i pensieri, ma non del tutto. Strinsi i pugni per la rabbia e mi ritrovai a sussultare per il bruciore. Mi guardai le mani, trovando alcuni tagli non ancora rimarginati a dovere.

  Arrivò il tuono e ricordai tutto. Di mia madre, di Abe, dello sconosciuto, di Crazy Pete e Bob.

  Mi rannicchiai su me stesso e cominciai a piangere quando mi resi conto di ciò che era successo: mamma era morta...

  Quelli che avevo avuto non erano stati incubi, solo una visione distorta del passato. Mi tornò alla mente il macabro augurio di quello stalker. "Buona fortuna"

  Perché aveva pronunciato quelle parole?

  Ma soprattutto: cosa diamine mi aveva iniettato nel collo?

  Anche il mio stomaco sembrò risvegliarsi in quel momento. Ebbi l'irrefrenabile impulso di vomitare e vidi che su uno dei due comodini ai lati del mio letto c'era un secchio.

  Chi ce l'aveva messo?

  E come sapeva che avrei avuto bisogno di usarlo?

  Non riuscii a rimettere nulla, d'altronde non toccavo cibo da quella che mi sembrava un'eternità.

  Nonostante fuori dovessero fare almeno trenta gradi, non potevo smettere di tremare dal freddo.

  Mi guardai intorno alla ricerca del telefono, ma non era in quella stanza. Dovevo chiamare Abe, dirgli cos'era successo, magari identificare il figlio di puttana che aveva ucciso mia madre se la polizia l'aveva già catturato.

  Mentre cercavo un modo per contattare il mio patrigno, una giovane infermiera entrò nella mia camera.

  Per molti secondi, non si accorse che mi ero svegliato. Aveva gli occhi grigi puntati su una cartella medica, forse la mia, e la guardava con curiosità. Era piuttosto minuta, ma, nonostante la larga uniforme rosa che indossava, riuscivo a scorgerne le curve da capogiro. I ricci capelli castani le arrivavano a metà schiena e combattevano contro un frontino particolarmente cocciuto che tentava di mantenerli.

  Quando si voltò verso di me e mi notò, il terrore deturpò il viso tondo dai lineamenti da principessa Disney. Sembrava quasi la versione umana di Trilli, tranne che per qualche dettaglio.

  «Tu...» mi disse, arricciando il naso all'insù; poi fuggì via, lasciandosi la porta aperta alle spalle.

  Nonostante il pestaggio, ero ancora abbastanza sicuro di non essere così brutto da far scappare le persone. Eppure, non riuscivo a spiegarmi il comportamento di quella ragazza.

  «La bella addormentata si è svegliata?» chiese una voce rauca, che avrei preferito non essere costretto a udire di nuovo.

  L'agente Taylor, uno dei colleghi di Abe, entrò con la sua andatura da cattivo di film western. Sentivo il fetore di tabacco e whisky da quattro soldi dall'altra parte della stanza. Aveva solo una quarantina d'anni, ma trascorreva così tanto tempo imbronciato che il suo viso sembrava uno spiazzo di terra percorso da centinaia di piccoli fiumi. I luridi baffi neri somigliavano alla carcassa in miniatura di un opossum investito in autostrada; le sopracciglia dovevano provenire dalla stessa famiglia di roditori.

  «Agente Taylor» lo salutai a denti stretti, stringendo le lenzuola con rabbia. Mi affrettai a pulirmi le lacrime dal volto.

  Aveva dei vestiti nella mano destra, e quella sinistra poggiata sulla pistola d'ordinanza.

  «Infilati questi e fatti trovare fuori dalla porta in due minuti. Chiaro?» gracchiò, tossicchiando.

  Solitamente, non mi sarei mai fidato di lui. I miei due arresti per percosse erano entrambi stati causati da quello zoticone. Insultava Abe e mia madre affiancato da altri due poliziotti idioti, mi spintonava e sputava quando mi vedeva come se portassi sfortuna. A volte, non sapevo controllarmi e lo aggredivo.

  Mi trascinai fuori dal letto con fatica: ogni muscolo del corpo mi sembrava addormentato. Ero come un robot bisognoso di un po' di olio sulle vecchie articolazioni cigolanti.

  Supposi che fosse una reazione normale dopo un violento pestaggio unilaterale.

  L'agente Taylor mi aveva portato i vestiti più brutti che fosse riuscito a trovare: quelli che Abe aveva indossato alla mia età. Il maglione blu scuro pizzicava come se fosse fatto di maglia metallica, i pantaloni erano di due taglie più grandi e, se avessi stretto un po' di più, avrei potuto compiere due giri interi con la cintura. Gli scarponcini da trekking neri, almeno, erano miei. Sarei sembrato un clown con le enormi scarpe di Abe.

  Appena uscii, tutti i medici, gli infermieri e i pazienti presenti nel corridoio si girarono a guardarmi all'unisono, quasi avessi la peste e li stessi minacciando di contagiarli. Mentre li osservavo confuso, l'agente Taylor mi strattonò per il polso e mi ammanettò le mani dietro la schiena prima che me ne accorgessi.

  «So che non scorre esattamente buon sangue tra di noi, ma potremmo evitare?» sospirai, scuotendo le manette.

  Lui mi squadrò con una nota di disgusto in più del solito e mi spintonò.

  «Invece è proprio quello che meriti. Ora cammina.»

  Alzò un pugno per colpirmi e io avanzai. Il mio corpo già non era messo bene, non avevo bisogno di qualche livido in più.

  Mentre attraversavo il corridoio, sentivo gli occhi di tutti marchiare a fuoco la mia pelle. Mi lanciavano sguardi di disgusto, spavento, rabbia, odio.

  La memoria mi era tornata, ma non riuscivo a capire perché la gente sembrava avercela così tanto con me. Cosa avevo fatto di male?

  «Bastardo» sibilò un vecchio incartapecorito alla mia sinistra. Si tolse la maschera dell'ossigeno per dirmelo, rischiando la vita. Tossì a lungo in seguito.

  «Assassino» ringhiò un infermiere. Era amico di mia madre, il suo nome era... Chuck? Chad? L'avevo dimenticato.

  «Spero che ti sbattano in galera e gettino la chiave!» mi urlò una giovane donna, forse malata di cancro.

  Non sapevo cosa pensare. Perché tutte quelle persone mi detestavano? Ero io la vittima! Ero io ad aver perso la madre!

  Mentre guardavo nel corridoio a destra, un pallido ragazzino di qualche anno più piccolo di me mi scagliò un cubo di Rubik contro. Me ne accorsi troppo tardi e non potei evitarlo. Mi colpì sul sopracciglio sinistro, poco prima della sua fine. Persi quasi l'equilibrio al momento dell'impatto e l'agente Taylor dovette afferrarmi per un braccio.

  Mi spinse verso l'ascensore, le cui porte si aprirono proprio in quell'istante. Caddi rovinosamente in avanti e feci il possibile per rifugiarmi in un angolo al fine di scampare a quella gente. Una goccia di sangue mi scorse per il viso e mi macchiò i pantaloni marroni.

  Il poliziotto entrò subito dopo, schiacciando il pulsante del piano terra.

  «Perché mi odiano tanto?» gli chiesi, con un filo di voce.

  L'agente Taylor si voltò lentamente, mi scrutò per qualche secondo e strinse la mascella.

  «Non fare il finto tonto con me, feccia» sputò quell'insulto con una tale rabbia negli occhi che mi ritrovai con la pelle d'oca.

  Forse avrei dovuto tacere, ma non riuscivo a tenere a freno la lingua; era uno dei miei difetti peggiori.

  «Io non ho fatto niente! Lo giu-»

  Il piedipiatti mi afferrò per il maglione e mi sollevò di peso come se fossi un bambino, poi mi sbatté contro la parete metallica dell'ascensore. Sembrava un cane con la schiuma alla bocca, pronto ad azzannare la sua preda.

  «La sua vita valeva così poco per te?!» mi gridò contro. Sentii il suo alito fetido contro la mia faccia come fosse un'entità fisica.

  Strabuzzai gli occhi e tentai di divincolarmi, ma la sua presa era ferrea. Era molto più forzuto di quel che pareva a una prima occhiata.

  «Io non ho idea di cosa tu stia parlando!» replicai; avevo l'affanno, o forse un attacco di panico in arrivo.

  «Non voglio sentire un'altra parola!» ringhiò come una belva e mi strattonò con violenza.

  Annuii con nervosismo, senza trovare il coraggio di ribattere. Se avessi insistito mi avrebbe picchiato, ne ero certo.

  Mi osservò dritto negli occhi a lungo, poi si calmò e mi lasciò andare. Appena si voltò, mi appoggiai alla sbarra di ferro che correva da una parete all'altra dell'ascensore, mordendomi il labbro inferiore e ordinando al mio battito di rallentare.

  Per il resto della discesa, l'agente Taylor scosse la testa e si passò ripetutamente le mani tra i capelli. La mia sola presenza lo innervosiva, cosa che sapevo già, ma quel giorno sembrava odiarmi con tutto se stesso. Mi avrebbe ucciso con piacere se ne avesse avuto la possibilità. Il pensiero mi fece rabbrividire dal terrore.

  Giungemmo all'atrio, un ampio spazio pieno di sedie, panche e distributori automatici di merendine. Anche lì attirai gli sguardi di tutti e mi impegnai a ignorarli. Stavo per crollare, con la mente e con il corpo. Non avrei retto un altro ragazzino arrabbiato con i suoi taglienti giocattoli.

  L'agente Taylor stette dietro di me per l'intero tragitto dall'ascensore alla sua volante, parcheggiata appena fuori l'entrata dell'ospedale. Non perse occasione di spingermi e insultarmi mentre tentavo di resistere all'impulso di reagire.

  Mi obbligò a salire in macchina e mi rivolse un'ultima occhiata di disgusto prima di occupare il posto del guidatore.

  «Mi stai portando a casa?» domandai, agitandomi per le manette troppo strette.

  Grugnì e diede un colpo alla sottile rete di metallo che ci divideva. Senza di essa mi avrebbe colpito in piena faccia.

  Spinse sull'acceleratore e partì a razzo. Nel giro di qualche secondo, il Saint Paul fu solo una sagoma scura in lontananza.

  Ci ritrovammo alla stazione di polizia dopo appena un paio di minuti nonostante fosse dall'altra parte della città.

  Conoscevo quel posto alla perfezione dopo averci trascorso innumerevoli notti, ma aveva un non so che di lugubre quel giorno. Le pareti di mattoncini beige sembravano essere state inghiottite dal buio e si confondevano con gli edifici circostanti, il tetto di tegole pesca aveva cambiato colore, assumendo le tonalità del sangue venoso. Le finestre erano tutte sbarrate e filtrava ben poca luce all'esterno dalle fitte tendine. Le lettere, stile Hollywood, che la indentificavano come una stazione di polizia, appena sopra la porta d'ingresso, gettavano ombre mostruosamente deformate sul manto stradale.

  Forse era solo la mia immaginazione a parlare, ma avevo una terribile sensazione.

  «Porta il tuo culo da criminale fuori dalla mia macchina» ringhiò l'agente Taylor.

  Non me lo feci ripetere due volte e mi fiondai contro lo sportello, tentando di aprirlo con le mani legate dietro la schiena.

  Dal posto del giudatore arrivò una risatina.

  «Dovevi essere il primo della classe a scuola, eh?» mi domandò, scendendo dalla vettura.

  Mi tirò fuori e mi spintonò verso l'ingresso della stazione di polizia. Affrettai il passo; prima avrei raggiunto Abe e prima mi sarei liberato di Taylor Swift alle mie spalle.

  La struttura era in subbuglio. Katie, la segretaria, faceva del suo meglio per rispondere alle decine di chiamate che arrivavano in contemporanea. I poliziotti correvano da una parte all'altra della grande stanza colma di scrivanie, trasportando documenti, tazze di caffé e telefoni cellulare impazziti.

  Abe era in fondo all'ambiente, circondato da cittadini infuriati, alcuni erano vestiti in modo elegante e altri con delle canotte sudate che avevano visto decisamente tempi migliori. Ma si comportavano tutti alla stessa maniera: lanciavano ultimatum e richiedevano spiegazioni.

  Non ero mai stato così felice di vedere il mio patrigno da quando l'avevo conosciuto. Però... pareva stanco ogni oltre limite, come se non toccasse un materasso da giorni. La camicia beige era tutta spiegazzata e macchiata di caffé (oltre che di senape), i baffi biondi più incolti del solito e sul volto aveva due profonde occhiaie.

  Quando si voltò verso di me e mi notò oltre la calca, spintonò via quella gente e si diresse a passo deciso nella mia direzione.

  Una volta difronte a me, si limitò a fissarmi con un'espressione indecifrabile. Attorno a noi era calato in silenzio.

  «L'avete preso?» domandai speranzoso.

  «Chi?» chiese lui, aggrottando le sopracciglia. La sua voce era impostata, come se stesse cercando di celare ciò che stava provando.

  «L'assassino di mia madre!» esclamai, digrignando i denti.

  Qualcosa nel volto di Abe ebbe come un guizzo e prima che potessi fare qualcosa per impedirlo, mi mollò un pugno così forte da mandarmi a terra.

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