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Capitolo 3- Lo Sconosciuto

  Erano passati a malapena alcuni minuti da quando Abe si era diretto alla Arizona Bank per sventare una possibile rapina.

  Mia madre era terrorizzata dall'idea di svegliarsi e scoprire che il suo caro Sceriffo aveva tirato le cuoia, quindi beveva litri di caffè e lo aspettava in salotto, rannicchiata sotto un plaid multicolore. Nel frattempo, guardava Grey's Anatomy in televisione, quasi come se anche a casa le mancasse l'ospedale. Io non avrei mai retto nemmeno un episodio, ma non perché non la reputassi una serie carina; avevo una specie di fobia per il sangue, sebbene non sempre. Era piuttosto difficile da spiegare a parole...

  A ogni modo, tornai silenziosamente al piano di sopra e aprii la cigolante finestra della vecchia camera di Abe. Da lì, mi sarebbe bastato arrampicarmi sul tetto del garage, saltare nella casa sull'albero della figlia dei vicini e scendere con nonchalance dai pioli inchiodati sul tronco. 

  Mentre immaginavo il percorso prima di andare, ripensai alla conversazione che io e il mio patrigno avevamo avuto in macchina quella stessa sera. Forse aveva ragione, forse non avrei dovuto buttarmi a capofitto in un futuro senza uscite; sarebbe stato opportuno considerare tutte le opzioni con attenzione prima di prendere una decisione che mi avrebbe cambiato la vita per sempre.

  Magari avrei potuto fare davvero il poliziotto, in fondo c'era riuscito Abe! E su di lui nessuno avrebbe scommesso un centesimo... 

  Un pensiero mi solleticò il cervello: e se fosse stato proprio il desiderio di provare agli altri che si sbagliavano a spingere il mio patrigno a impegnarsi così tanto? 

  Gli insegnanti del Rockheart High, il mio vecchio liceo, dicevano che non sarei mai arrivato lontano, non importava quanto mi sforzassi. Mi avevano dato per spacciato fin dalla prima settimana di scuola.

  Tutto d'un tratto, mi era venuta voglia di seguire l'esempio di Abe e dimostrare di che pasta fossi fatto. 

  Chiusi la finestra e indietreggiai, non sapendo bene come procedere. Presi a fissare i roseti del giardino sul retro dei Myers, uno dei pochi sprazzi verdi del vicinato, giusto per schiarirmi un po' le idee e riflettere su cosa volessi farne della mia vita.

  Poi, lo vidi.  

  Per strada, c'era lo stesso tipo che mi osservava dal vicolo accanto alla lavanderia a gettoni, quello in giacca e cravatta nonostante i trenta gradi tondi che le previsioni avevano annunciato. Non era abbastanza vicino al lampione affinché potessi scorgerne la faccia, ma riconobbi la sua sagoma.

  Mi catapultai sul tetto del garage e corsi verso di lui senza pensarci due volte, fingendo di essere sordo al buonsenso che mi gridava di andarmene a dormire, piuttosto. 

  Ma era una questione personale e di vitale importanza...

  Va bene, più che altro, mi dava fastidio essere spiato in quel modo e non capivo nemmeno il motivo di tanto interesse; cos'avevo di così singolare?

  Saltai nella casetta sull'albero a tinte rosse e decorazioni floreali di Rose (i suoi genitori dovevano avere avuto proprio tanta fantasia) e mi precipitai giù per le assi di legno adattate a scale. Mi lasciai cadere a un paio di metri dal suolo e atterrai senza fracassarmi i piedi, il che fu già un traguardo di suo. 

  Lo sconosciuto, intanto, non si era ancora mosso, restava fermo a guardarmi come fosse una versione più inquietante e spettrale del commesso del supermarket aperto ventiquattro ore su ventiquattro in Cactus Drive, convinto che andassi lì per taccheggiare robaccia quasi scaduta da sotto il suo naso.

  «Ehi, amico!» gli gridai, agitando un braccio in aria. «Si può sapere qual è il tuo problema?!»

  Non rispose e continuò con il suo cosplay da telecamera di sorveglianza. Avanzai di qualche altro passo, giusto per riuscire a scorgere il suo volto; ma non appena mi avvicinai abbastanza, lui fuggì via.

  Non so di preciso cosa mi spinse a inseguirlo, l'unica spiegazione possibile è che dovevo essere impazzito. Potevo quasi sentire la voce di mia madre dire: "Non cacciarti nei guai, Ricky!". Eppure, la ignorai, come facevo da quando mi erano spuntati i primi peli.

  Per avere dei vestiti su misura più costosi del vecchio appartamento in cui vivevo prima che Abe entrasse di prepotenza nella mia quotidianità, quel tizio correva fin troppo velocemente. 

  Ripensai alle gare di atletica leggera a cui ero solito partecipare il primo anno di liceo e questa volta fu il gracchiante vocione del mio ex coach a risuonarmi nelle orecchie. Gridava: "Non correre come mia nonna, Ricky!".

  Probabilmente, avrei dovuto rivolgermi a uno strizzacervelli prima che cominciassi a rispondere alle persone nella mia testa.

  Il tizio sfrecciava a una velocità surreale per Iris Drive, venendo fagocitato dal buio ogni volta che si lasciava un lampione alle spalle. Nota per il caro sindaco di Rockheart: illuminare un po' di più le strade di periferia non sarebbe un'idea così malvagia; soprattutto per impedire alle canaglie come quel mezzo stalker impomatato di dileguarsi con tanta facilità. Nel giro di qualche secondo, l'avevo perso.

  Mi dispiace, coach, la prossima volta mi impegnerò di più.

  Mi fermai qualche secondo a regolarizzare il respiro, sperando che le prossime voci non sarebbero state il mio cuore e i miei polmoni che mi davano della schiappa. Avrei potuto offendermi seriamente.

  Scrutai un'ultima volta tra le fitte tenebre alla ricerca del mio ammiratore segreto, ma di lui non c'era traccia. Quindi, sospirai e mi arresi, incamminandomi verso casa.

  In lontananza, le sirene della polizia squarciavano il silenzio assoluto che, di norma, regnava in città e illuminavano di rosso e blu il cielo stellato. Erano l'unica fonte luminosa e di rumore per chilometri; d'altronde, Rockheart era solo un agglomerato di case nel bel mezzo del deserto, isolato dal resto della civiltà e perennemente quieto. 

  Le famiglie di Iris Drive, avendo visto lo Sceriffo uscire in fretta e furia per fiondarsi nella volante, erano molto preoccupate. Le luci delle abitazioni erano accese e i telefoni squillavano uno dopo l'altro in un febbricitante passaparola.

  Alcuni vicini era affacciati alle finestre e mi lanciavano occhiate sospettose mentre passavo davanti ai loro giardini. In una città piccola come Rockheart, i pettegolezzi sono una droga e i pregiudizi radicati nelle menti.

  Anni prima, per una stupida scommessa con dei compagni di classe idioti, mi ero introdotto nella casa dello Sceriffo per rubargli un paio di mutande. Ero stato scoperto e arrestato, ma Abe non aveva sporto denuncia perché usciva con mia madre già da un paio di settimane. Il fatto si venne comunque a sapere e ogni singolo cittadino mi etichettò come ladro, nomina che portavo anche in quel momento.

  Li sentivo sussurrare e ansimare al mio passaggio; i più impressionabili si affrettavano a chiudere porte e serrature temendo che potessi privarli della loro biancheria intima.

  Mi morsi un labbro per la frustrazione, mi alzai il cappuccio e misi le mani in tasca, cercando di nascondermi da quegli sguardi accusatori.

  Prima che me ne accorgessi, mi ritrovai sul vialetto di casa. Mia madre spalancò la porta come una furia e si diresse a grandi falcate verso di me.

  «Ero venuta ad augurarti buona notte e non ti ho trovato!» strillò, puntandomi il dito contro. Le guance arrossate per la rabbia, risaltavano come lucciole nella notte sul suo viso pallido. In momenti come quelli, le lentiggini erano ancora più visibili. 

  «Io-» Mi impegnai a pensare a una spiegazione plausibile che non implicasse la frase: "ho inseguito uno sconosciuto dopo essermi lanciato dalla finestra". Mamma era già abbastanza preoccupata per Abe, non volevo mica che le venisse un attacco di cuore fulminante a causa mia.

  «Dove diavolo eri finito?!»

  «Ero... andato a farmi un giro. Non riuscivo a dormire» scrollai le spalle e distolsi lo sguardo. Mi dispiaceva mentirle, ma che altra scelta avevo?

  «Mi credi così ingenua?!» replicò lei, venendomi incontro. «Stavi fumando? Bevendo?»

  «No!» ribattei subito. 

  «Allora ti stavi drogando, non è così?»

  «Dio santo, mamma, no!» le urlai, forse un po' troppo a voce alta. Lei sussultò, i Myers sbirciarono la situazione dalla grande finestra del primo piano.

  «Io... non volevo» mormorai, stringendomi nella felpa.

  «Ricky, io ci sto provando a essere una buona madre. Tutto ciò che ti chiedo è di essere un po' più paziente con me» mi disse, grattandosi la spalla sinistra. Era un gesto che compiva sempre quando era a disagio. «So di non essere molto presente con il mio lavoro all'ospedale, ma-»

  «Io non ce l'ho con te, mamma.»

  «È per Abe che ti comporti in modo tanto irresponsabile? Non lo vuoi intorno?»

  «Lui non c'entra niente.»

  «È una sorta di ribellione adolescenziale?»

  Scossi la testa. La verità è che non sapevo nemmeno io perché agissi in maniera tanto stupida. Ero semplicemente fatto così: un irresponsabile che non pensava alle conseguenze.

  «Allora parlami, ti prego...» Il tono era una quasi quello di una supplica. Con le mie azioni tanto sconsiderate dovevo averla mandata sull'orlo di un crollo emotivo.

  Azzerò la distanza tra noi due e mi prese il viso tra le mani; odoravano ancora di disinfettante.

  «Dimmi cosa c'è che non va, Ricky.»

  Me ne stetti in silenzio. Con tutta probabilità, mia madre pensava che avessi chissà quale crisi interiore in atto. Credeva che dessi troppo peso alle parole o alle persone... in realtà, il mio problema era l'opposto: non mi importava di nulla.

  Il mondo sarebbe potuto finire il giorno dopo e a me non sarebbe cambiato niente. Non avevo uno scopo né la voglia di cercarmene uno e, in fondo, mi andava bene così.

  Durante quei secondi la osservai attentamente. Le labbra piene tremolavano, gli occhi, due smeraldi, erano velati di lacrime.

  Dopo un po', mia madre sospirò sconfitta e indietreggiò.

  «Perciò è in questo modo che sarà in futuro? Io che mi interesso a te e tu che mi ignori?»

  «Mamma...» Non so perché la chiamai, forse perché era l'unica cosa che mi veniva da dire o forse perché volevo che smettesse di sfiancarsi a comprendermi.

  «A volte vorrei solo che tu non fossi mai...»

  Non finì la frase, ma io ero certo di cosa intendesse. Serrai la mascella e i pugni, provando a contenere la rabbia.

  «Che io non fossi mai cosa? Nato?!»

  Mia madre sgranò gli occhi e un velo di terrore si adagiò sul suo bel viso.

  «Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?!» mi chiese, avvicinandosi. Cercava di prendermi la mano.

  «Allora cosa stavi per dire?» insistetti, divincolandomi bruscamente dalla sua presa.

  Ma non rispose e il suo silenzio fu abbastanza eloquente.

  «Il sentimento è reciproco» ringhiai. Strinsi i pugni con una forza tale da forarmi la carne con le unghie.

Indietreggiai verso l'asfalto e attraversai la strada di corsa.

  «Ricky!» urlò, tentando di raggiungermi. «Mi dispiace! Mi hai sentito? Mi dispiace!»

  Non mi voltai indietro, nemmeno per un secondo, pensai solo ad andare via da lei. Mi aveva ferito più di quanto mi piacesse ammettere e mi risultava impossibile anche solo considerare di perdonarla.

  Mi mescolai alle ombre di Rockheart, sperando di svanire con l'arrivo del sole.

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