Capitolo 23- Occhio di Falco, ma incredibilmente antipatico
Prima che il pudore potesse impedirmelo schioccai la lingua al bel fusto nello specchio e poi unii le mani formando una pistola con le dita. Mi misi di lato con un'espressione ammiccante, posando meglio di quanto le Charlie's Angels avessero mai fatto.
Me ne pentii l'istante dopo, quando notai in un angolino del vetro la faccia divertita di Leonard.
«Sei lì da molto?» domandai con cautela, ancora immobile.
Annuì, mordendosi le labbra per impedire a una risata di lasciarle.
«Giuro che di solito sono più normale di così, ma non chiedere ai miei compagni del liceo, potrebbero raccontare bugie belle e buone sul mio conto.»
«Ehi, guarda che non ti giudico mica. Potrei... o non potrei aver iniziato un monologo alla James Bond davanti a quello stesso specchio circa un anno fa.»
«C'è qualcuno?»
Leonard si sistemò la cravatta. «Deve essere Victoria.»
«Chi?»
«Ogni casa ha un responsabile eletto democraticamente che la rappresenta con i piani alti, che gestisce e istruisce le nuove reclute, che organizza sessioni di studio... cose di questo genere.» Mi diede una pacca sulla spalla.«Ma sarà lei a spiegarti il resto. Porta onore al novantaduesimo.»
Praticamente mi spinse fuori dal bagno, quindi ci ritrovammo in salotto.
Mi avvicinai alla porta, guardandomi per un'ultima volta indietro come un bambinetto al primo giorno di materna restio ad abbandonare i genitori.
Lewis aveva i pollici in alto e un'espressione entusiasta mentre indietreggiava con lentezza nel corridoio, diretto forse in camera sua.
Respirai profondamente e tirai il pomello verso di me con delicatezza, conscio che avrebbe potuto staccarsi con tutta la toppa.
«Ciao!» Strillò la ragazza sull'uscio, stringendomi con vigore entrambe le mani. «Sei Maverick Cooper, vero?»
Per un attimo, riuscii a sentire gli omini nel mio cervello che sollevavano le dita all'unisono dalle minuscole tastiere, con il fiato bloccato in gola e gli occhi spalancati. Per almeno un paio di secondi in cui Victoria... che nome soave... continuava a shakerarmi i polsi non fui in grado di fare altro che fissarla, rapito ed estasiato.
Mi concentrai su ogni particolare, dalla cascata di onde ramate, alle ciglia lunghe e sottili che si arricciavano verso la coda dell'occhio, alla pelle chiara e luminosa leggermente scottata dal sole; passando per il naso perfettamente piccolo e dritto che neanche i più bravi chirurgi estetici della California avrebbero mai sognato di replicare, finendo sulle labbra che avrebbero fatto sfigurare qualsiasi rosa rosa che sfacciatamente avrebbe osato sfidarle. La mia prof di inglese del liceo mi aveva sempre ripreso per la brutta abitudine di usare gli avverbi con una tale frequenza da far sembrare che di tutto il vocabolario conoscessi a malapena qualche sinonimo, ma in quella situazione qualunque altra parola mi scappò dalla mente.
«Sì» sussurrai appena, solo grazie a un gruppetto di omini omosessuali che non erano stati sorpresi da un afflusso di sangue che si affrettava a convergere in un altro punto.
«Sono così emozionata di conoscerti, io sono Victoria O'Sullivan, responsabile della casa dei Cecchini.» Gli occhi celesti brillavano come il mare in una giornata estiva.
«Io sono Maverick!» esclamai, all'improvviso incapace di regolare il volume della mia voce. «Ma codesta nozione la conoscevi già, nevvero?»
Perché avevo iniziato a parlare come gli sfigati dei film in bianco in nero di Abe? Ci mancava solo che mi mettessi a disquisire sul tempo.
«Oggi è una splendida giornata di sole, nevvero?»
Perché nessuno mi fermava?!
«Ehi, Victoria! Vuoi qualcosa di rinfrescante da bere?» Leonard arrivò in cucina e mi scoccò un'occhiataccia per dirmi di riprendermi, azione che mi concesse un paio di istanti per decidere se sbattere la testa contro la colonna del portico più vicina per perdere i sensi o ficcare la testa sotto la sabbia fingendo di non aver fatto la figura dell'idiota. Entrambe le opzioni sarebbero state meno imbarazzanti.
«Leo! Sto bene, grazie. Per caso potrei rubare il nuovo acquisto del novantaduesimo per un paio d'ore?» Mi sorrise con dolcezza e dovetti divorarmi la guancia per non lasciare di nuovo agli ormoni il controllo della mente.
«Certo, divertitevi.»
Victoria saltellò giù per la breve scalinata del portico e indicò il sentiero che portava verso il Nord dell'isola, i capelli rossi che venivano sollevati con grazia dalla brezza marina.
«Maverick!» mi chiamò Leonard, riscuotendomi dai miei pensieri. «Ce la puoi fare.»
Ce la potevo fare. Annuii al Leader e mi chiusi la porta alle spalle, precipitandomi, ma con una certa nonchalanche, dietro la ragazza.
«Normalmente un rappresentante non incontra di persona le nuove matricole della sua casa, ma capita così di rado che ne venga ammessa una a metà del semestre!» Si fermò di colpo per guardarmi negli occhi e io mi sbrigai a levarmi l'espressione ebete che ero sicuro di aver assunto dalla faccia. «Qual è la tua storia?»
Se me lo stava domandando significava che non era a conoscenza della mia parentela con William, quindi se mi fossi giocato bene le mie carte tenendomi quest'informazione per me...
«Sono il figlio a lungo perduto di Ward!» urlai, senza il minimo autocontrollo.
«Sei tu quello di cui si vocifera tanto?» Sollevò le sopracciglia curate con stupore. Fossi in lei, anche io mi sarei trovato deludente.
Tentai di ritrattare per non sembrare il raccomandato della situazione, ma finii a bofonchiare come un ragazzetto delle medie con l'ansia da palcoscenico alla recita di Natale.
«Ehi» mi interruppe, avvicinandosi. «Ti capisco, sai? Io sono la nipote del Sergente Rodriguez, feci davvero scalpore all'epoca.»
«Ah, sì?» mi limitai a dire, già figurandomi il brutto muso dell'Istruttore che mi prendeva a calci per averci provato con la nipote.
«Già» confermò, riducendo il sorriso smagliante a uno appena accennato. «Trovarsi degli amici è stata un'impresa, e non passare per inetta è stato persino più difficile.» Si avvicinò ancora, cercando di infondermi coraggio. «Se i pettegolezzi e gli sguardi dovessero diventare insostenibili, sono un'ottima spalla su cui piangere.»
L'ansia e il panico, intenti in uno scontro di arti marziali libere nella parte superiore del mio stomaco, scesero dal ring e andarono a bersi una birra insieme.
«Lo terrò a mente» le risposi, questa volta di mia volontà e con il tono di voce giusto. «Quindi ormai sanno tutti chi sono?» le chiesi, grattandomi il collo.
«Beh, non ti hanno mai visto in faccia, ma non sono poi così tante le nuove reclute della tua stessa età e con una somiglianza così lampante al signor Ward.»
«Effettivamente, hai ragione.»
In seguito al mio silenzio sofferto, Victoria si abbassò per incrociarmi lo sguardo basso.«Stai bene?»
«Sì, è che... speravo di farmi un nome da solo prima di essere inevitabilmente associato a William.»
«Chi dice che non puoi? Mio zio mi ha parlato della tua incredibile mira, e se anche solo metà di quello che ha descritto è vero, sarai l'eroe della Terza Casa e soltanto in secondo piano il figlio del Capo.»
«L'eroe di che?»
«Oh, giusto, dimentico che sei nuovo.» Si passò una mano tra i capelli per ravvivarli, anche se non ce ne era affatto bisogno. «I nomi in codice dei fondatori della S.E.A. erano i primi cinque numeri e si è deciso di omaggiare il loro ruolo dedicando loro una casa. La Prima è quella dei Combattenti, poi ci sono i Tecnici, i terzi siamo noi, al quarto posto i Linguisti e in ultima posizione i Leader.»
«Capito» mentii, con l'ordine già fuggito nei recessi della mia memoria. «Dov'è che stiamo andando?» chiesi, temendo di aver dimenticato anche quello.
«Al campo di tiro dei Cecchini sulla parte settentrionale dell'isola. Lì ti introdurrò alla nostra grande famiglia e testeremo l'ampiezza delle tue abilità.»
«Cioè...?» Era più forte di me: necessitavo una preparazione psicologica prima di qualunque cosa.
Victoria ridacchiò e prese a camminare all'indietro senza staccarmi gli occhi di dosso, le braccia incrociate dietro la schiena accarezzate dalla chioma fulva.
«Tu fai troppe domande, Maverick» inarcò un angolo della bocca mentre concludeva la frase soffermandosi sul mio nome, ma anche quando finì non ebbi il coraggio di risollevare lo sguardo dalle sue labbra.
Forse lo notò e non le piacque, quindi mi diede le spalle. Fu un colpo al cuore e mi rimproverai per essere stato così sfrontato con una ragazza che avevo letteralmente appena conosciuto, ma proprio quando stavo per scusarmi, lei si voltò appena, passandosi la lingua per tutto il perimetro e lanciandomi un'occhiolino composto al 100% di feromoni.
«La gente mi chiama Ricky, comunque.»
Qualche minuto dopo oltrepassammo l'edificio di vetro in cui si trovava l'ufficio di William e ci avviammo verso la zona meno civilizzata di Santa Alma. Prati di un intenso e vivace verde si estendevano a perdita d'occhio prima di lasciare spazio malvolentieri a distese di fine sabbia bianca, lambite pigramente dal vasto oceano Pacifico. Non credevo fosse possibile stufarmi di quella vista.
«Mi ricorda casa mia» sospirò Victoria, persa nell'immensità naturale che aveva di fronte. «Vengo da Brandon, in Irlanda.»
«Davvero, non hai per niente l'accento-»
«Irlandese, sì. La mia famiglia si è trasferita in America quando avevo dieci anni e dato che i miei stupidi compagni di classe mi prendevano in giro, ho finito col perderlo.» Si sistemò una ciocca sfuggita alla massa dietro un orecchio, girandosi verso di me. «E tu dove sei nato?»
«Prova a indovinare.»
Victoria alzò un sopracciglio, riflettendo con attenzione.
«Nevada?»
«Non proprio» scossi la mano.
«Utah, no... California.»
«Guarda che se li nomini tutti tranne il mio, mi offendo.»
«Arizona!»
«Esatto, in particolare da-»
«Ehi, O'Sullivan!»
Ci voltammo in contemporanea, trovando un piccolo gruppetto di massimo una ventina di persone che ci salutavano dal fondo della collina.
«Abbiamo un nuovo membro, ragazzi!» Victoria mi indicò con energia, poi mi prese la mano e mi trascinò giù per il pendio.
«E il tuo nome è...» chiese una ragazza bionda in prima fila.
«Cooper. Maverick Cooper.»
«Andiamo!» Un tipo si fece largo tra la folla, sospirando con una mano sul fianco. «Non potevi proprio resistere, eh?» Si sistemò gli occhiali un po' più indietro e tentò di sembrare arrabbiato alla mia prevedibile citazione.
«Senti chi parla!» lo riprese una ragazza con un'ordinatissima coda di cavallo castana, gli orecchini a cerchio tintinnarono quando si sporse verso l'altro tizio. «Yamamoto, hai forse dimenticato che ti sei presentato allo stesso modo?»
«Ma la mia voce era più simile a quella di Bond.»
La ragazza sbuffò e mi porse la mano. «Sono Alisa Sokolova, dell'ottantasettesimo.» Diede un'occhiataccia all'amico e lui si sbrigò a presentarsi.
«Oliver Yamamoto, novantesimo. E prima che tu me lo chieda, sì sono giapponese, ma i miei hanno pensato che con un nome inglese mi sarei integrato più facilmente.»
«E ha funzionato?»
«No, ha peggiorato la situazione.»
«Allora, la finiamo con le inutili chiacchiere?» Riuscii a scorgere solo la capigliatura di un pallido castano, ma non il volto di chi aveva parlato.
Victoria, accanto a me, serrò le braccia. «Moore, non potresti mostrarti un po' più amichevole?»
Moore emerse dalla calca, l'aspetto di un adone greco e l'atteggiamento di chi sa di esserlo.«Perché dovrei? La gentilezza non migliora la mia mira.»
«Nemmeno la prepotenza, se è per questo» ribattei, sorridendo.
Sembrò sorpreso dalla mia risposta pronta, quasi non si aspettasse che la gente reagisse ai comportamenti arroganti.
Oliver fischiò sfregandosi le mani. «Da queste parti le dispute si risolvono in una sola maniera-»
«Ma quale disputa?» Alisa si massaggiò le tempie come una maestra delle elementari.
«Imbracciate le armi!» strillò Yamamoto, indicando con fare teatrale un edificio metallico.
Senza neanche chiedermelo, l'intera casa dei Cecchini vi si avvicinò. Victoria fece spallucce e li raggiunse.
Non erano passati neanche due minuti e mi ero già cacciato in una specie di rissa tra tiratori.
Sospirai e li seguii, capitando in un poligono di tiro fin troppo simile a quello in cui avevo scoperto le mie incredibili doti. Sembravano fatti con lo stampino. Avrei giurato che perfino le ammaccature sugli armadietti di metallo e i segni di scarpe sul pavimento fossero gli stessi.
Il suono di un caricatore mi riportò alla realtà. Tre colpi, sparati in meno di quella che mi sembrò una frazione di secondo. Tre centri quasi perfetti.
Moore sollevò la canna ancora fumante del fucile d'assalto, che aveva pescato chissà da dove, e mi osservò con boria. «E tu come te la cavi?»
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