Capitolo 20- Accoglienza fin troppo calda
Leonard si schiarì la voce, rimproverando con lo sguardo il laureato all'università della strada alla mia sinistra.
«Suppongo che tu abbia già fatto amicizia con Rakesh.»
«Beh, in realtà no. Io stavo-» Mi bloccai, ricordando che fino a qualche minuto prima mi stavo impicciando dei dati sensibili della persona che avevo davanti... e che, soprattutto, la sua pagina era ancora aperta di fianco a me. Lanciai un'occhiatina furtiva al tablet.
«Maverick, giusto?» Mi apostrofò il ragazzo. «Non ti stavo insegnando due cosette sull'hacking?» Puntò quasi impercettibilmente la testa verso il dispositivo.
Mi stava coprendo? Perché avrebbe dovuto dimostrarsi tanto gentile con un tipo che non solo gli aveva dato dell'assassino, ma che conosceva appena?
«Già» risposi, cogliendo l'occasione per cliccare con nonchalance sulla piccola X rossa. Non volevo essere etichettato come pettegolo prima ancora di essere stato ammesso a tutti gli effetti nel novantaduesimo.
«Oh, bene» Leonard rilassò l'espressione da padre esasperato. «Il Sergente Istruttore mi ha riferito della tua situazione... particolare.»
Rakesh si sfregò le mani. «Questa parte l'avevi omessa. Cos'ha di speciale il nostro nuovo compagno?»
Lewis spostò lo sguardo su di me, quasi volesse chiedermi il permesso di parlare. Sollevai le sopracciglia per lo stupore: forse non era affatto come lo avevo dipinto. Insomma, fosse stato uno spocchioso egoista, avrebbe spiattellato le mie mirabolanti incapacità a chiunque dopo neanche una frazione di secondo dall'apprendimento di tale informazione.
«Io...» iniziai, senza avere la minima idea di come dire a Rakesh quanto fossi scarso e mantenere allo stesso tempo quella briciola di rispetto che stavo cominciando a ottenere. «Sono indietro con qualche materia.» Dopo il liceo non avrei mai immaginato di ripetere una frase del genere, in special modo a una persona diversa da mia madre.
Il ragazzo arricciò il labbro superiore. «Tutto qui? E io che ti credevo... lascia stare.»
«Allora» Leonard unì le mani e poi mi indicò. «Sei pronto per conoscere il resto del team?» Era genuinamente emozionato per me, assomigliava tanto a un cucciolo di labrador conscio di star uscendo per andare al parco.
«Suppongo di sì?»
Lewis mi sorrise e aprì la porta. Lo seguii all'esterno e rischiai di collassare il secondo dopo, quando mi appioppò un'enorme scatola di cartone tra le braccia.
«Cosa c'è qui dentro? Un dinosauro?»
«Magari, purtroppo non è altrettanto interessante.» Mi svelò il contenuto sollevando le ali: libri. «Il Sergente ha insistito affinché ti venissero consegnati al più presto.» Ne prese in mano uno, mostrandomi la copertina.
«Balistica? E dovrei studiarla?»
Aggrottò le sopracciglia, rigirando il volume come per assicurarsi che avessi letto correttamente. «Sei un cecchino, no? Dovresti già essere un esperto.»
«No! Io non mi metto di certo a calcolare traiettorie ed equazioni mentre sparo, a malapena riesco a sottrarre a mente per controllare che i cassieri del supermercato non mi freghino i soldi!»
Leonard fece per parlare, ma richiuse subito la bocca. «Possiamo rimediare, ne sono sicuro» mormorò, avviandosi per i corridoi.
Tentai di non rimanere indietro nonostante trasportassi il mio peso in tomi rilegati in pelle, che sembravano ingigantirsi a ogni passo per sottolineare quanto fossi ignorante.
Ben presto, ci ritrovammo a passeggiare, o "arrancare" nel mio caso, per i dorsi delle collinette, dirigendoci verso l'unico punto di riferimento che avevo su quell'isola: la casa di William in lontananza che rifletteva la luce come un faro a causa di tutte quelle vetrate.
«Dove andiamo?» domandai, tra un rantolo e l'altro. Non sarei durato più di qualche minuto.
«Ai bungalow dei team a est, proprio lì.» Si riferiva a uno straordinario mucchio di casette in legno chiaro tutte uguali, stile villaggio vacanze, ma con molte più armi e scontrosità. Alcune apparivano deserte, altre pullulavano di ragazzi della mia età che si rilassavano sul portico o prendevano il sole sul retro.
Erano tutte abbastanza distanti dalla spiaggia più vicina, ma chiunque incrociassimo era ricoperto di sabbia oppure grondava acqua salata.
«Il nostro qual è?» Cercavo qualcosa che distinguesse una di quelle abitazioni dalle altre, aspettandomi una sorta di brivido alla "è quella giusta", come una sposina davanti all'abito. Eppure, i miei occhi non percepivano alcun dettaglio differente, erano identiche sotto ogni punto di vista.
«È un po' più in là...»
Scrollai le spalle, scatolone permettendo, e affrettai il passo, affiancando Leonard. Quando arrivammo nei pressi della fine del mare di adorabili cottage marinareschi, un moto di preoccupazione si imbucò tra i miei pensieri.
«Ci stiamo allontanando dai bungalow, sei certo della direzione?»
«Sì» sospirò con nervosismo. «Siamo quasi arrivati.»
A quel punto sospirai anche io, ma di sollievo. Sentivo le braccia percorse da centinaia di formiche drogate di caffè. Sarebbero potute esplodere da un momento all'altro, per quanto ne sapevo.
«Il nostro è... diverso dagli altri.»
Quell'affermazione non prometteva niente di buono.
Non ero proprio un dizionario ambulante, ma ero abbastanza sicuro che "diverso" non fosse un sinonimo di "orribile"... anche perché altrimenti tutti i miei insegnanti non avrebbero fatto altro che insultarmi durante la mia intera carriera scolastica.
Quindi, comprenderete la mia sorpresa nel ritrovarmi davanti a un bungalow che mi ricordava il prima delle peggiori case di Extreme Makeover: Home Edition. Tanto per cominciare, aveva così tante crepe che mi domandai se i costruttori non si fossero confusi, usando sottomarche di cracker al posto del legno. Le pareti avevano ricevuto l'ultima imbiancatura forse nel millenovecentonovantanove; presentavano precarie croste biancastre e chiazze più chiare, come se la casa stessa avesse preso troppo sole e avesse iniziato a spellare. Da quel poco che riuscivo a scorgere del tetto, mi accorsi che aveva meno tegole lui, che denti un'ultra ottantenne; e a giudicare dall'odore di guano che permeava il posto, ben più di qualche gabbiano aveva nidificato in quel mefitico loco.
Leonard mi osservava in silenzio, le labbra strette.
«Ti prego, dimmi che questo è un edificio storico che ci siamo fermati ad ammirare prima di arrivare al vero bungalow.»
«Lo vorrei, lo vorrei tanto...»
Salì i tre gradini che conducevano al portico, che urlarono dal dolore quasi fossero vecchietti con i reumatismi, e spinse la porta priva di maniglia. Attraversandola, posai gli occhi sui cardini: ormai più ruggine che ferro.
Al contrario dell'esterno, l'interno era molto rassicurante. Ovviamente i mobili erano veterani della Seconda Guerra Mondiale, ma erano ancora gagliardi nonostante la veneranda età.
Poggiai la scatola sul tavolo bianco alla mia sinistra, illuminato dalla luce che filtrava dalla finestra incassata nel muro; sul davanzale figurava un'adorabile piantina grassa che si abbronzava. Un po' più in là, sulla destra, un paio di divanetti celesti circondavano un basso tavolino sormontato da una tv, unico dettaglio moderno che avevo visto. Sulla parete opposta all'entrata c'era una piccola cucina funzionale e un lungo bancone con degli sgabelli.
«Lì c'è il bagno.» Mosse la testa verso una vecchia porta bianca vicino al frigorifero, poco distante dal salotto. «Da questa parte trovi le camere da letto.»
Un stretto corridoio si sviluppava oltre la cucina.
«Spero non ti dispiaccia condividerla con Rakesh.»
Almeno camera mia una maniglia l'aveva. Lewis la girò e mi mostrò la stanza: due letti singoli addossati alle pareti, ognuno con un baule alla propria fine e delle mensole a sovrastarli, due scrivanie accostate sotto l'unica finestra, proprio di fronte a me. Era un arredamento piuttosto spartano, ma sempre meglio di quanto mi aspettassi.
«Questo è il tuo migliore amico» Toccò un gancio di metallo sul muro, davanti alla cassapanca. «Appendici l'uniforme appena ti viene consegnata. Se il Sergente adocchia anche solo una piega sulla tua camicia, ti farà stirare quelle di tutti gli abitanti dell'isola.»
Solo in quel momento mi accorsi che lui stava indossando la suddetta uniforme proprio in quel momento. Avevo dato per scontato fosse il suo stile ma, riflettendoci, nessuno sano di mente avrebbe deciso di propria spontanea volontà di mettersi un completo formale con tanto di cravatta con quel caldo infernale.
Lewis si tolse la giacca blu scuro e si allentò il nodo al collo.
«Di solito non c'è mai un attimo di pace, ritieniti fortunato ad avere il tempo di ambientarti. Le ragazze dovrebbero tornare-»
La porta dall'altro lato del corridoio si spalancò di botto. Cora mi saltò al collo e per poco non caddi all'indietro. A dispetto dei capelli rosa che mi si infilarono negli occhi, non mancai di notare lo sguardo geloso di Kid Thor, che pietrificò l'intera massa muscolare del corpo. Il tempo di sbattere le palpebre e quell'ombra di astio l'aveva completamente abbandonato.
«Se sei qui, significa che sei riuscito a entrare in una Casa?» Gli occhioni castani scintillavano di gioia. Non ricordavo neppure l'ultima volta in cui qualcuno era stato così felice per me.
«E già.»
«Quante erano le probabilità che diventassi proprio il Cecchino nel novantaduesimo? Insomma, è incredibile!» Allargò le braccia di scatto, quasi schiaffeggiando il volto di Leonard, alle sue spalle, che evitò il colpo in maniera magistrale.
«Non per smorzare l'entusiasmo...» Una seconda ragazza sbucò dalla camera di Cora e si appoggiò al muro con una spalla, le braccia conserte. «ma in realtà era una certezza. Eravamo l'unica squadra senza un Cecchino in tutta l'isola, almeno fino a oggi.» Si fermò per un secondo, focalizzandosi su di me. «È un peccato che sia dovuto toccare a te. Se fossi arrivato un mesetto prima, saresti potuto capitare in una squadra decente.»
La osservai attentamente mentre parlava, cercando di capire da dove arrivasse quella strana sensazione di familiarità. La logica mi diceva che era impossibile che l'avessi già incontrata, ma la sua voce e quel viso fiabesco da abitante dei boschi mi stavano solleticando la memoria.
«Ehi, noi siamo un ottimo team. Non spaventare il nuovo arrivato.» La rimbeccò Lewis, supportato da Cora.
«Esatto, e ora che siamo ufficiali, scaleremo la classifica! È questione di giorni.»
«Ufficiali?» domandai.
«Dato che ci mancava un membro, ci era proibito partecipare ai meeting, alle esercitazioni e alle missioni» spiegò il Leader del novantaduesimo, indicandomi.
«Ma ora che abbiamo te-» Cora fu interrotta dalla sua compagna di stanza.
«Non cambierà nulla.»
Leonard le scoccò un'occhiata torva, ma lei lo ignorò senza troppi complimenti.
«Ci conosciamo, per caso?» Mi intromisi, attirando l'attenzione.
La ragazza assunse uno sguardo pericoloso da felino.
«Cos'è, una patetica tattica di rimorchio?» Ringhiò, serrando i pugni.
L'immagine mi si addensò davanti agli occhi con incertezza, ma fu sufficiente affinché la mia bocca si aprisse prima che fossi in grado di impedirlo.
«Sei l'infermiera del Saint Paul!» Esclamai, indicandola. Vacillai per un primo momento, dato che non aveva alcun senso. A meno che non fosse un caso simile a quello di Markus e indossare la tutina dell'ospedale fosse stata una copertura.
«Credo di essermi persa...» fece Cora.
«E non sei l'unica» aggiunse Leonard. «Robin, per te quello che dice ha senso?»
Iniziai a dubitare della mia stessa memoria, anche perché alcuni dettagli la diversificavano parecchio dalla graziosa infermiera in questione. Certo, era sempre alta due mele o poco più, e i suoi occhi grigio-scuro erano immutati, ma non aveva più le lentiggini né i capelli a cespuglio che, sebbene uguali nel colore, si erano lasciati andare sotto la forza di gravità in un paio di pigre onde, ed erano così corti che sfioravano a malapena la base del collo.
Robin si avvicinò di qualche passo e mi squadrò a lungo. Nella penombra i suoi occhi grigi si scurivano fino a confondersi con le pupille. Avevo paura che se si fosse avvicinata di più, sarei stato inghiottito da quei due buchi neri.
Un lampo di consapevolezza le attraversò il viso elfico.
«Maverick Ward.»
«Cooper» la corressi all'istante, stringendo i denti.
«Ward? Come il Grande Capo?» chiese Cora.
Lewis mi scrutò come se mi vedesse per la prima volta e mise a fuoco solo allora.
«Come ho fatto a non accorgermene?» strillò, indietreggiando. «Sei la sua fotocopia!»
Robin avanzò verso di me finché furono solo pochi centimetri a separarci. In altre circostanze avrei trovato adorabile che dovesse alzare la testa quasi del tutto per guardarmi in volto, ma qualcosa nella sua postura e nel sguardo mi raggelava il sangue.
«Qual è il tuo gioco, Ward?» Calcò il cognome sbagliato, e dalla sua espressione boriosa capii subito che la sua intenzione era quella di innervosirmi. «Il paparino ti ha mandato a verificare di persona quanto siamo insoddisfacenti e mediocri? Ha una catapecchia peggiore in cui confinarci, oppure ha finalmente deciso di rispedirci a calci in accademia militare con disonore?» Mi spinse indietro colpendomi la spalla, aprendo le braccia e facendomi segno di avvicinarmi e reagire alla sua provocazione fisicamente.
«Primo: il mio nome è Maverick Cooper. Secondo: Ward potrà anche avermi generato, ma questo non lo rende mio padre. E terzo: non ho la minima idea di cosa tu stia parlando» sibilai, rifiutandomi di farmi indietro quando mi spintonò una seconda volta.
Robin rilassò impercettibilmente la mascella, ma non accennò a desistere con quel comportamento passivo-aggressivo.
«Se sei davvero il figlio del boss, perché sei finito con noialtri reietti?» La voce di Rakesh emerse dal corridoio. Nessuno l'aveva sentito arrivare e l'intera stanza sussultò.
Notai che gli altri si erano radunati attorno a me e Robin durante la conversazione per non lasciarsi sfuggire un dettaglio, o forse per separarci casomai lei fosse passata alle mani. La spavalderia tradiva il suo gusto per le discussioni, soprattutto quelle accese.
Li guardai uno per volta mentre l'implicita realtà dell'affermazione del Tecnico si sedimentava loro nella mente e il termine reietto si stampava sulla loro pelle. Dai loro volti era fin troppo facile comprendere come dovessero sentirsi, quella sensazione mi aveva accompagnato nel corso della mia intera esistenza. Persino Robin, a dispetto della sfrontatezza, arrossì per la rabbia. Realizzai che la loro condizione era fresca, non avevano avuto tutta la vita per farci i conti.
«Forse perché è questo il mio posto e non ho paura di ammetterlo» ammisi senza ritegno, scrollando le spalle.
«Stronzate!» latrò Robin, la furia di un temporale nei suoi occhi. «Quelli come te non si scomodano a scendere tra i comuni mortali se non per ottenere qualcosa.»
«Quelli come me?» ghignai. «Tu non hai la minima idea di chi io sia» dichiarai, con rigida freddezza.
Il tono gelido che usai suonò così tanto come la cadenza di William che per una frazione di secondo mi sembrò presente.
«Ehi, qui siamo tutti compagni.» Leonard poggiò una mano sulla mia spalla e l'altra su quella di Robin, un sorriso tremolante e nervoso a contornare l'aura di sicurezza. «Perché non ci diamo una bella calmata?»
«Io sono calmissimo» soffiai, mentre la ragazza ripeteva la stessa identica cosa.
«Eheh» sghignazzò Rakesh. «Pare che quest'anno ci sarà da divertirsi.»
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