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Capitolo 15- Cos'è questo, un capitolo crossover?

  Uscito dall'edificio, presi una profonda boccata d'aria. La brezza marina mi riempì nei polmoni e il suo profumo fu capace di risollevarmi il morale dopo una chiacchierata tutt'altro che facile con il mio padre biologico leggermente assenteista. La salsedine che permeava la costa fu subito pronta a prendere di mira i miei poveri capelli, già stremati dal paio di settimane in prigione, rendendoli un'enorme matassa appiccicosa simile a zucchero filato sporco di olio per motori. E immaginai che il mio odore non dovesse essere poi tanto diverso, in fondo non avevo avuto tempo per prestare attenzione alla mia igiene personale negli ultimi giorni.

  Guardai i dintorni disorientato, saettando con lo sguardo da un gruppetto all'altro di persone. Passeggiavano beate per le distese d'erba verde, che ricoprivano l'isola fin dove i miei occhi riuscivano ad arrivare. Mi avviai giù per il sentiero di terriccio smosso alla mia sinistra, come mi aveva raccomandato di fare Markus, tentando di apparire il meno losco possibile. Con tutta probabilità, non correvo alcun pericolo, eppure non riuscivo a non fissare gli individui nel raggio di dieci metri da me e, soprattutto, non ero capace di fingere di non essermi accorto delle loro armi.

  Persino i ragazzini le scorrazzavano in giro con nonchalance come fossero smarthphone, il che mise in allarme ogni singola fibra del mio corpo. L'ultima volta in cui ero stato vicino ad un'arma da fuoco era stato lo sfortunato incontro con lo Sconosciuto e non avevo poi così voglia di ripetere l'esperienza.

  Ad ogni modo, le mie teorie paranoiche furono completamente dimenticate quando, discesa la collina, mi voltai a destra e trovai, a poco più di un chilometro di distanza, l'immensità dell'oceano. Ne fui rapito e decisi, quasi in maniera inconscia, di avvicinarmi. Prima che me ne rendessi conto, arrivai sulla spiaggia e mi sfilai scarpe e calzini; camminai a piedi nudi sulla sabbia rovente.

  In circostanze normali, sarei corso nell'acqua il prima possibile ma, dopo tutto ciò che avevo passato, quell'attimo di libertà mi sembrò troppo bello per essere affrettato. Avanzai lentamente verso la riva e lasciai che le onde mi accarezzassero mentre il loro flebile e regolare sciabordio cullava i miei pensieri. 

  Mi vergognavo ad ammetterlo, ma non avevo mai visto l'oceano dal vivo. Con il suo lavoro sottopagato da infermiera, un appartamento pulcioso da pagare e un figlio da crescere, Nathalie Cooper non aveva mai avuto la disponibilità economica né il tempo per una vacanza.

  E una volta sposata con Abe, le rare volte in cui rinunciava al suo amato lavoro, si rifiutava di andare in un luogo che non fosse la casa della famiglia Johnson poco distante dal Lago Mohave. Nonostante l'insistenza mia e del mio patrigno, lei tornava sempre a Rockheart dopo una settimana o giù di lì per non abbandonare i colleghi al Saint Paul e io ed Abe spendevamo il resto del mese di luglio a sguazzare nell'acqua dolce come anatroccoli sotto steroidi.

  Ma nessun lago di cui fossi mai stato testimone reggeva il confronto con ciò che stavo ammirando in quel momento. Mi prese al cuore un moto di tristezza quando il flusso dei miei pensieri si soffermò su mia madre. Aveva avuto il piacere di assistere a una vista del genere? Sperai vivamente di sì perché non avrebbe avuto l'occasione per rimediare...

  Non avevo mai creduto nell'aldilà e in tutta quell'altra robaccia religiosa, ma mi ritrovai a chiedermi se mamma fosse ancora da qualche parte in questo mondo, magari a portata d'occhio. 

  Ero talmente immerso nei miei pensieri e ammaliato dal luccichio delle onde, dal calore del sole e dal profumo del mare che in pratica non mi accorsi che qualcuno si era fermato dietro di me e mi aveva rivolto la parola.

  «È mozzafiato, non trovi anche tu?» 

  Strabuzzai le palpebre, riprendendo, all'istante, familiarità con la realtà. Mi voltai indietro e vidi una ragazza; aveva circa la mia età e nemmeno un'arma letale addosso, quindi mi emozionai un po'. La chioma di un insolito rosa fluo le arrivava poco sopra le spalle e veniva sospinta dal vento, il grosso ciuffo che le ricopriva il lato destro della fronte era incollato ad essa a causa del sudore.

  Solo allora notai che aveva una tuta del tutto identica alla mia, però della sua taglia, che aderiva nei punti giusti mostrando le sue curve sinuose. 

  Non ricambiò il mio sguardo, era troppo intenta a osservare l'orizzonte con fare nostalgico mentre il bagliore color pesca del tramonto si rifletteva negli occhi nocciola dal taglio allungato. Il viso a forma di cuore, il piccolo naso dritto, le labbra carnose e il trucco articolato mi spinsero a domandarmi cosa ci facesse una tipa come lei un posto come quello. Forse non avrei dovuto giudicarla tanto in fretta, in fondo mi aveva detto a malapena due parole, ma non riuscivo proprio ad accostare le due immagini: lei, con quell'aura stucchevole da My Little Pony onorario, e i brutti ceffi con giubbotto antiproiettile che grugnivano come zombie particolarmente in forma.  

  Si riprese, mi sorrise e mi porse il braccio. Il mio cuore saltò un battito e mi pentii all'improvviso di non essermi tuffato nel mare per lavare via l'odore di spogliatoio maschile che mi si era appiccicato addosso come una seconda pelle nauseabonda.

  «Sono Cora Young, del novantaduesimo.»  

  «Emh... Maverick Cooper, centoquattresimo corpo di Addestramento Reclute, in attesa di unirmi alla legione esplorativa» scherzai, stringendole la mano.

  Lei sbatté le palpebre un paio di volte e aggrottò la fronte.

  «Non avevo mai sentito parlare di quella divisione...»

  «Perché non esiste per davvero. E per fortuna, aggiungerei.»

  Sembrò ancora più confusa.

  «Allora perché hai mentito?» Alzò il sopracciglio destro, anche quello tinto di rosa.

  «Ehi, sei tu che te ne sei uscita con quella parlantina pseudo-militare. Non volevo sfigurare.»

  Si coprì la bocca e prese a ridacchiare. Mi sorpresi che qualcuno avesse finalmente capito il mio umorismo e che, per una volta, avesse riso con me e non di me. 

  «Quindi non sei ancora stato assegnato a nessuna casa?»

  «Certo che sì. Corvonero semper fidelis.»

  Roteò gli occhi al cielo, ma da come si morse le labbra intuii che stava cercando di rimanere seria nonostante fosse sul punto di lasciarsi andare di nuovo.

  «Dico sul serio, Maverick!» protestò, incrociando le braccia.

  Sospirai e tentai di inventarmi una scusa plausibile. Io non avevo la più pallida idea di cosa Cora intendesse con "novantaduesimo" e "case". Non ero di certo lì per unirmi a chissà quale associazione segreta diretta secondo la dubbia morale di William Ward.

  «Guarda che non c'è da nulla di male ad ammettere di non essere ancora stato smistato. Forse il tuo talento deve ancora emergere.» 

  «Sì, ecco, quando lo distribuivano l'altro giorno ero piuttosto impegnato in un difficoltoso torneo di beer pong con il mio amico Jimmy.»

  «E hai vinto?» mi chiese a bocca aperta, quasi come se pensasse che quel giochino fosse stato promosso a disciplina olimpica. 

  Pareva talmente su di giri all'idea di una mia vittoria, che mi dispiacque confessarle che la cosa più vicina al suddetto torneo che mi fosse capitata ultimamente fosse stata un'intensa partita a "Centra il Cesare più vicino con degli spaghetti radioattivi per sopravvivere".

  «Ho stracciato Jimmy.»

  «I miei complimenti!»

  «Grazie...» mormorai appena.

  Il suo orologio da polso, che non avevo notato fino a quel momento, emise uno stridulo trillo. Lei sfiorò lo schermo e quello si spense.

  «Pausa finita. Torno a fare jogging, ci si vede!» 

  Si allontanò con una corsa lenta e mi dedicò un'ultima occhiata prima di continuare ad allenarsi sulla spiaggia. Dopo un po', non fu altro che una sagoma in lontananza.

  Davanti a me, il sole stava per tramontare. Qualche raggio tardivo si estendeva oltre gli altri, quasi come se non volesse andarsene così presto. Io, invece, sarei fuggito via quanto prima. 

  «Ricky!»

  Mi girai. Mario era sul sentiero in salita che riportava sulla collina e agitava le braccia per rendersi visibile nella penombra che andava infittendosi.

  Guardai l'oceano ancora per qualche secondo, poi recuperai le scarpe e lo raggiunsi.

  «È più di mezz'ora che ti cerco!» strillò, camminando avanti e indietro mentre mi infilavo i calzini seduto su un masso. «Se avessi perso il figlio del capo, il Sergente Istruttore Rodriguez mi avrebbe ucciso.»

  Mi bloccai di scatto con i lacci tra le dita e lo fissai.

  «Non per davvero!» precisò subito, mostrando i palmi. «Per chi ci hai preso?»

  «Potreste essere una Setta che venera Spongebob come leader supremo del mondo, per quanto ne sappia. Nessuno mi ha ancora detto una parola.»

  «Prima cosa: complimenti per la fantasia.»

  Ghignai e mi rimisi in piedi, affiancandolo mentre proseguiva per il viottolo.

  «Seconda cosa: sii paziente. Dipendesse da me, ti avrei rivelato tutto il primo giorno di galera, ma i miei superiori hanno protocolli da rispettare. Compreso tuo padre.»

  Storsi il naso. William Ward? No, non si era guadagnato quel titolo.

  «Io ho già un padre e il suo nome è Abraham Johnson» sbottai, incrociando le braccia. L'istante successivo compresi cosa avessi appena affermato. 

  L'avevo finalmente accettato come mio genitore ed Abe non era nemmeno lì. Forse, però, era meglio così. Fosse successo in sua presenza, sarei stato tanto in imbarazzo da sprofondare verso il centro della terra per sciogliermi nel nucleo.

  Mario fece un mezzo sorriso e mi superò.

  Il resto della passeggiata fu piuttosto silenzioso. Io mi godevo il panorama e la frizzante aria della sera, Markus parlava con chissà chi attraverso il suo auricolare. In realtà, non faceva altro che annuire e pronunciare una sfilza di "certo", "sicuro", "capito". Per qualche strano motivo, mi venne in mente Crazy Pete. Forse, soltanto perché anche lui era un ottimo ascoltatore.

  «Resta in linea» disse d'un tratto. «Ricky, è quella la villa.»

  Seguii con lo sguardo la direzione indicata dal suo braccio e assottigliai gli occhi per riuscire a scorgere la sagoma scura in lontananza. Nonostante i lampioni piantati ogni tre o quattro metri, era impossibile vedere tanto in là. Fu allora che mi accorsi della nebbia delicata che sembrava aver avvolto i dintorni senza destare la mia attenzione. Mi ritrovai su un sentiero nel nulla di cui non era distinguibile né l'inizio né la fine. Per fortuna non ero l'unica anima lì. Quella pareva la classica ambientazione da film horror e io, al contrario degli imbecilli che di solito ne sono i protagonisti, non mi sarei mai diviso dal gruppo.

  Proprio mentre formulavo questo pensiero, le scarpe da ginnastica di Markus smisero di calpestare il selciato.

  «Ormai sei arrivato e io ho una commissione da sbrigare. Non ti dispiace entrare da solo, vero?»

  Il mio cervello mi stava implorando di attaccarmi alla gamba del mio amico e non staccarmi più stile cucciolo di koala. Il mio orgoglio si intestardì e l'ebbe vinta.

  «No, vai.»

  Mentre veniva inghiottito dalla foschia, lo chiamai.

  «Cosa?»

  «Dovrei sapere qualcosa prima di affrontare questa discussione con William?»

  Markus restò in silenzio per qualche secondo e, per un istante, pensai avesse continuato a camminare, ignorandomi.

  «Sei sopravvissuto a un'aggressione da parte di un sicario, a un assassino amante dell'arte e a un siero mortale creato alla bell'e meglio. Credo che tu possa resistere a una chiacchierata.»

  Avanzai. 

  Nel giro di qualche minuto, fui davanti alla "villa" di William, che più che altro sembrava un museo d'arte moderna. Non aveva nulla a che vedere con l'adorabile casetta di periferia di Abraham.

  Era formata da due scatole di cemento ocra, quella superiore più grande e sporgente di quella inferiore, tempestate di finestre su ciascun centimetro libero e colonne perfettamente squadrate. Non possedeva dettagli decorativi né altri elementi di abbellimento. La sua descrizione più accurata non avrebbe potuto essere lunga oltre le tre righe. A quel punto, mi chiesi chi avrebbe avuto il coraggio di definire accogliente quella struttura tanto asettica.

  Bussai al campanello e diedi un'occhiatina all'interno attraverso la doppia porta di vetro. Affacciava su una modesta sala da pranzo con un lungo tavolo nero minimalista contornato da sedie a forma d'uovo a cui mancava un quarto. Sulla destra c'era una credenza in legno bianco di forma esagonale, al cui centro risaltava una bianca lastra opaca. Non mi ci volle neppure un attimo per comprendere che quelle macchie sfocate fossero bocche da fuoco. Diametralmente opposta rispetto a quel povero mobile, utilizzato nel modo più sbagliato possibile, risaltava una piccola statuetta greca o forse romana, con tutta probabilità una riproduzione, di un angelo di sesso femminile a cui mancava la testa.

  A quella vista, a qualunque designer d'interni sarebbe venuto un embolo e sarebbe stramazzato al suolo. 

  Ma, a giudicare dal sorriso smagliante che mi risolse William mentre mi faceva accomodare all'interno e mi mostrava l'ambiente, lui pensava di aver svolto un ottimo lavoro d'arredamento.

  «Ricky, spero che tu abbia fame, per-»

  «Sei pronto a rispondere alle mie domande?» tagliai corto, prendendo posto, a disagio, in quell'orribile seduta. 

  Il sorriso si affievolì e lui sospirò.

  «Suppongo di doverti delle spiegazioni prima di pretendere di consumare un pasto con te come fossimo una famiglia.»

  «Quella nave è salpata da tempo» ribattei. Mi accorsi di ciò che avevo detto solo quando William evitò il mio sguardo e unì le mani con nervosismo, girovagando con gli occhi per la sala come se all'improvviso non riconoscesse la propria abitazione.

  «Cosa vuoi sapere?» sospirò, affondando in una poltrona bianca poco distante dall'ingresso.

  Avevo così tanti dubbi che mi frullavano per la testa che per qualche secondo il cervello mi andò in trance. Alla fine, non so per quale motivo, fu questo quesito a prevalere sugli altri:

  «Cos'è questo posto?»

  «È il quartier generale del S.E.A.» Dal cassetto del grazioso tavolino dalle gambe a spirale, William recuperò una bottiglia semi vuota di vino e bevve un sorso abbondante.

  La mia dipendenza dall'alcol mi apparve repentinamente meno grave. Forse non ero io a essere la mela marcia della famiglia. Forse era tutta la pianta a essere irrecuperabile.   

  «E quella sigla sta per...?» Imitai Will, ma scelsi l'acqua lì di fianco.

  «Security and Espionage Agency.»

  Ingoiai così in fretta che parte del liquido imboccò il tubo sbagliato e io quasi soffocai.

  «Cosa?» chiesi, posando il bicchiere prima di fare altri danni.

  William ripeté la frase senza lasciar trasparire alcuna emozione, quasi come stesse parlando di un banale club del libro a cui aveva partecipato la settimana precedente.

  «Tutto bene?» mi domandò, dato che avevo smesso di pensare e muovermi da circa un minuto.

  «Sì» replicai. «Sono solo sorpreso di essere finito nel nuovo film di James Bond senza aver sostenuto un provino.»

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