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Capitolo 13- Cervello.exe ha smesso di funzionare

  Lo ammetto, dopo le parole del falso ufficiale Clarke, credevo davvero che quei momenti sarebbero stati gli ultimi su questa terra. Insomma, voi come vi sentireste se assumeste un liquido non ben identificato, su consiglio di un modello e di un fattorino delle pizze, per poi scoprire che c'è la possibilità che abbiate commesso lo sbaglio più fatale della vostra vita?

  Ciò che mi successe dopo essere svenuto è un mistero per me. Avevo dei flash sporadici di avvenimenti improbabili, ma appena tentavo di concentrarmi su uno di loro era come se stessi guardando un film proiettato su un banco di nebbia e più mi avvicinavo e più questa si dissolveva. 

  A dirla tutta, i vaghi ricordi riguardavano in gran parte il periodo in cui ero senza sensi. Rammento la costante agitazione durante la sorta di dormiveglia forzato in cui mi ero ritrovato; non avevo l'occasione di pendere in una direzione o nell'altra e non ero in grado di comprendere ciò che stava accadendo intorno a me.

  Quindi, capirete che risvegliarmi in un luogo che decisamente non era la cella d'isolamento del Rockheart Juvenile Detention Center mi fece un certo effetto. Soprattutto se questo assomigliava più a un carcere del sopracitato centro di detenzione.

  La minuscola stanzetta sembrava presa dal commissariato di Rockheart e copia incollata in un edificio differente, ma con un po' di sporcizia in meno. Per il resto, i due ambienti risultavano uguali: letto di metallo, water lurido, sbarre. 

  Mi tirai su a fatica e mi osservai le mani, chiedendomi se fossi capitato all'inferno. Il che sarebbe stato anche piuttosto ironico, poiché evaso da una prigione sarei finito in una persino  peggiore.

  Tuttavia, parevo abbastanza vivo, quindi esclusi quell'ipotesi. Mi alzai dal letto e compii qualche passo, ondeggiando più di quanto avrei fatto in un colossale dopo sbornia. Mi appoggiai al muro e piantai i piedi a terra, cercando di avanzare verso le sbarre.

  Fu allora che notai due energumeni a guardia della mia cella, vestiti come Brad il buttafuori nelle serate più economiche del Seven Sins, quando c'era il rischio che una persona su tre che usciva dal locale gli vomitasse addosso.

  «Emh... scusate?» mi sforzai di parlare, ma sembrava che le mie corde vocali avessero dimenticato come funzionare. Dovetti costringere me stesso a urlare per essere udito.

  Il tipo alla mia destra fece un cenno a quello a sinistra, che si allontanò sbuffando. 

  «Dove mi trovo?» continuai, aggrappandomi alle sbarre.

  Il bodyguard mancato prese a ridacchiare e mi lanciò un'occhiata divertita girando appena il busto. Per alcuni secondi fui indeciso: avrei dovuto mandarlo a quel paese oppure risultare educato? Per quel che ne sapevo ero in territorio nemico, quindi optai per la seconda.

  «Dov'è Mario?» chiesi, cercando di sporgermi per scorgere il corridoio fuori dalla cella.

  «Non conosco nessun "Mario", novellino» rispose il tizio, con un tono di voce estremamente annoiato.

  Perché mi aveva chiamato in quel modo? Ero entrato, per caso, a far parte di una setta mentre ero senza sensi? Si trattava di Scientology, vero?

  «Ma devi conoscerlo! È lui che mi ha portato qui... ovunque sia "qui".» 

   Il mio interlocutore se ne stette in silenzio, con le braccia incrociate nella tipica posa dei tipi drogati di testosterone e le sopracciglia fin troppo folte aggrottate.

  «È alto, con i capelli rossi, gli occhi azzurri, le lent-»

  «Senti, ragazzino, potrebbe anche avere la pelle verde e un tatuaggio di Nostro Signore in faccia, ma non mi importerebbe lo stesso. Il mio compito è solo quello di assicurarmi che tu non te ne vada in giro per la base.»

  «Cosa?»

  «Fossi in te mi sarei fermato a prendere un caffè!» urlò, ignorandomi. 

  Il suo collega ritornò e affiancò lo scorbutico culturista. Aveva con sé dei vestiti, che mi passo attraverso le sbarre con un grugnito.

  «Mettiteli, così posso finalmente liberarmi di te.»

  Sarà stato l'aspetto di quel tipo, sarà stato il contesto in cui mi trovavo, ma quella frase mi provocò i brividi. E se avessero inteso altro con quell'espressione? Ad esempio finire il lavoro che la fiala di Mario aveva iniziato?

  «Vuoi muoverti o no? Guarda che ho di meglio da fare che occuparmi di un moccioso!»

  Trasalii al suo cambio repentino di atteggiamento e mi sbrigai a togliermi la divisa del carcere per infilarmi il pantalone di una tuta blu scuro e una canotta dello stesso colore. Mi ficcai la pallina di Will in tasca senza farmi vedere, sperando che mi risultasse finalmente di qualche utilità.

  Mi mancavano solo un berretto al contrario e una collana con il simbolo del dollaro per sembrare un rapper in erba. I vestiti non erano neanche lontanamente della mia taglia, cosa che mi faceva apparire come un ragazzino che si prova gli indumenti del padre per sentirsi grande.

  I due gorilla, di nome e di fatto, mi trascinarono fuori dalla cella di peso e mi spintonarono affinché cominciassi a camminare. Obbedii, anche se la paura di essere in pericolo di vita mi rendeva difficile non ribellarmi e fuggire via il più velocemente possibile.

  Mi condussero per un'infinità di corridoi grigi dove altri fan sfegatati del fitness mi tirarono occhiate di superiorità. Tra di loro c'era anche qualche bella signorina, che però mi fissava con disgusto, quasi fossi una cacca di cane calpestata con le scarpe che ancora profumano di nuovo.

  Ciò, mi ricordò della sorta di Walk of Shame che avevo dovuto affrontare all'ospedale, quando tutti mi credevano l'assassino di mia madre.

  Non fui in grado di ricambiare gli sguardi a testa alta, mi sentivo troppo esposto e vulnerabile. Abbassai il capo e mi concentrai sul parquet che si piegava sotto le suole delle scarpe, tentando di non sembrare terrorizzato da cosa stesse per accadere, nonostante lo fossi per davvero.

  A un certo punto, i due sosia malriusciti di Brad si fermarono e mi fecero cenno di continuare da solo verso una doppia porta in legno di quercia alla fine del corridoio.

  «Chi c'è lì?» chiesi, con la voce tremante.

  «Colui che muove i fili.»

  «Eh?»

  «Cerca di non morire, sarebbe fastidioso dover pulire le tue cervella dalla carta da parati.»

  Deglutii sonoramente e osservai Stanlio e Ollio indietreggiare senza perdermi d'occhio, quasi temessero che pur di scappare fossi in grado di spaccare i muri che mi circondavano in stile Hulk.

  Mi voltai e cominciai a camminare. Ogni passo sembrava sbalzarmi in avanti di dieci metri, quasi come se la porta avesse un campo gravitazionale e mi volesse includere disperatamente nella lista dei satelliti.

  Le pareti grigie parevano pulsare attorno a me come se si stessero sbellicando dalle risate.

  I neuroni mandavano impulsi da una parte all'altra del cervello senza sosta, proponendomi centinaia di scenari di fuga purché non varcassi quella soglia.

  Eppure, nonostante il fiato corto e gli effetti collaterali del veleno di Mario, non riuscivo a fermarmi.

  Colui che muove i fili. 

  Mi tornarono alla mente le parole di Rita. Era forse l'individuo dietro quella porta il fautore delle mie disgrazie? Aveva ordinato lui l'assassinio di mia madre? Era stato lui a precludermi un equo processo? Era a causa sua che la mia vita si era trasformata nella brutta copia di un film d'azione con una pessima trama?

  E se la risposta a tutte quelle domande fosse stata positiva, cosa c'entrava Mario? Perché lui e Nolan avrebbero dovuto aiutarmi a evadere se il loro "capo" mi voleva morto? Insomma, niente aveva senso!

  E, in realtà, la cosa che mi faceva più paura era la mia reazione.

  Se quell'uomo fosse stato davvero il mandante dell'omicidio di mia madre, io... come mi sarei comportato?

  In ogni singolo istante passato in carcere mi ero immaginato almeno un migliaio di volte il momento in cui avrei avuto l'occasione mettere le mani su quel figlio di puttana.

  Ma ora che avrei potuto avercelo davanti, quelle fantasia si rivelavano essere soltanto frutto di una mente fervida.

   Checché se ne dicesse, non ero coraggioso neanche la metà di quanto il mio subconscio affermava.

  Afferrai la maniglia della porta e la spinsi mentre rimanevo inchiodato sulla sottile linea metallica che separava quell'ambiente dal corridoio. Non ero capace di muovere le gambe oltre.

  Alzai lo sguardo dalle scarpe da detenuto e per poco non indietreggiai davanti al cambio repentino e lampante a cui si assisteva in quell'ufficio.

  Alla mia sinistra, una vetrata di svariati metri di lunghezza e altezza percorreva un'intera parete. Oltre essa si estendevano campi sportivi, strutture metalliche simili ad hangar e... l'oceano. Un'accecante distesa celeste che luccicava sotto i raggi del sole come solo le migliori spogliarelliste del Seven Sins avrebbero fatto dopo una doccia di glitter. Lungo l'orizzonte spiccavano le sagome di barche a vela all'antica che si scontravano contro i lineamenti più moderni dei windsurf che sfrecciavano a pelo dell'acqua.

  C'era solo un piccolo particolare fuori posto: non c'era l'oceano in Arizona. 

  Ciò significava che mi trovavo a chilometri di distanza dall'unico posto che avessi mai conosciuto: Rockheart.

  «Incantevole, vero?» domandò una voce chiara dall'altro lato della gigantesca finestra; aveva un che di familiare. Mi ero avvicinato al vetro senza accorgermene e la porta si era chiusa silenziosamente alle mie spalle. 

  Le parole mi morirono in gola, ma a quel tipo non sembrò importare. Mi azzardai ad adocchiarlo con la coda dell'occhio. Lui mi diede le spalle e si diresse al centro della stanza, dove un enorme tappeto bianco dall'aria soffice era sormontato da un'imponente scrivania in mogano dalle rifiniture classicheggianti, intarsiata con motivi floreali. Aveva un'aria piuttosto antica e preziosa e, personalmente, non ci avrei poggiato nulla, ma quell'uomo non era della mia stessa idea. C'erano almeno un centinaio di documenti macchiati di cibo, un paio di computer di ultima generazione ammaccati, dei trofei dalla forma strana e ben tre tazze di caffè diverse sparse per la superficie. Su una di loro si leggeva chiaramente: Miglior Capo del Mondo.

  Mi invitò a sedermi sulla poltrona azzurra davanti a lui come se nulla fosse. Lo fissai mentre prendevo posto, concentrandomi sul viso altero e serio che mal si addiceva alla sua insolita passione per il caos. Aveva la pelle color caramello più scura sulle mani e sul viso, quasi passasse fin troppo tempo a guardare fuori dalla finestra del suo ufficio. Gli occhi glaciali circondati da rughe d'espressione erano in netto contrasto con la chioma di capelli neri, simile alla criniera particolarmente spettinata di un leone costretta dal gel a stare in ordine. 

  Era il perfetto connubio tra cura e trascuratezza, il che faceva di quell'uomo un paradosso vivente, cosa che in realtà non mi sorprendeva. Nella mia vita regnava l'assurdità ormai.

  «Immagino tu ti stia chiedendo il motivo della tua presenza qui» disse, incrociando le mani davanti al naso dritto.

  Assottigliai gli occhi e continuai a osservarlo senza proferire parola; anche perché non avevo la più pallida idea di come riassumere in una sola domanda tutto ciò che mi turbava. 

  «Prima di risponderti» iniziò, frugando distrattamente in uno dei cassetti. «Vorrei fare un po' di chiarezza.»

  E mi puntò una pistola alla fronte. Il cervello smise di funzionare, quasi fosse svenuto per lo shock. Eppure, ciò che mi spaventava di più non era l'arma in sé, ma lo sguardo privo di qualsivoglia emozione di quell'uomo; non sembrava umano, assomigliava a un automa predisposto a un unico scopo che non si sarebbe fermato davanti a nulla pur di compiere la sua missione.

  «Cos'hai detto a Edward Clarke?» 

  «Chi?» chiesi, con appena la forza di parlare. Avevo alzato le mani in automatico.

  «Si spacciava per una guardia nella tua prigione.»

  «Niente!» esclamai subito.

  «Non te lo chiederò una seconda volta.»

  «Lo giuro: non ho detto nulla! Mario e Nolan mi aveva avvisato di tapparmi la bocca... io... io li ho ascoltati!»

  Mi sorpresi di non essere già scoppiato in lacrime, anche se non mancava poi molto. Non avevo mai compreso quanto terrificanti fossero situazioni del genere guardando insulse serie tv.

  L'uomo non si mosse di un millimetro e continuò a osservarmi mentre tremavo come un pulcino bagnato. Tolse la sicura e avvicinò l'indice al grilletto.

  «Ti prego, ti... ti... giuro... io. Non ho spiccicato una parola!»

  Sparò.

  Il colpo risuonò nella stanza a un tale volume che sarebbe stato normale vedere esplodere la finestra.

  «Bene, allora possiamo proseguire con questa conversazione.»

  Mi passai le mani nei capelli e sprofondai nella poltrona, respirando a fatica.

  «Era caricata a salve. Scusami per questo piccolo inganno, è la prassi.»

  Tossì un paio di volte per stemperare il clima e mi sorrise. Ebbe la gentilezza di aspettare che mi fossi calmato per continuare.

  «Cominciamo col chiarire dove ti trovi.» Il tipo indicò con il braccio l'alta vetrata da cui avevo osservato l'esterno in precedenza. «Siamo al largo della California, nell'arcipelago delle Channel Islands, sulla nona isola: Santa Alma.»

  Me ne stetti in silenzio, attendendo di scoprire dove volesse andare a parare, dato che, nonostante fossi una capra nella maggio parte delle materie, in geografia ero bravo. Ricordavo chiaramente che avrebbero dovuto essercene soltanto otto: non esisteva nessuna isola chiamata "Santa Alma".

  «Non è segnata sulle mappe, nel caso fossi confuso dalla mia affermazione-»

  «Non me ne frega un cazzo.» L'adrenalina in circolo prese possesso del mio corpo, aiutata dal sapere che quella pistola che si trovava ancora sulla scrivania era innocua.

  L'uomo sembrò stringersi a disagio in quel suo completo elegante color blu notte, che probabilmente doppiava il valore di tutte le cose che avessi mai posseduto.

  «Prego?»

  «Dopo quella messinscena non puoi buttarmi solo briciole di informazioni. Voglio risposte serie.»

  Si sistemò sulla poltrona girevole in pelle nera e mi fece cenno di iniziare.

  «C'entri con l'assassinio di mia madre?»

  Serrò le mascelle e mi fissò dritto negli occhi come fosse una questione personale.

  «È morta a causa mia. Tuttavia-»

  Scattai in piedi, ribaltando la mia seduta nella foga.

  «Lasciami parlare» sibilò. Con quel tono autoritario e il naturale e odioso carisma che emanava fui quasi tentato di ascoltarlo.

  Repressi a stento l'impulso di afferrare il primo stupido trofeo che mi capitasse davanti e fracassarglielo in testa.

  «Non sono io il mandante» scandì con lentezza ogni parola come se temesse che una singola sillaba sbagliata mi avrebbe spinto a reagire. «Tua madre è stata presa di mira perché ha avuto la sfortuna di conoscermi.»

  «Cazzate!»

  «È la pura verità, Maverick.»

  «Allora si può sapere chi diavolo sei?»

  Lui aprì la bocca per rispondere ma si trattenne come se temesse ciò che stava per uscirne. Si passò nervosamente una mano tra i capelli neri e si alzò in piedi. Era più alto e più grosso di me e in quella posizione la sua autorevolezza sembrava decuplicare; per un attimo desiderai indietreggiare.

  Prese un profondo respiro prima di cominciare.

  «Il mio nome è William Ward e sono... il tuo padre biologico.»



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