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Capitolo 11- Mai fidarsi di chi assomiglia a Ken Carson

  Ricordate quando avevo detto che un fattorino delle pizze di Luigi sarebbe stato alquanto bizzarro da trovare in giro per una prigione/riformatorio/inferno sulla terra?

  Ecco, avevo ragione. 

  Per questo motivo, Mario si era accaparrato un lavoro migliore e ora era diventato un custode.

  Di norma, in una situazione emozionale stabile, mi sarei sorpreso di incontrare quel ragazzo al Rockheart Juvenile Detention Center, soprattutto in una blanda tutina verde pisello ricoperta di sangue e vomito, ma ero appena scampato all'aggressione di un ceramista piuttosto arrabbiato, quindi fui in grado di dedicargli al massimo un'alzata di sopracciglia.

  Mi tornarono alla mente le parole di Will e mi resi conto che tutto quello che aveva predetto si stava avverando, per quanto improbabile e folle esso fosse. Però, la pallina di venti grammi non si era ancora trasformata in un'ancora di diverse tonnellate e una parte di me era ancora abbastanza scettica.

  Mario, l'ex ragazzo delle consegne, si sistemò il berretto (che era in pendant con la tuta intera) e riprese a pulire la chiazza accanto al mio tavolo. Mi diede le spalle e lanciò un'occhiata all'ufficiale Brown, intento a scherzare con un paio di detenuti.

  «Come ti sei procurato quei segni?»

  «Oh, beh, sai, ho criticato le opere di un tipo durante il corso di ceramica e lui non l'ha presa molto bene.»

  «Ammettono anche i nuovi arrivati nell'aula d'arte?» mi chiese, girandosi leggermente. Vide la mia espressione e si corresse. «Ma tu non stavi dicendo sul serio, giusto?»

  Le domande stupide esistono eccome, diffidate di chi afferma il contrario.

  «No, che non parlavo sul serio! Un tizio a caso ha tentato di strangolarmi nei bagni con una garrota meno di dieci minuti fa!»

  «Abbassa la voce!» sibilò, strizzando il mocio nel secchio giallo che aveva affianco. «Vuoi che ci senta tutto il carcere?»

  «Io sono stufo marcio di questa situazione! Chi cazzo è Will? Perché tu sei qui? Cosa c'entra Nolan in tutto questo? E soprattutto: come diavolo ho fatto a inimicarmi un intero carcere a tal punto da rischiare la vita?»

  «Ti sarà spiegato a tempo debito. Per adesso, ti basti sapere che entro una settimana sarai fuori di qui.»

  Una frase. Anzi, tre parole: fuori di qui

  Fu come essere un naufrago alla deriva che avvista terra dopo giorni.

  Fu come essere sordo e sentirci per la prima volta.

  Fu come trovare una patatina riccia gratis tra quelle che hai ordinato.

  Mi ridiede la speranza e la forza di dimenticare tutto ciò che mi era capitato.

  «Cosa devo fare?»

  «Una lotta con il cibo.»

  «Lo... eh?» mi guardai intorno alla ricerca di una telecamera nascosta. Cos'era quello? Una specie di candid camera per i prigionieri con l'ergastolo? Qualcuno si stava divertendo a giocare con i miei sentimenti?

  «Una lotta con il cibo» ripeté, mimando le movenze di un lanciatore di baseball e indicando un vassoio di... spaghetti?

  Rita, la madre di Abe e figlia di italiani emigrati in America appena dopo la seconda Guerra Mondiale, avrebbe dato fuoco a quel piatto e a chiunque fosse il "cuoco" che avesse provato a spacciarlo per pasta.

  «E perché?»

  «Perché l'unico posto sicuro qui è l'isolamento. La prossima volta Nolan non potrebbe essere nei paraggi per salvarti la pelle.»

  «Ehi, custode! C'è una grossa macchia qui» gli urlò la guardia Brown, versando la sua lattina di coca-cola a terra. Nel compiere quel gesto, sembrò che i bottoni del polsino stessero per esplodere a causa dei muscoli pulsanti.

  Mario imprecò. 

  «Devo andare a pulire.» Sollevò il mocio e lo strizzò.

  «Aspetta, come mi farete fuggire?»

  «Credimi: non vuoi saperlo.» Fui tentato di insistere, ma il modo in cui lo disse mi provocò i brividi.

  Così, l'ex fattorino delle pizze se ne andò.

  Guardai gli "spaghetti" con la coda dell'occhio. Avrei dovuto fidarmi di Will, Mario e Nolan? Insomma, come potevo sapere con esattezza che qualunque cosa avessero in serbo per me fosse meglio del posto in cui stavo? 

  Proprio mentre la mia mente ragionava sulla prossima mossa, il quindicenne di un paio di giorni prima (quello con lo spazzolino da denti di Terminator) fu scortato a un tavolo da un paio di guardie che non avevo mai visto. Il ragazzino prese in mano un coltello di plastica e alzò lo sguardo verso di me, regalandomi il miglior sorriso da serial killer nella storia dell'universo.

  Se era riuscito a convertire uno spazzolino in un fottuto pugnale, chissà cosa sarebbe stato capace di produrre con una quantità infinita di posate di plastica e un pizzico di fantasia.

  Scattai in piedi e mi avviai a grande falcate verso il vassoio, ignorando l'alluce dolorante per il calcio al muro. 

  Mentre avanzavo verso il centro della stanza, avrei giurato che la pasta si fosse mossa da sola, ma forse fu l'adrenalina e il terrore a modificare la mia visione del mondo.

  Mi fermai davanti alla panca e fissai con l'aria persa il piatto, tanto che un tipo dietro di me mi chiese se avessi l'intenzione di riprodurre la scena di Lilli e il vagabondo, sconsigliandomelo caldamente se non volevo contrarre qualche tipo di malattia contagiosa.

  In realtà, stavo pensando alle conseguenze. Dubitavo che un'azione del genere mi valesse un'intera settimana in isolamento, ma tentar non nuoce.

  Prendendo in mano una manciata di pasta, riflettei su cosa sarebbe successo se fossi riuscito a evadere. Forse, sarei stato in grado di andare al funerale di mia madre, di rivedere Abe e Rita, di partecipare a un'altra follia di Crazy Pete e, magari, di tentare di convincere Bob che lasciarsi morire non avrebbe dovuto essere l'unica soluzione alla sua eterna tristezza.

  Pieno di determinazione, strinsi il pugno e ruotai la testa a destra e a sinistra per designare un bersaglio. Chi si sarebbe beccato un cibo parzialmente radioattivo in faccia?

  Decisi di escludere il quindicenne amante dello splatter e i detenuti che mi parevano più propensi a uccidermi se avessi osato anche solo considerarli. La scelta ricadde sullo sventurato tizio accoltellato, appena uscito dall'infermeria. Un po' mi dispiaceva contribuire alla sua iella, ma era il solo che non avrebbe saputo ammazzarmi nei pochi secondi che le guardie avrebbero impiegato per ammanettarmi.

  Quindi, salii sul tavolo di metallo e presi una profonda boccata d'aria.

  «Lotta con il cibo!» urlai, scagliando gli spaghetti verso... non conoscevo neppure il suo nome. Facciamo che si chiama Cesare (riferimento assolutamente casuale).

  Dov'ero rimasto?

  Ah, sì.

  Scagliai la manciata di pasta verso Cesare, che sobbalzò talmente forte da cadere all'indietro.

  Per molti secondi, ci fu solo il silenzio. Tutti i miei amici carcerati mi fissavano e si scambiavano sguardi confusi.

  Poi, fortunatamente, un quattordicenne saltò su una panca di metallo e prese un vassoio.

  «Lotta con il cibo!» strillò, solo che non credo avesse capito bene come dovesse funzionare una situazione del genere. Rovesciò i piatti dal portavivande e lo sbatté in faccia all'energumeno che aveva accanto. 

  Questo, grugnì e lo spinse via. I suoi uomini gridarono e si catapultarono contro i carcerati più vicini alle uscite, menando colpi di vassoi a destra e a manca.

  Le guardie si affrettarono a intervenire, ma rimasero coinvolte nella mischia; alcune si ritrovarono sommersi di purè di patate e zuppe di pomodoro.

  Io, mi ritrovai un portavivande in fronte appena tentai di scappare dalla calca.

  Quando, finalmente, la rissa fu sedata, l'ufficiale Brown mi ammanettò e mi trascinò (in modo letterale) verso le celle di isolamento.

  «Stavolta l'hai combinata grossa, Cooper. Te ne starai al fresco per almeno tre settimane!» ringhiò, strattonandomi come un panno da stendere.

  Mi spinse dentro la stanzetta bianca e mi strappò di dosso le manette. Mi squadrò con quel viso da pitbull trasmettendomi tutto il suo disprezzo.

  Se ne andò sbattendo la porta.

  Dopo una vassoiata in testa, non capivo molto di cosa accadesse intorno a me. Di sicuro, però, avrei avuto un altro bel livido da aggiungere alla collezione. Me ne mancavano due per vincerne uno in omaggio.

  Mi sdraiai sul letto incassato nella parete e passai una buona mezz'ora a lamentarmi per il dolore, finché non arrivò la guardia Clarke in mio soccorso.

  Non avevo degli ottimi trascorsi con quel surfista castano aitante e valoroso dato che mi aveva tirato un pugno nello stomaco il primo giorno, ma non mi lasciai offuscare dai pregiudizi. Entrò nella cella agitando la fluente chioma e scoccandomi un sorrisetto poco intelligente. In altre circostanze, ci avrei fatto un pensiero, ma le prigioni, di solito, non sono un posto ideale nel quale trovarsi degli spasimanti. 

  «Acchiappa.»

  Mi tirai su appena in tempo per afferrare al volo una busta di ghiaccio secco già spezzato. Mentre me lo premevo sulla fronte, l'ufficiale prese uno sgabello e si sedette di fronte a me, studiandomi con una faccia che, personalmente, avrei rivolto a una versione di latino.

  «Sai, Cooper, è dall'altro giorno che mi chiedo per quale ragione cosmica un pappamolle come te sia finito in un posto come questo...»

  «Sono stato incastrato, sono innocente.»

  Ken, fidanzato di Barbie e guardia carceraria part-time, fece una smorfia.

  «Prova con una frase che non abbia sentito almeno un migliaio di volte.» Gli occhi dorati si assottigliarono e scintillarono alla luce al neon della cella.

  «Non sto mentendo» fui in grado di dire, nonostante quello sguardo cominciasse a sembrare sempre meno attraente; anzi, mi dava i brividi.

  «Puoi fare di meglio.»

  «È la pura verità!»

  «Non ci siamo ancora...»

  «Lascia stare.»

  «Eppure non riesco proprio a inquadrarti. Non sembri il tipo di ragazzo che ucciderebbe la propria madre, ma c'è qualcosa in te che non comprendo che mi dice il contrario. Forse sei davvero un killer a sangue freddo...»

  «No, invece. Io non avrei mai torto un capello a mia mamma.»

  «E chi è stato allora?»

  «Io...» Mi fermai di colpo. Presi a tremare come un pulcino bagnato. 

  Il tono avido in cui aveva pronunciato quelle parole mi ricordò lo Sconosciuto. E se chiunque avesse voluto uccidermi aveva qualcuno anche tra le guardie?

  L'ufficiale Clarke sarebbe stato perfetto per quel ruolo, oltre che per svariate parti nel mondo del cinema.

  Mentre attendeva che mi decidessi a parlare, non mi toglieva gli occhi di dosso nemmeno per un secondo. Mi sentivo alla stregua di una preda: insignificante e indifeso.

   «Non so chi sia.»

  Sembrò deluso da quella risposta e la muscolatura tesa si rilassò di poco. Tuttavia, tornò alla carica.

  «Ma dovrai pur ricordare qualcosa!» esclamò, sistemandosi sullo sgabello di ferro.

  Scossi il capo e tastai la pallina di Will che avevo in tasca, come se potesse infondermi coraggio in qualche maniera.

  «Corporatura, altezza, tratti somatici?»

  Non mi mossi, mi limitai a sostenere il suo sguardo. 

  «Nulla di nulla?» insistette, sporgendosi verso di me.

  «Ho preso una forte botta in testa, alcuni ricordi sono oscurati. I medici dicono che c'è la possibilità che non li recuperi mai.»

  Stavo mentendo, ovviamente. Gli eventi di quella notte erano scritti con un pennarello indelebile nella mia memoria e per quanto mi ostinassi a strofinare, non volevano saperne di sbiadire. Ero riuscito a ingannare Abe con la faccenda del poliziotto; cos'era una guardia neanche troppo sveglia contro un Cal Lightman provetto?

  L'ufficiale Clarke storse il naso e si alzò.

  «E va bene. Goditi l'isolamento.»

  E uscì.

  Quella sera mi portarono del brodo per cena, ma non riuscii a mangiarlo. Dopo la conversazione, ogni fibra del mio corpo era in allerta. Ero terrorizzato dall'idea di venir aggredito e ucciso da un momento all'altro, senza che potessi fare qualcosa per impedirlo.

  E, questo, non mi conciliò di certo il sonno. Passai gran parte della notte a bisbigliare alla pallina, implorandola di tirarmi fuori da lì con circa... una settimana di anticipo. Per il resto del tempo restai in uno stato di dormiveglia costante. Sussultavo e mi svegliavo del tutto per ciascun rumore, compresi i naturali scricchiolii del mio letto.

  Continuavo a pensare e ripensare a quello sguardo da cattivo dei film d'azione che mi procurava la pelle d'oca. Sperai vivamente che l'ufficiale Clarke non tornasse a farmi visita, non ero affatto bravo a giocarmela nelle questioni sociali. Era molto più probabile che avrei spifferato l'intera operazione sotto copertura per sbaglio, magari neanche me ne sarei accorto.

  Ma, nonostante ciò, avrei fatto quanto in mio potere per non permetterlo. Ogni secondo confinato in quel carcere era una questione di pura sopravvivenza, un solo passo falso e sarei morto. 

  Promisi a me stesso che non mi sarei arreso finché non avessi rivisto il sole senza delle sbarre a ostruirmi la visuale. Mario e Nolan mi avrebbero reso di nuovo un uomo libero, dovevo solo fidarmi di loro e attendere.

  In fondo, cosa sarebbe potuto andare storto?

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