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53. Un rifugio che non è luogo; tutto fuorché lì

- Non m' importa che la mia terrena sorte
ben poco abbia di terreno in se' -
che anni d' amore cosi' siano cancellati
nell' astio di un momento: -
a me non duole, o cara, che altri infelici,
di me siano piu' felici,
ma che tu abbia a soffrire per il mio destino,
che e' solo quello d' un fuggitivo. 
Edgar Allan Poe.

Josephine

Ho passato tutto il primo giugno in viaggio e metà di oggi a dormire. Dal letto della mia camera si vede bene fuori attraverso il vetro della finestrona a pavimento, e la luce può filtrare perfettamente.

Quindi ho chiuso tutto, ho abbassato la serranda e, finalmente, neanche più le sottili fessurine mi hanno concesso un po' della chiara luce del sole. Basta luce, basta buttarmela in faccia di continuo!

Appena ho capito che le ore diurne erano ormai sparite e ho sentito lo stomaco brontolare sono slittata via dal Blanche: questo quartiere è troppo rumoroso e pieno di vita per me. Considerando l'incredibile vicinanza con Pigalle, il quartiere a luci rosse, c'è movimento costante. Probabilmente, comunque, questo non è il migliore dei periodi per starsene troppo a zonzo. Io vorrei solo rinchiudermi al buio...

Quando passo davanti al Moulin Rouge per arrivare alla fermata della Metro del Blanche, due ragazzi e una ragazza mi fermano indicandomi un locale, e uno di questi mi spiega in un inglese un po' francesizzato che, se fingessi di essere la sua fidanzata, entreremmo gratis nel locale per merito di una di quelle serate in cui, se porti una signora, ti concedono l'ingresso gratuito.

Ovviamente io rifiuto l'offerta e salto in metro; avevo davvero intenzione di prendere la linea 1 e godermi le luci notturne della Champs Elysees, ma alla fine mi ritrovo in un vagone sporco e affollato della linea 4. Ed ora, eccomi qui, a place de Notre Dame, davanti la malinconica e tetra cattedrale, a fissare quei goblin inquietanti e per non so quanto tempo.

Sono totalmente persa in quei visi orrendi e marmorei e lontani da non accorgermi per un pelo della scalinata che mi ritrovo davanti, quella che conduce ai margini del fiume.

Prima di ruzzolare per le scale scendo e mi guardo intorno appurando che, sì, la chiesa, da questa prospettiva laterale, è ancora più splendida. Ma nonostante l'immensa bellezza non so effettivamente perché io mi sia ritrovata qui, questo non sarebbe esattamente il posto in cui sarei voluta essere, in un primo momento. Avrei piuttosto passeggiato in un quartiere meno freddo e triste, senza un fiume francese a farmi venire voglia di buttarmici dentro, dimenticandomi però di come si galleggia.

I miei occhi continuano ovviamente ad essere ingordi di tutta questa stravagante bellezza. E desiderano assorbirne ancora, quindi mi ricordo di possedere un meraviglioso attrezzo attraverso il quale inghiottire attimi e risputarli fuori istantaneamente.

Tengo quindi la polaroid tra le dita per scattare una foto alla cattedrale di Notre Dame, ma niente da fare; io già sto sognando il Sacre Coeur e la Tour Eiffel. Sono capace persino di staccare la testa pure dove sto in pace.

Comunque questa foto fa schifo, luce e nitidezza sono molto discutibili. Mi dovrei davvero impegnare e imparare a maneggiare questo complesso attrezzo. Vorrei rassegnarmi all'idea del mio scarso risultato da fotografa improvvisata, ma sono cocciuta; voglio riprovarci.

Adesso la fotocamera punta l'obiettivo verso il mio viso, così scatto, cercando di inquadrare anche la Senna sul retro e alcune di quelle bellissime riproduzioni parigine distribuite lungo il muretto.

Il dito intruppa; non ho premuto bene – riprovo. Sorrido e scatto.

Quando guardo la foto sorrido di nuovo e mi congratulo con me stessa mentalmente, perché dài, sul serio? Mi sto preoccupando della mia avversità nei confronti della tecnologia piuttosto che di lui. Non sto pensando alla mia migliore amica. A mia madre, a mio fratello e a tutto quello che ho lasciato alle mie spalle, tornando ancora qui.

Sono stati quelli più incasinati della mia vita questi ultimi tre anni! E questo è uno di quei casi in cui mio fratello mi sorriderebbe, Cleo mi abbraccerebbe, lui mi direbbe che devo spiegare le mie ali stropicciate, mentre io – sciocca e stupida – semplicemente caccerei fuori qualche cliché scadente, del tipo che ognuno è artefice del proprio destino. O merda simile.

Che poi, beh, probabilmente aggiungerei pure che, per quegli errori, se ne paga il salato prezzo, con tanto di interessi.

Questo fardello è il mio duro prezzo da pagare per non essermi fidata di Harry e per aver lasciato che tutte le mie paure mi tormentassero, e infatti ecco che mi ritrovo di nuovo nel giorno del mio compleanno, ancora da sola e lontana da casa. Celebrerò un altro anno di vecchiaia in viaggio; questa volta è il mio ventunesimo però, e i diciotto – l'anno in cui ero partita – sono ormai lontani, ma i ricordi bruciano come un colpo su una ferita ancora fresca.

I miei occhi studiano ancora un po' la Senna per poterne assorbire tutta la sua meraviglia, ancora una volta, prima di adocchiare la stazione della metro, ma il mio cuore perde un battito - forse due. Tre, quattro, cinque... - quando il mio telefono inizia a squillare impazzito, irrompendo nel silenzio della silenziosa nottata parigina.

Harry, ci sta scritto sul display.

"Porca puttana" dico. Sembro pazza che parlo da sola, eh?

Una mano sul viso e poi cedo sulle mie stesse ginocchia. E ci rimango pure, lì per terra. I sampietrini sono spigolosi ma io le rotule fracassarcisi contro non le sento proprio.

E' che non sono pronta.

Con un improvviso slancio di coraggio, raccolgo tutte quelle che penso siano le mie forze e scaglio il piccolo dispositivo nell'acqua del fiume.

Questo mi riporta a qualche anno addietro, ma in un'altra splendida città inglese: sto rivivendo un nitido déjà-vu. Un dolorosissimo déjà-vu.

Cristo santo! Dentro di me so che non ne uscirò mai, da questo ciclo infinito di fughe, anche se sono esasperata e stanca di scappare.

Mi ci voleva la chiamata di Harry per mettermici a riflettere su questa merda? Perché davvero, fino ad ora mi ero ripromessa di non farlo. Di fingere e soltanto fingere che niente finora mi avesse ferita, e che nessuno mi avesse obbligata ad abbandonare nuovamente tutto.

Mi lascio alle spalle la Senna ciondolando su me stessa in una camminata che dice "Ho gettato via il mio telefono, 'sta volta nell'acqua. L'ultima volta in un cestino pubblico". Percorro quei venti minuti che mi separano dalla doccia; arrivo al bellissimo hotel che porta il mio nome e che, ironia della sorte, affianca proprio il mio posto preferito al mondo. Saluto la recepcionista e corro in camera per godermi l'acqua calda a farmi pressione sulla pelle e a lenirmi i pensieri e le preoccupazioni.

Cerco di asciugarmi alla meno peggio e crollo sul letto. Mi addormento, ma non mi accorgo di svegliarmi dopo poco. Ma in realtà è solo un'irritante sensazione, come se il tempo corresse troppo svelto per me, come se io non riuscissi neanche a riposare; ormai è giorno e la luce mi dà fastidio agli occhi. Basta buttarmi addosso spiragli luminosi!

Esasperata, mi faccio coraggio per affrontare la giornata: oggi sono il solito disastro da – dopo ieri – ventuno anni.

E' il tre giugno, che bello.

Scrollo via il sonno che in realtà non mi sembra di aver appena interrotto e mi avvicino alla borsa per rimediare una sigaretta, ieri sera l'ho gettata accanto alla porta. La roba si è rovesciata all'esterno.

E tutto lì, sul pavimento, che copre un po' della linea di luce che filtra da sotto la stretta fessura della porta. Vedo solo spiragli di luce? No, sotto la fessura, sotto la porta in attesa di essere raccolta, c'è qualcosa. Se è roba mia, stava cercando di sfuggirmi via, perché è più fuori che dentro. Se non è roba mia, allora non è lì per caso.

E' un angolino bianco. Un pezzo di carta.

Subito dopo sento un sospiro forte provenire da fuori la porta.

E ho paura: ho paura di scoprire cosa sia quel foglio, ma quando lo prendo, abbassandomi per tirarlo via dal pavimento, riesco a scorgere il suono di un movimento appena fuori la porta: il mio cuore si tuffa nel vuoto.

Apro il foglio. Non posso crederci, non posso crederci che esista ancora.

Non posso semplicemente crederci.

Harry

Più di dieci ore di volo e due fottute ore di taxi dall'aeroporto fino ad arrivare a Parigi. E poi ci sono sei ore ad andare oltre la mia tempistica americana. Quindi, che cazzo di ore sono?

So solo di aver passato un'intera giornata in viaggio e di essere arrivato qui, e mi sembrava di stare a scappare dalle ore diurne. Che brutta impressione.

Sono stato troppo stanco, a pezzi tutto il tempo per riuscire a fare un calcolo dell'ora esatta in cui sarei arrivato qui; so solo che ora sono le nove inoltrate del mattino e che, quindi, io non ho dormito un cazzo. Inoltre tutte le mie energie intellettive le ho usate e spremute fin l'ultima goccia per scervellarmi su dove Josephine fottutamente si trovasse, ma non è stato poi troppo difficile farlo. Bastava solo tenere a mente alcuni dei dettagli che ha sparpagliato a caso, dei piccoli indizi attraverso la lettera indirizzata a Cleo.

Montmartre, posto preferito, hotel speciale in quei pressi. Hotel speciale, aggiungerei, che porta con sé qualcosa che la lega a lei, in prima persona.

Mi sono impazzito a cercare l'enigma, ma alla fine ce l'ho fatta: ho cercato su internet alberghi a tutto spiano nei tre quartieri circostanti a Montmartre... per poi scoprire che, al Blanche, si trova l'hotel Joséphine, e lei è così remissiva e fissata col destino che probabilmente le sarebbe risultato difficile non rifugiarsi lì, quando ancora adolescente si è ritrovata a scappare via da New Orleans. Troppo legata a queste stronzate delle coincidenze (non a caso la prima domanda che mi fece fu se credessi nel colpo di fulmine) per non alloggiarvi. Nella lettera per Cleo spiegava che sarebbe ritornata allo stesso hotel che scelse non appena arrivò a Parigi.

Non è stato difficile neanche persuadere la giovane recepsionista e ottenere il numero della sua stanza. Io, comunque, malgrado la stanchezza, ho fatto un salto di gioia che non ho saputo trattenere, quando la donna mi ha assicurato che lei alloggiasse lì, mentre cercava Josephine Horan nel suo PC per il numero della stanza.

Ciò che mi sembra più complicato, in ogni caso, è tollerare lo scorrere del tempo. Sono qui fuori, seduto sul pavimento del corridoio a fissare questa maledetta porta. Tutto questo da circa quaranta minuti.

Il fatto è che non ho avuto esattamente la giusta dose di energie e temperanza per bussare alla porta e poi attendere che Josephine venisse ad aprirmi.

Ho anche fame e devo pisciare.

Ma non ho esitato, per tutto il tempo, a stropicciarmi un po' più forte gli occhi e ad appoggiarmi con la testa al muro, lottando contro il sonno per rimanere sveglio e per far scivolare in quella fessura sotto la porta il cazzo di ritratto del viso di Joss, per cercare di attirare in qualche modo la sua attenzione... ma forse sta ancora dormendo.

Sto ignorando gli sguardi indagatori di alcuni dei clienti dell'hotel che scendono nella hall per fare la prima colazione e, appena scorgo dei leggeri rumori provenire dall'interno della camera, comincio ad agitarmi un po'.

Doveva svegliarsi, che prima o poi l'orario per il buffet sarà terminato e lei non è capace di stare senza mangiare dolciumi.

Comunque, resto in attesa. Una lunghissima attesa che consiste in flebili suoni di sospiri sommessi, probabili lacrime e il fruscio della carta che viene stesa.

E poi la porta si apre. E Josephine è lì. Scompigliata e con il viso rigato di pianto, ma si vedono anche le lacrime che ha versato ieri e probabilmente tutta questa notte attraverso i suoi occhi gonfi e rossi. La sua pelle intorno alle palpebre sembra essere improvvisamente più fragile, come se il sale delle sue lacrime l'avesse consumata un po'.

Ma questa è solo un'impressione che mi sta imponendo il mio cervello stanco, condizionato anche dal fatto che lei, ora, sembra irriconoscibile. Non riesco a far altro se non pensare che, questa versione di Josephine, non rende giustizia alla sua bellezza.

Il ciondolo – il mio ciondolo – appeso al suo collo, cattura i miei occhi per qualche istante, ma devo tornare a guardarle il viso che mi fa infuriare e soffrire contemporaneamente.

"Io scappo e tu mi segui, non è così che funziona. Non è un film, Harry. E poi come cazzo hai fatto a trovarmi."

"Stai zitta, smettila. Volevo venirti a dire di persona di quanto mi hai deluso. Tutto qui." Conservo un po' di tutto l'amore che nutro per lei in quell'espressione di disgusto che mi viene fuori, altrimenti i sensi di colpa mi si mangerebbero vivo.

Lei incassa quelle parole come non ha mai fatto: con un sorriso. Un sorriso che trasmette tutto fuorché la tranquillità, ma ci prova a sorridere. Un sorriso per nascondersi altre lacrime tutte per sé, in quegli occhi troppo chiari, ora. Troppo azzurro cielo sereno; lei è blu notte.

"Ti faccio schifo, ce l'hai scritto in faccia Harry." La voce sottile e gli occhi ingigantiti dal gonfiore che riportano la sua sofferenza.

"Se sei così, sì. Mi fai schifo. Pensavo fossi cambiata." La mia voce è amara mentre pronuncio le parole che probabilmente non vorrebbe mai e poi mai sentire. E soprattutto che, per quanto io possa essere profondamente deluso da lei, non potrebbero mai rappresentare la verità. Non potrei mai provare disgusto per l'unica persona che amo tanto – da farmi accantonare tutte le cascate di lacrime che vorrei espressamente strillare via in forti e strazianti grida – e venire qui a riprendermela, malgrado tutto, partendo per Parigi con un volo last minute, sottoponendomi a un intensiva dose di jet lag, solo per cercare di darle una smossa che probabilmente risulterà inutile. Che già lo vedo, il muso duro che ha messo. Sembra non volerne sapere di niente e di nessuno, se non del suo odio per il mondo e per se stessa.

Non so per quanto Harry sia in grado di resistere a questo, però. Non so se questo amore che continuo a sostenere con tanta convinzione di provare, sia così ostinato. Tanto determinato da poter colmare le lacune che i combattimenti contro se stessa le lasciano.

"E allora, ciao Harry, tornate a New Orleans. Non dovevi fare tutta questa strada per farmi sapere che ti faccio schifo. Siamo in due a schifarmi, comunque."

La sua voce accompagna la porta mentre si chiude – che lei chiude – ma io la blocco con un braccio. Facilmente entro nella stanza, neanche lotta per impedirmelo. Nemmeno con la porta, che mi chiudo alle spalle.

"Ti ho portato il ritratto, Joss, c'è una storia dietro a quello." Inizio così, provando a introdurre anche la parte del discorso in cui cerco di farla ragionare. "La vedi la data?"

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"Certo che la vedo." Apatia inquietante le rapisce i lineamenti.

"E' segnata lì perché ho iniziato a sagomare i tuoi occhi su quel cazzo di foglio sgualcito quella fottuta mattina del tre giugno 2013, mi trovavo sull'aereo per tornare a New Orleans ed è successo subito dopo averti incontrata quella stessa notte. Quando ti incontrai era la notte tra il due e il tre giugno: mi dissi "Ieri era il mio compleanno", ma io segnai ugualmente questa data, perché io e te ci siamo incontrati a mezzanotte inoltrata. Louis e Liam sul volo per New Orleans del tre giungo 2013, a cazzeggiare e a dormire, mentre io, il povero coglione stronzo e con gli stimoli repressi, provavo a ritrarre te!" Prendo un respiro, ingoio aria che spero possa tramutarsi in altro coraggio da dedicare a lei.

"E' proprio stupendo. Davvero. Ma non ha alcun significato ora, eri solo un'artista stralunato che aveva visto una ragazza bizzarra e ubriaca che urlava di avere finalmente compiuto diciotto anni. Che stupida. E poi, probabilmente, il volo ti annoiava terribilmente." L'apatia le rende gli occhi vuoti. Riempiti di niente, solo del suo blu sbiadito dalle lacrime.

Il merdoso disegno potrebbe andare in autocombustione in questo esatto momento, non m'importerebbe nulla. Vorrei solo la mia vecchia Joss.

Dopo un'interminabile pausa completamente priva pure di ogni più flebile rumore, stringo i pugni e cerco altre parole.

"Ho visto l'iscrizione, Josephine. Ho visto che ne hai pagato ormai la metà. Non avresti dovuto farlo. Perché l'hai fatto?"

"Te lo meriti, fanne buon uso." Fissa ancora il nulla senza emettere un movimento, col corpo assestato lì, ma tanto per. Ha l'aria di una bambola rotta e poi rimontata malamente.

"Perché l'hai fatto, ti ho chiesto" pretendo.

"Devi fare la tua strada e quello ti aiuterà. Ti aprirà nuovi sbocchi e ti stimolerà. E tu sarai finalmente padrone del tuo talento. Non so cosa darò io, ma so che tu sei l'uomo che amo e ti conosco in profondità. So cosa vuoi, so che l'hai sempre desiderato e vorrei davvero che tu lo facessi." A quel punto, sospira e mi guarda, concedendomi un po' dell'amore che lei nutre per me. Ma posso scorgerne solamente un filino in trasparenza nei suoi occhi.

Non so cosa provare, a proposito di questo.

"Ho bisogno di baciarti" dice poi, affondando il viso nelle sue mani. "Ho bisogno di sapere che non mi ripudi." I singhiozzi le spezzano la voce e io...

E io l'amo.

La amo cazzo e quindi corro da lei mentre si raggomitola nelle lenzuola. Che stronzo, ci corro in un attimo da lei, io.

Lei farebbe lo stesso, per me? Correrebbe più forte, per me? Da me?

"Sono talmente innamorato di te e di tutto ciò che ti riguarda da non riuscire neanche a starmene fermo a casa, se mi abbandoni. Come pensi potrei mai ripudiarti, angelo?"

Le sue lacrime rumorose cominciano a interrompere ogni manciata di secondi, niente più silenzio ora, tanto ci stavamo affogando in tutto questa assenza di suoni.

"Harry." Sta singhiozzando. "Sono volata via per davvero, alla fine. Hai visto? Però non posso tenerti con me, come ti avevo detto. Non voglio che tu sia qui con me. Sono perdutamente innamorata di te. E infatti mi sono persa. Mi sono perduta, e se tu provi lo stesso come davvero dici, io non sono capace a farmi trovare. Non sono capace di farmi amare. Non l'ho mai fatto, sono solo andata via, come sempre."

Joss alza il viso su di me, per guardarmi negli occhi.

"Quindi adesso vattene."

E il cuore mi crolla in fondo al petto, troppo nei meandri delle budella per essere recuperato e assestato.

"Va' via, Harry. Ci torno in America, non è che mi metto a viver qui. Ma ora ho bisogno di respirare."

Lei dice di aver bisogno di respirare lontano da me, quando io per vivere ho soltanto bisogno di respirare lei.

"Sai? Io vorrei davvero poterti capire, ma non ci riesco. Mi stai cacciando quando sei perfettamente consapevole di essere fatta di carne e ossa e organi, e di aver bisogno di me e della tua famiglia. Ma, sai cosa? Me ne vado davvero. A costo di farmi esplodere i timpani per tutte queste ore di volo consecutive, me ne vado. Ora."

Mi alzo di scatto. Neanche l'ho abbracciata o baciata o sfiorata e neanche ho pronunciato quelle due paroline che vorrei urlare a tutta Parigi. Ma io non ce la faccio così, non reggo tutto questo.

E poi me ne vado sul serio, da lì. Ma prima di chiudermi la porta alle spalle le lascio quella vecchia foto che sua madre mi ha dato e mi ha chiesto, in preda alle lacrime di disperazione e delusione, di farle avere.

E' una foto di una Josephine un po' imbronciata. Nelle manine tiene una maschera di Spider Man, è riccioluta e distratta. Un po' scompigliata, come se la maschera se la fosse appena sfilata dal visino. Aveva appena qualche anno di vita, forse sei; c'è una data sbiadita segnata sul retro della fotografia appena sotto le parole con la calligrafia di Kate in un vivido nero:

"Josephine, stai distruggendo ciò che resta di me"

Quando la nota sul materasso a fianco a sé e se la rigira fra le dita io mi sto già chiudendo la porta alle spalle.

Dopo pochi secondi in cui mi trovo fuori la stanza uno strillo gutturale e pieno di sofferenza riesce ad oltrepassare tutte le mura dell'albergo, ma solo io riesco a sentire il suono del cartoncino duro di quella foto andare in pezzi.

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