8 - Prove generali
Erano le venti e zero cinque di quel lungo venerdì di giugno e secondo il suo dettagliato programma avrebbe dovuto trovarsi in stazione già da un paio d'ore, invece non solo era in ritardo ma era anche nella stazione sbagliata; era al capolinea.
Quel sonno da bambina che l'aveva accompagnata fin lì la rendeva felice, l'aveva condotta lontana da ogni patema, rendendola rilassata, soave, immersa nei sogni più innocenti. Ora stava recitando, era il suo ruolo, quello per cui si era preparata per settimane. La sala era gremita, c'era gente anche dove non avrebbe dovuto esserci. Più lei recitava più la gente si accalcava, silenziosa, rapita dal suo estro. Improvvisò. Abbandonò ogni copione trasportata dal suo carisma. Anche il brusio che s'era avvertito al cambiar di quella rotta rimase basito dalla sua bravura, rimanendo sospeso a mezz'aria. Pubblico, attori, comparse e regista, pesino i tecnici dietro le quinte, tutti a bocca aperta prigionieri dalla sua forza dirompente. Non era più un' opera, era un evento. Pura magia concentrata su quel piccolo e polveroso palco. Lei era esplosiva, travolgente, leggera come una fata. Tutti gli occhi coordinati su di lei. Centinaia, migliaia, milioni di sguardi fissi, ammutoliti che ruotavano silenziosi e coordinati. Uno spettacolo nello spettacolo. Volò sul palco alzando tutte le teste all'unisono, anche le corde che la reggevano in quei movimenti erano fluide e leggere, i tecnici che le manovravano erano rapiti anch'essi, tanto da non avvedersi che le corde danzavano da sole.
«Signora... signora? Siamo al capolinea!»
Un volo di sei metri. Un tonfo.
«Si sta svegliando» disse una flebile voce dall'aldilà.
Pamela aprì un occhio, il sinistro, per spiare quel brutto mondo, lo richiuse, serratamente, subito. Quella scena rimase impressa sulla sua retina: un faccione col cappello da tranviere e un pubblico curioso appollaiato alle sue spalle. Ma che brutto che era! E chi era? Che voleva? Aprì l'altro occhio, il destro, per accertarsi che il sinistro non avesse barato. Il faccione era ancora lì! Oddio! Ma che vuole questo qui? Strinse entrambi gli occhi sperando di riuscire a sparire ma questo non successe anzi, la situazione peggiorava, adesso sentiva anche le voci.
«Come scappo?» pensò. «Se faccio finta di dormire magari se ne vanno... Mo mi alzo e me ne vado...» Ma il corpo non reagì.
«Signora sta bene?»
«Siamo al capolinea»
«Vuole un sorso d'acqua?»
«Come si chiama?»
«Signora? Signora?»
«Deve scendere, siamo al capolinea.»
«Vuole che chiami qualcuno?»
«Signora? Signora?»
«Vuole un sorso d'acqua?»
«STOOOBEEEEEENEEEEEEE!!!!» urlò lei con voce stridula spalancando gli occhi e ammutolendo quella improvvisata platea.
«Sto bene» ripetè con tono più lieve ma con gli occhi sempre sgranati. Arricciò la bocca all'ingiù scrutando, quasi in modo casuale, da destra a sinistra tutti i personaggi che la circondavano. Erano ancora impietriti.
«Ma che brutti che sono» - pensò - «Cosa vogliono da me?»
«Signora siamo al capolinea, deve scendere. Se la sente?» disse con voce vellutata l'anziano e rugoso capotreno.
«Un attimo! Quanta fretta!» Rispose lei con tono deciso. «Andate via! Sciò! Sciò!»
«Fate largo» ripetè il capotreno voltandosi verso il collega controllore e l'unico passeggero accorso in aiuto. Erano loro gli ultimi rimasti nell'intero treno, altro che folla o platea!
Pamela si copri il volto con entrambi i palmi e si lanciò in un profondo e immenso sbadiglio a mo' di urlo silenzioso. Dai che forse si stava riprendendo.
«Che ore sono?» chiese.
«Le otto e un quarto» rispose il controllore.
Pamela annuì, ma non capì la gravità di quella risposta. Allontanò le mani dal volto e, con entrambe, raccolse la borsa che l'accompagnava sul sedile di fianco fino a posarla sulle ginocchia. Fece un paio di grossi sospiri.
«Siamo al capolinea.» ripetè il capotreno ormai nauseabondo «Deve scendere.»
Dalla porta spalancata, alla destra di Pamela, rientrò il passeggero di prima, che per un attimo era sparito. Era andato a recuperare una bottiglietta d'acqua in quella stazione di periferia ormai deserta.
«Signora prenda, beva un sorso, si sentirà meglio...» disse con tono rassicurante e modi gentili l'anonimo passeggero.
Pamela non voleva bere ma quel garbo e quei modi ossequiosi la riportarono al centro della scena di pochi attimi prima.
«Grazie signore.» Disse con tono garbato. Prese con mano moscia la bottiglietta e bevve goffamente qualche goccia. «Grazie signore.» ripetè restituendo quella preziosa fonte di freschezza.
Il capotreno, impaziente, allungò la mano in direzione della corpulenta signora. Un vano tentativo di istigarla ad andarsene. Pamela non reagì e ammiccando al passeggero si fece porgere nuovamente quella goduria.
«Beva, beva ancora, le farà bene», disse il cavalleresco tizio porgendole la bottiglia.
Pamela non si fece pregare, afferrò la bottiglietta e bevve a canna come reduce da un traversata del deserto più arido. Bevve uno, due, tre profondi sorsi, fin quasi a sbriciolare la bottiglia di plastica ormai mezza vuota, poi a stento trattenne un rutto nel ringraziare con un leggero inchino del capo l'impavido cavaliere. Allungò la bottiglia nella sua direzione e quando questi alzò il braccio per raccogliere, Pamela, come fosse un dispetto, la trasse via riportandola bruscamente verso il petto. Il cavaliere si arrese sorridendo. Come poteva privarsi di quella fresca goduria?
Sollevò la bottiglia passandosela sulla guancia e quindi più sù fino alla tempia destra a rinfrescare il rosso cocuzzolo. Sollievo.
Decise che era il momento di scendere, ma decise di farlo da sola, senza l'aiuto di nessuno. Anche se corpulenta era molto agile, nonostante il braccio destro ancora profondamente dolorante per la caduta del pomeriggio.
Si alzò, scortata dall'apprensione dei signori presenti, scese dalla carrozza e si avviò verso l'ampio atrio della stazione.
Non era tardi, ma per quella piccola stazione di capolinea era quasi ora di chiusura. Infondo all'atrio un uomo sulla quarantina con grossi baffi a manubrio ad attenderla.
Pamela camminava lenta, piccoli passi. Ancora non si rendeva conto di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il capotreno e il controllore, accertatisi che la donna era in grado di camminare da sola l'avevano abbandonata da tempo. Il signor cavaliere, invece, la seguiva da vicino, rallentando ai sui rallentamenti, quasi a scortarla alla giusta distanza.
Pamela cominciava ad avvertire che qualcosa non tornava, ma era ancora troppo lontana dal rendersene conto. Ancora pochi passi...
«Buonasera signora Pamela...» disse l'uomo coi baffi «la stavo aspettando.»
Pamela non era sorpresa, tutt'altro. Porse il braccio destro, come a comandare al nuovo cavaliere il sostegno per quella camminata. Sostegno che arrivò immediatamente, condito di generoso sorriso.
«Mi sembrano ieri i giorni delle Leopard Girls» disse l'uomo.
Istantaneamente Pamela scese da quel mondo ovattato in cui si trovava per immergersi con piena coscienza nella realtà più vera. Come diamine faceva quell'uomo sconosciuto a sapere delle Leopard Girls? Nemmeno lei ricordava più l'epoca delle Leopard Girls. Fu un vero shock, come ringiovanire di vent'anni e più in meno di un secondo! Potere di sette parole, potere di Rox che scardinava violentemente la memoria di quella signora di mezza età.
L'uomo scocchiò le dita e attaccò: «du du du, dududu du, du du du...", la donna si aggregò e in coro continuò: "du du, du du, du du du, dududu...» agitando le dita come a suonare un basso immaginario. La memoria volò via, in un viaggio nel tempo istantaneo lungo ventitré anni.
Pamela suonava in una band di sole ragazze, suonavano rock e non erano niente male. Lei era al basso, era brava e teneva il tempo meglio di qualsiasi metronomo, poi c'era Gabriella alla chitarra, una vera rocker, Susy alla batteria e Cinzia alla voce. Forse era proprio Cinzia l'anello debole ma era anche la leader e la fondatrice; probabilmente, fu proprio questo il motivo dello scioglimento del gruppo. Peccato perché loro erano davvero brave! In quell'attimo di ricordi le venne in mente l'ultimo concerto della loro breve storia. Il concerto di fine anno tenuto nella palestra del liceo, il luogo più ampio, ma decisamente insufficiente, per contenere tutti i ragazzi che volevano assistere. Fu quasi cinquanta chili fa. Pensò che infondo era proprio una bella ragazza in quei giorni lontani e che era un peccato averlo sempre negato.
I ricordi erano così vivi e reali che risentiva le stesse emozioni di quella serata, sentiva il profumo, gli odori di sudore e di fumo, l'atmosfera e l'adrenalina del palco. Ricordò anche il volto di Rox! Era l'uomo ai lati del palco, impassibile per quasi tutta la durata del concerto, stessi baffi stessa espressione, stesso ghigno. Si fermò un attimo a riflettere e si rese conto che i suoi ricordi erano viziati. Non poteva esser lui, non ne portava i segni del tempo, eppure, un senso di dèjàvu la lasciava insoddisfatta. Che dèjàvu, che botta!
Fu lo stesso Rox a interrompere quel momento e a riportare Pamela al presente, e lo fece a suo modo, con violenta discrezione e precisione chirurgica.
«Prego, l'accompagno dal"avvocato...» disse con un inchino rivolto verso il piccolo viale antistante, quasi a indicare in lontananza la sua moto. Pamela era ancora troppo presa da quegli eventi e soprattutto troppo distratta da quei ricordi per accorgersi della moto, con annesso sidecar, in attesa di loro poche decine di metri più avanti.
Ora aveva un passo più stabile e deciso, si sentiva giovane, agile e piena di ritmo. Continuava a sfogliare l'album dei ricordi; che tempi! Pensava anche alle ragazze del gruppo, erano anni che non le vedeva e tanto meno pensava. Chissà cosa facevo oggi...
Arrivati alla moto, Rox aprì il piccolo sportellino del rosso sidecar e con un inchino invitò la bassista ad accomodarsi. Se solo Pamela fosse stata più cosciente mai e poi mai si sarebbe avvicinata a quella moto, ma in quelle condizione, rapita da ricordi così lontani e ora di colpo così presenti e reali, non solo si avvicinò, ma salì nel piccolo vano sidecar e si adagiò sullo stretto sedile con grazia d'altri tempi.
Rox chiuse delicatamente lo sportello, circumnavigò il mezzo, salì a cavalcioni sulla sella e passò la piccola scodella alla nuova compagna di viaggio. Pamela indossò il caschetto e lasciando la cinghietta di sicurezza slacciata fece un cenno al capitano: pronta! Un colpo di pedalino una leggera accelerata e i due si allontanarono accompagnati dal cupo rombo del motore. In disparte, solitario e sempre più lontano, confuso tra le ombre e i flebili raggi dei lampioni, rimase il signor cavaliere con ancora in mano una stropicciata bottiglietta d'acqua. Rimase così, immobile, fino a veder scomparire, inghiottite dal buio, le due lucine rosse che inseguivano l'unico rumore della serata.
Pamela socchiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dalla memoria di quei giorni felici. Era come volare nel tempo, accarezzata dal vento dei ricordi. Il rumore della moto lentamente sparì lasciando spazio al fruscìo dell'aria, un sibilo silenzioso che accompagnava le memorie di Pamela. Attimi eterni.
L'aria che la sosteneva in quel viaggio senza tempo cedette il passo al rumore del motore, più il vento si affievoliva, più il rombo la riportava al presente. Rox rallentò fino a spegnere il motore, lasciando che l'inerzia completasse gli ultimi metri di quel tragitto. Erano arrivati a destinazione.
Rox, giocando con lo scorrere del tempo come solo lui poteva, aveva portato a termine il suo compito con successo. Prese il caschetto che Pamela gli porgeva e dopo averlo sistemato come era solito fare, sul manubrio, scese dal mezzo per fare un mezzo giro intorno, poi aprì il vano del sidecar per agevolare la discesa. Pamela intanto attendeva rilassata, appagata da quel breve ma intenso viaggio, appariva quasi ringiovanita, di sicuro non sembrava acciaccata o provata dall'esperienza traumatica del pomeriggio. Rox, con il suo fare cavalleresco le porse la mano mentre alle sue spalle l'insegna luminosa "teatro comunale Splendor" mostrava, senza vergogna, l'incuria della periferia. Erano le 18:30, lo chiamava timestretching.
Rox l'aveva imparato quasi per caso pochi anni dopo il suo arrivo in città. Era il solo a padroneggiare quella tecnica e non l'aveva ancora condivisa con nessuno: l'arte di dilatare o comprimere il tempo senza condizionare gli eventi collaterali era una sua intima invenzione. Il segreto era creare due bolle temporali distinte e poi convergerle in un unico spazio. In questo modo era riuscito a comprimere le due ore e qualche minuto di ritardo di Pamela riportandola quasi in orario per le prove generali. Un giochetto per lui, una novità per i suoi simili, un assurdità per tutti gli altri.
Dopo aver accompagnato la donna fino ai primi gradini posti fuori all'ingresso del teatro, Rox si fermò e attese fino a vederla scomparire dietro la porta. Un sospiro dì sollievo, un sorriso verso un furgone nero dai vetri oscurati che attendeva parcheggiato nei pressi della moto. Rox ripercorse i suoi passi precedenti fino a risalire sul sidecar e avviarsi in direzione della città. Da li a poco si sarebbe recato al The Rocker per la consueta bevuta del venerdì sera.
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