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The prisoner

Russell

La morte di Javier mi lasciò stordito: era come se ci fossi finito io, sotto quelle macerie. A volte dovevo interrompere il lavoro perché sentivo le orecchie che mi fischiavano e la vista sfocava... E avevo notato che non ero l'unico, nella squadra, a poggiare il piccone e ad osservare con la coda dell'occhio il posto vuoto tra Chuck e Jacob.
Con il passare dei giorni e la galleria ormai terminata, ci preparammo a spostare il campo oltre quel primo picco: in breve tempo saremmo scesi nel bacino del Grande Lago Salato e ne ero sollevato, perché istintivamente sapevo che quelle montagne scure ed imponenti erano un luogo insidioso sotto molti punti di vista. Fu mentre aiutavo Ayasha a caricare i cavalli che ebbi per la prima volta la sensazione di essere osservato: durò un attimo, ma fu abbastanza forte da indurmi a voltare la testa verso gli alberi del bosco.
Nei giorni seguenti la fitta sulla nuca si fece sentire più volte ed io divenni irrequieto e paranoico: vedevo pericoli in ogni ombra, agguati dietro ogni angolo e avevo insistito affinché Namid riprendesse ad allenarsi con la pistola.

Agli occhi dei miei amici sembravo pazzo e Namid stessa una sera mi disse, seria in volto:
«Io lo so chi cerchi, quando guardi indietro.»

«Ah sì?»

«Sì, lo so che cerchi Javier, che ti aspetti che spunti da un momento all'altro dalla curva del sentiero, gridando di aspettarlo perché è rimasto indietro...»

Aggrottai la fronte:
«Ti sbagli, Namid: sono sicuro che qualcuno ci segua e ci spii... Ma non vado a caccia di fantasmi. Non credo negli spiriti, io.»

La mia risposta sgarbata sembrò ferirla e le impose di non chiedermi oltre, ma il suo sguardo sospettoso e preoccupato continuò a seguirmi anche mentre lavoravo.

«Tutta questa situazione non mi piace.» sbottai un giorno ad Abraham, mentre esaminavamo altri candelotti di dinamite.

«Cosa, esattamente, non ti piace di questa situazione, Russell? L'aria che si respira al campo o le tue fantomatiche spie?»

«Il mio istinto non mi ha mai tradito!» ringhiai. «Qualcuno ci segue, lo so, lo sento! Ma anche restare qui è difficile... Ayasha si spegne di giorno in giorno e il rapporto con Namid è peggiorato dopo la morte del ragazzo, sembra che questa società di colpo le risulti intollerabile! Neanche Annabeth è riuscita a risollevarle il morale! Rachel ti ha detto niente?»

Abe si guardò intorno con fare circospetto prima di parlare:
«Sono alcuni giorni che non la vedo, credo stia male... Sai, l'indisposizione delle donne: debolezza, languore, irascibilità... No, no, meglio starle lontano!»

Mi fermai:
«Sei sicuro che la signora Rachel sia semplicemente in quel periodo del mese?»

«Certo, perché?»

Mi grattai la testa, confuso:
«Perché io l'ho vista uscire dalla tenda del dottor Thompson non più di un'ora fa.»

«Gli sarà andata a chiedere una dose di laudano in caso i dolori si facciano troppo forti.»

«Il dottor Thompson non è certo il tipo di medico che regala dosi del suo prezioso laudano a tutte le donne indisposte del campo!»

«E allora avrà avuto da lavorare!» sbottò il nero, irritato più dalle mie insinuazioni che dall'idea che Rachel fosse andata a letto con un altro uomo. Del resto, era il suo lavoro.

«Cristo, Abraham, neanche il più disperato di questi relitti toccherebbe una donna in quelle condizioni, è... Disgustoso!»

«Senti, Rachel sta benissimo!» ruggì il mio amico. «Dove vuoi andare a parare?»

«Hai preso in considerazione l'idea che possa essere incinta?» continuai, imperterrito, afferrando la maniglia della cassa di dinamite.

Abraham sbarrò gli occhi:
«No, io... Io ci sto attento. Non voglio rovinarle la vita, io...»

«Stare attenti non basta, Abe. Io proverei a parlarle. Seriamente, questa volta: mettila alle strette, vedi cosa ne esce. Un consiglio da amico: un vostro eventuale figlio sarebbe condannato e voi con lui, perciò se è veramente incinta, fai in modo che quel bambino non veda mai la luce del sole.»

•••

Ero seduto con Namid su un masso ed osservavamo il maestoso paesaggio che si estendeva davanti a noi: le montagne si diradavano fino a diventare dolci pendii coperti dalla vegetazione e la superficie piatta del lago ai nostri piedi rendeva l'orizzonte una linea scintillante. In silenzio, stretti l'una all'altro, ci godevamo quel momento di intimità che nella confusione del campo ci era spesso precluso; mi sentivo strano mentre le accarezzavo la guancia, perché non mi ero mai considerato un uomo capace di tanta dolcezza. E credo che anche la ragazza, quando la portai per la prima volta in quell'angolo nascosto, rimase sorpresa dalla mia aria rilassata e dall'attenzione che avevo nei suoi confronti.
La verità era che l'amavo in una maniera che non avrei mai creduto possibile: Namid era diventata in poco tempo il centro della mia vita, altrimenti vuota, e per lei mi ero sforzato di mitigare il mio carattere. Vivere con i Cheyenne mi aveva dato gli strumenti per comprenderla e la freddezza che aveva iniziato a mostrare nei miei confronti mi aveva spinto a coltivare la passione istintiva ed incosciente che provava nei miei confronti.

«Sposami, Namid.» mormorai ad un tratto, tenendo gli occhi fissi sul tramonto.

La ragazza alzò il capo di scatto:
«Dici sul serio?»

«Sì.»

«Ma... Perché? Io ti amo e tu mi ami... Non basta questo?»

Cambiai posizione in modo da poterla guardare facilmente in viso:
"Credevo che bastasse, sì. E la vita che conduciamo, così precaria e sempre in movimento, ci ha spinto a vivere alla giornata, senza preoccuparci del domani. Ma prima o poi questa ferrovia finirà e ci dovremo fermare da qualche parte: io cercherò un nuovo lavoro e vedrò di mantenerti... Voglio una famiglia con te, Namid, voglio dei figli, una casa vera, voglio essere legato a te per tutto il resto della mia vita.»

Le iridi azzurre di Namid si spalancarono e io vi lessi commozione ma anche tanta paura e reticenza: sembrava terrorizzata all'idea di dover pensare al futuro e al pensiero di doversi fermare stabilmente in un luogo. Sapere che nonostante tutto il conflitto tra le sue due identità non era ancora sopito fu un duro colpo per me: non avevo nient'altro da offrirle se non me stesso e un mondo frenetico e corrotto. Cosa avrei fatto se Namid avesse deciso di andarsene?
«Cosa c'è, ragazzina? Perché non dici nulla?»

«Io... Non lo so.» ammise con franchezza. «Per sposarmi con te dovrei essere battezzata, giusto?»

«È vero» sospirai. «Ma sarebbe solo una formalità, non ti costringerei mai ad abbandonare i tuoi riti!»

Lei parve riflettere un attimo:
«Devo pensarci, Russell, ma non fraintendermi: anche io voglio passare la mia vita con te, solo... Non capisco questa grande necessità del matrimonio. Noi ci amiamo e non ha importanza che lo sappia anche il resto del mondo.»

Quando tornammo al campo, io pensieroso e Namid con il capo appoggiato alla mia spalla, trovammo un grande fermento:
«Cosa è successo?»

«Oh, ti sei perso una grande cosa, Colt: hanno preso l'indiano!»

Io e la ragazza ci guardammo negli occhi:
«Vai alla tenda!» le intimai, iniziando a correre nella direzione della folla.

«Non ci penso neanche!» replicò lei aggrappandosi al mio braccio. Io sbuffai ed alzai gli occhi al cielo, ma ormai mi ero abituato alla sua testardaggine.
Tutto il buonumore, però, sparì non appena riuscimmo a scorgere le due figure vicino a Dodge.
Namid spalancò la bocca, stupefatta, e la voce le uscì fuori prima che avessi il tempo di fermarla:
«Hevataneo! Kuckunniwi!»

I due indiani si girarono verso di noi. Hevataneo era in catene e sorvegliato a vista da due soldati, mentre Kuckunniwi sogghignava con le mani incrociate dietro alla schiena, sostando in piedi accanto al generale.

«Colt!» mi apostrofò Dodge con voce cupa. «Proprio la persona che stavo per mandare a chiamare! Quest'indiano afferma di conoscerti e di sapere molte cose che ci avevi taciuto!»

Mi separai da Namid e mi avvicinai di qualche passo al generale:
«Conosco bene quest'uomo e posso affermare senza ombra di dubbio che è un bugiardo e un ingannatore!»
Kuckunniwi digrignò i denti, ma non perse la sua aria trionfante.

«L'indiano che tu accusi ci ha invece portato questo suo simile, che a suo dire si aggirava con fare sospetto nei dintorni del campo. Ha anche aggiunto che la tua permanenza non è stata poi così... Penosa come tu hai raccontato. Dice che ti sei integrato nella tribù dei Cheyenne, addirittura fraternizzato con loro, tanto che ti hanno anche dato un nome nella loro lingua! Enapay... Giusto? E che questo ragazzo» disse il generale, indicando Hevataneo con un gesto vago della mano. «Era in realtà qui per tuo conto!»

«Sciocchezze!» tuonai, aggrottando la fronte. «Che motivo avrei di far girare quell'uomo nei dintorni della ferrovia? È qui per un unico motivo, e cioè che Ayasha, la squaw che è arrivata insieme a me e a Namid, è sua moglie e il bambino che aspetta suo figlio. Generale, perché credete alle parole di questo muso rosso?»

«Perché, a differenza tua, lui ha le prove.»
Riconobbi con orrore l'oggetto che brillava nella mano del generale: la chiave che avevo regalato ad Hevataneo in segno di amicizia.
«La riconosci, già: numerose persone qui al campo te l'hanno vista al collo, Colt, e questo è sufficiente a supportare le parole dell'indiano Kuckunniwi. Arrestatelo!»

«No!» l'urlo di Namid superò il rumoreggiare della folla sorpresa e contrariata e da lontano vidi Abraham e Chuck trattenerla mentre si slanciava verso di me. Con uno strattone la ragazza si liberò e mi raggiunse, lottando contro i soldati di Dodge che mi stavano ammanettando.

Piangendo, mi prese il volto tra le mani e io strofinai la fronte contro la sua:
«Andrà tutto bene, ragazzina: troverò il modo di uscirne anche questa volta, ho fatto troppa strada per languire in un carcere o morire sul patibolo. Tu però devi stare attenta. Tieni sempre con te la pistola, non andare al lavoro e trasferisciti con Ayasha da Annabeth: è il luogo più sicuro per voi, adesso.»

«Russell, ti prego...» balbettò tra le lacrime. «Ti prego, torna da me!»

King la afferrò per un braccio, strattonandola indietro e spingendola a terra.
«Stai lontano da lei!» gli intimai, ma il controllore ridacchiò, mettendo in evidenza i denti marci.
«Non sei esattamente nella posizione giusta per minacciarmi, Colt!»

Prima che potessi replicare le guardie mi spinsero insieme ad Hevataneo, che mi guardava con espressione colpevole, verso il vagone merci adibito ad occasionale prigione.

La voce di Namid risuonò chiara e ferma nelle mie orecchie:
«Io ti sposo, Russell Walker. Hai capito? Fosse anche l'ultima cosa che faccio, ti sposo!»

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