The home
Russell
Quando arrivai alla mia tenda e non trovai né Ayasha né Namid caddi in preda al panico: sapevo per certo che Namid aveva smontato prima, perché non era stato un giorno particolarmente caldo o faticoso, ma non avevo idea di dove potessero essere andate. Iniziai a correre per il campo, ignorando le occhiate curiose di chi mi passava accanto, cercandole disperatamente con gli occhi, ma senza arrischiarmi a chiamarle a gran voce. Finalmente le trovai davanti alla chiesa, a parlare fitto con Annabeth e il sollievo si tramutò velocemente in rabbia. Afferrai Namid per un braccio e senza replicare alle sue proteste la trascinai con me, fino a un punto in cui ero certo che nessuno ci avrebbe udito.
«Cosa credevi di fare?» ringhiai, stringendola per le spalle. Colsi un lampo di paura attraversare le iridi blu della mia donna, ma poi Namid spalancò le labbra, stupita.
«Eri preoccupato per noi!» comprese. Alzò una mano a sfiorarmi il viso ma io la bloccai e la costrinsi a fissarmi negli occhi, ancora adirato. La ragazza sospirò:
«Scusami, Russell... Avrei dovuto avvertirti che saremmo andate da Rachel.»
«Sì, avresti dovuto!» sbottai, mentre la cappa di ansia e di angoscia che mi aveva attanagliato fino a quel momento iniziava a dissolversi, lasciandomi libero di respirare normalmente.
«Tu non sai cosa ho provato nell'ultimo quarto d'ora, ragazzina! Sono tornato e tu e Ayasha eravate sparite, Cristo! Pensavo vi avesse rapito qualcuno, pensavo che non sarei arrivato in tempo...»
Namid liberò il polso dalla mia stretta e le sue dita raggiunsero la mia guancia resa ispida dalla barba ed io, rabbonito, le permisi di accarezzarmi.
«Mi dispiace così tanto!» sussurrò concitata, con le lacrime agli occhi. «Ma tu non puoi fare così, Russell, non ci accadrà nulla di male!»
Poggiai la testa contro la sua, ispirando a fondo il suo odore di pelle e natura: non era cambiato, nonostante la ragazza si trovasse alla ferrovia da quasi un mese.
«Come fai ad esserne sicura?» mormorai, terrorizzato all'idea di vedere i suoi occhi blu spalancati e fissi come quelli di Grace. Sussultai, colpito da quel ricordo come da una frustata: era la prima volta da quando mi ero confessato con Namid che la guerra tornava a tormentarmi.
«Io non posso perderti, Namid, io devo... Devo proteggerti, a qualsiasi costo e tu non mi aiuti affatto in questo! Tratti gli uomini come tuoi pari senza capire che così facendo li istighi a saltarti addosso, accidenti! E poi sparisci così, trascinandoti dietro Ayasha, per andare dalla signora Rachel, senza dirmi niente... Aspetta un attimo, dove siete andate voi?»
Aggrottai la fronte, mentre realizzavo finalmente ciò che mi aveva detto.
«Voi siete state al bordello?» strillai, allibito, mentre Namid si mordeva colpevole il labbro inferiore.
«Non ci posso credere, non ci posso credere!» borbottai, passandomi una mano sulla fronte per calmarmi.
«Non pensavo fosse tanto grave, insomma, non ci siamo mica andate per...»
«Non ha importanza il perché!» gridai, facendole fare un passo indietro, fino a schiacciarsi contro la parete di un vagone abbandonato. «Sai cosa sarebbe successo se qualcuno vi avesse viste entrare? Pensi che si sarebbero fermati a controllare se foste andate lì per una chiacchierata innocente? No, vi avrebbe prese per puttane e a quel punto... Dio, non ci voglio nemmeno pensare!»
"Stai perdendo il controllo, così non va bene, Russell! La spaventerai a morte!"
Ma Namid non era spaventata. Si limitò a farsi avanti a capo chino e ad affondare il viso contro il mio torace, stringendomi con tutta la forza delle sue braccia.
«Non puoi risolvere sempre tutto così.» bisbigliai, accarezzandole i capelli. «Adesso mi dici cosa sei andata a fare lì!»
La ragazzina alzò gli occhi di nuovo luminosi verso di me, sorridendo in modo strano:
«Speravo che me lo chiedessi!»
•••
Il saloon era chiassoso e pieno come al solito e non potei trattenere un brivido nel pensare a come si era conclusa la mia ultima serata passata in quel posto. Ma non ero lì per bere o per giocare a carte, avevo una missione da compiere. Mi sentivo uno sciocco mentre passeggiavo in mezzo ai tavolini e a uomini ubriachi, alla ricerca della persona a cui avrei dovuto estorcere informazioni.
"Namid, come è possibile che io mi riduca a fare tutto questo per te?" mi lamentai.
Quando l'indiana mi aveva chiesto aiuto per la sua amica, io mi ero fermamente rifiutato di entrare a far parte del suo piano sgangherato: avevo già una pericolosa relazione da proteggere, non me ne serviva un'altra che per di più avrebbe coinvolto la figlia di padre Andrew. Poi, senza sapere bene come, mi ero fatto convincere e ora mi trovavo al saloon, più confuso ed incerto che mai.
Kasper Novak sedeva insieme ai nostri compagni, silenzioso come al solito, ma attento a tutto ciò che lo circondava: avevo sempre pensato che sapesse tutto di tutti, vista la sua attenzione ai dettagli, ma non avrebbe mai rivelato nulla di ciò che pensava o vedeva.
Mi sedetti accanto a lui, sforzandomi di sfoggiare la mia solita espressione sorniona e disinteressata.
Jacob Fano, completamente ubriaco, stava intonando una melodia italiana dal suono struggente e io colsi l'occasione per chinarmi verso il polacco:
«Non ti manca la tua casa?»
Per la prima volta da quando l'avevo conosciuto, l'ombra di un'emozione passò sul viso di Novak.
«Non è rimasto più nulla di ciò che io chiamavo casa.» sussurrò con voce priva di sfumatura e gli occhi grigio-azzurri fissi sul fuoco scoppiettante.
"Dio mio, come fa una ragazza vitale come Annabeth ad essere infatuata di questo pezzo di ghiaccio?"
«Beh, mi dispiace! Ma sai come si dice: casa è dove ti senti bene.»
«Allora, certamente la mia casa non è qui!» commentò pacatamente lui, e solo un leggero tremito che gli incurvò le labbra mi fece capire l'ironia sottintesa.
«Non è un granché, ma ho visto di peggio!» sbuffai, guardandomi intorno per assicurarmi che nessuno facesse caso alla nostra improvvisa e strana confidenza. «Ci sono anche lati positivi, qui!»
Novak si voltò verso di me:
«La piccola indiana ti ha stregato il cervello, Walker!» esclamò con uno sbuffo.
Io sogghignai:
«Le donne sono così, amico, ma sai che ti dico? Essere stato ammaliato da quella ragazzina è la cosa più bella che mi sia capitata da molto tempo a questa parte!»
«Dev'essere... Una bella sensazione.» mormorò il polacco mandando giù un sorso di whiskey, e questa volta percepii chiaramente della malinconia nella sua voce.
«Già. Ti auguro di provarla un giorno!» esclamai con noncuranza, allungando una gamba e facendo lo sgambetto a Fano che, preso dalla nostalgia per la sua patria, continuava a cantare a voce sempre più alta.
Risi davanti alle sue imprecazioni e fu allora che Kasper diede inizio al discorso più lungo che gli avevo mai sentito fare:
«Io la provo già, Colt. E mi sento davvero un idiota a parlarne con te, che tra tutti sei sempre stato un uomo duro e cinico. Ma credo che la piccola indiana ti abbia cambiato, come ha detto Abraham, e di sicuro l'ha fatto in meglio.... Perciò, guardandomi intorno, credo che tu sia l'unico di cui io possa fidarmi nel raccontare una cosa del genere. L'unico che probabilmente non mi giudicherà.»
Strabuzzai gli occhi, colpito:
"Che mi venga un colpo, Namid: avevi ragione!"
Namid
Riflettendoci ora, io e Annabeth ci comportammo in modo veramente stupido: invece di restare ad aspettare che l'indagine di Russell portasse i suoi frutti, come Ayasha e Rachel ci avevano consigliato, decidemmo di vagare nei pressi dei bivacchi per intercettare qualche informazione utile su Novak. Io in realtà avevo anche una sorta di presentimento che mi pungolava l'animo, ma lo ignorai per assecondare la luce vivida e per la prima volta libera che vidi negli occhi della mia amica: in tutta la sua vita non aveva mai disobbedito ai precetti del padre e della Chiesa e pensai che un po' di vita le avrebbe fatto bene.
Di certo non immaginavo che nella nostra passeggiata avremmo incontrato Bernard King attorniato dai suoi compagni, tutti piuttosto alticci:
«Buonasera, belle fanciulle!» sghignazzò il controllore. «Allora, piccola indiana, ci hai preso gusto a questi nostri incontri notturni, non è vero?»
Annabeth si strinse a me in cerca di supporto, contando sul mio coraggio e sulla mia lingua tagliente, ma sentivo gli arti atrofizzati. Solo le cicatrici sulla schiena bruciavano come se qualcuno vi avesse sfregato del sale sopra: il terrore che avevo provato sotto la frusta di King non era stato mitigato neanche da ciò che era successo con Russell il mattino dopo. Fortunatamente per noi, questa volta Colt arrivò in tempo e dopo avermi scoccato un'occhiata per metà rassicurante e per metà furiosa si rivolse a King:
«Credevo di essere stato chiaro: alla larga dalla mia donna.»
Scandì bene ogni parola per far sì che tutti lo capissero e si premurò anche di far scintillare la pistola che aveva alla fondina alla scarsa luce dei fuochi. Poi sul suo volto si fece strada un sorriso sarcastico:
«Mi sto stancando di vederti girare intorno a Namid, King, per non parlare del fatto che avete spaventato a morte la figlia di Padre Andrew... Che comportamento vergognoso, non credi, Novak?»
Il polacco emerse dalle ombre, il viso stretto in una smorfia rigida e severa: i lineamenti erano brutalmente definiti da un gioco di ombre che li rendeva ancora più spigolosi ed inquietanti.
Lo osservai per un po', capendo come mai Annabeth fosse attratta da lui: non solo era un bell'uomo, alto e ben piantato, con corti capelli biondi e due occhi azzurri duri come il ghiaccio, ma emanava un'aura di forza contenuta e tranquillità. Avevo il sentore che nel suo passato si annidavano demoni simili a quelli di Russell, ma nessun segno di rabbia o dolore represso emergeva dal suo comportamento, riservato e solitario al limite della cortesia.
Quando riportai lo sguardo su King, vidi che si era dileguato insieme ai suoi compari.
Russell mi si avvicinò tirandomi uno schiaffo sulla nuca:
«Mi hai fatto male!» piagnucolai, cercando di trattenere il sorriso e le lacrime che sembravano voler spuntare sulla mia faccia nello stesso momento.
«Te lo sei meritato!» sbottò, risentito. «Hai molte cose da farti perdonare, ragazzina, e io ho in mente svariati modi in cui tu potrai fare ammenda... Andiamo?»
Alzai una mano, intimandogli di fare silenzio ed aspettare: nella semi-oscurità del piazzale deserto, Kasper ed Annabeth si studiavano a vicenda. Nessuno dei due sembrava intenzionato ad aprire bocca: l'uomo sostava a gambe larghe e braccia incrociate da un lato, senza distogliere lo sguardo dal viso della ragazza che invece lo scrutava di sottecchi, tenendo il capo basso e spostando nervosa il peso da una gamba all'altra.
Alla fine fu la mia amica a prendere l'iniziativa e con uno scatto che fece sobbalzare il polacco coprì rapidamente i passi che li separavano. Dopo aver piegato il capo in un lieve inchino mormorò:
«Vi sono immensamente grata per il vostro aiuto, signore.»
«Non ho fatto nulla.» mormorò lui con un accenno di divertimento nella voce.
Annabeth arrossì furiosamente:
«Beh, sì... Ma... Vedete, io... Oh, lasciate perdere. Buonanotte, signore.»
Fulmineo e inaspettato, Kasper l'afferrò per un braccio, gesto che fece imporporare la ragazza ancora di più:
«Il mio nome è Kasper. Ma penso che voi lo conosciate, non è vero, Annabeth? Mi chiedo perché.»
«Oso dire che probabilmente il motivo è lo stesso per cui voi usate il mio!»
Allontanandomi silenziosamente dalla scena, lasciando i due a fissarsi con un sorriso ebete sul viso, mi voltai dubbiosa verso Russell:
«Cosa hai detto a Novak, esattamente?»
L'uomo rise a bassa voce e mi strinse a sé prendendomi per i fianchi:
«Non ha importanza... Ti basti sapere che gli ho semplicemente mostrato la via di casa.»
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