Capitolo 50 - Smell
«Dove cazzo hai mandato Anita?» urlò Rottemberg, non appena Seinfeld rispose con un annoiatissimo 'pronto?'.
«Dove avevo detto che l'avrei mandata due settimane fa. A Dritch».
Rottemberg ringhiò al telefono, incapace di trattenersi.
«E non hai pensato fosse il caso di avvisarmi prima di prelevarla? Non è una criminale, Kilian»
Seinfeld sbuffò al telefono, evidentemente seccato.
«Ti ho avvisato con ampio anticipo, Rott. Il problema è che hai pensato di contare qualcosa, di poterla salvare, ma non è così. Gestisci quella tua centrale del cazzo in mezzo al nulla e il mondo non sa nemmeno che esisti»
«Questa storia non ha niente a che fare con me. Stiamo parlando di una mia dipendente».
Seinfeld borbottò qualcosa a un suo collaboratore, evidentemente interessato ad altre faccende.
«Mi dispiace che sia andata così, Rott. Anita l'ha presa molto meglio di te, comunque. Magari a Dritch potrà avere i riconoscimenti che merita», bofonchiò. «Ora ti saluto, il dovere chiama»
Seinfeld gli attaccò il telefono in faccia, senza dargli alcuna possibilità di replica.
Rottemberg si passò una mano lungo il viso, in modo stanco e penoso.
Improvvisamente, tutto il peso dei suoi anni di carriera iniziò a gravare sulle sue spalle, rendendogli impossibile il cammino verso la centrale.
Forse Seinfeld aveva ragione su di lui. Forse Seinfeld aveva ragione su Anita.
Avrebbe voluto che ci fosse qualcuno lì con lui per poterlo contraddire, ma, come sempre, era da solo.
Oppenheimer non aveva detto una parola per tutto il viaggio. Fu una fortuna perché Anita aveva passato tutto il tempo a fissare fuori dal finestrino quelle infinite lande verdeggianti, campi sterminati, frutteti e colline e montagne...
Anita sentiva la testa che le girava, incapace di gestire tutta quella bellezza. Il mondo come lei lo conosceva non aveva niente a che fare con quello che le stava scorrendo davanti gli occhi.
Percorsero quelle vie sterrate e bitorzolute sotto fila ordinate di arbusti fioriti per un'ora e mezza. Il tanfo della benzina era in netto contrasto con l'afrore primaverile dei fiori appena sbocciati.
Anita si sentì immediatamente fuori posto. Si guardò: la mano robotica lercia e logora e quella divisa che le calzava enorme, – prestata dagli uomini di Seinfeld -, la rendevano una fastidiosa macchia sporca nel panorama celestiale che li circondava.
Oppenheimer, senza alcun preavviso, fermò la Jeep.
«Siamo arrivati», mugugnò, rivelando per la prima volta una voce gutturale. Sembrava molto arrabbiato.
Anita volse lo sguardo a destra, oltrepassando il viso austero del guidatore. Dietro di lui si ergeva un edificio maestoso, che ricordava molto un castello gotico. Le pietre che lo componevano erano nere, le quali risultavano incredibilmente in contrasto con il paesaggio circostante. Appena dietro al castello c'era una interminabile foresta, talmente immensa che Anita non riusciva a vederne la fine.
Le quattro torri del castello mostravano con imponente ferocia altrettanti stendardi, con un evidente stemma rosso e nero. Anita dovette stringere gli occhi a fessura per poterlo vedere bene, ma le sembrava fosse una rosa nera su sfondo rosso.
«Puoi ammirarlo anche dopo. Devi scendere», mugugnò Oppenheimer, secco.
Anita lo fissò, turbata. «Non ho idea di dove devo andare».
Oppenheimer alzò gli occhi al cielo. Una bandana nera gli copriva la bocca e il naso; quindi, Anita poté solo immaginare quanto fosse effettivamente scocciato nel parlarle.
«Sei una Diversa o no? Non lo usi il naso? Le orecchie?» chiese lui, come se fosse ovvio, e lui stesse allegramente discorrendo con una stupida.
Anita boccheggiò, per un istante. Si rese conto di tutte le volte in cui avrebbe potuto usare i suoi poteri, ma non lo aveva fatto. Come se una parte di lei non accettasse ciò che era.
Anita annuì, ringraziando mentalmente Oppenheimer nonostante la sua crudezza, e scese dal veicolo, salutandolo con un gesto della mano che lui, ovviamente, non ricambiò.
Non appena rimase da sola si voltò verso il castello e mosse i primi passi incerti verso quel luogo misterioso.
«In che senso, hanno preso Anita?» chiese Gus, allibito. River alzò il sopracciglio, cercando di fargli capire che la frase a parer suo era già abbastanza chiara. Quel movimento, però, fece muovere anche il suo naso. Il dolore improvviso gli fece vibrare la spina dorsale, come se avesse appena ricevuto una scossa elettrica.
«Il DU. Hanno fatto irruzione in casa stamattina», aggiunse River, massaggiandosi sotto gli occhi.
Gus rise, amaramente. «Abbiamo avuto a che fare per anni con un pazzo che ci ha usato come carne da macello, e il DU se ne è sempre fottuto».
River acconsentì, decidendo di non muoversi più del dovuto.
«A proposito, oggi devo passare a Nikosia. Anita mi ha chiesto di consegnare una cosa. Potrebbe aiutarci con le indagini».
Gus annuì.
«Io aspetto Rottemberg. Insieme vedremo come fare per portare indietro Anita».
Gus non fece in tempo a concludere la frase che ricevette un messaggio sul telefono.
Lo lesse senza ben capire cosa ci fosse scritto. Quando realizzò quasi non riuscì a crederci.
'Oggi non vengo a lavorare – Rott'
Fece leggere il messaggio a River, dopodiché i due si lanciarono uno sguardo preoccupato.
«Vado da lui. Ci rivediamo qui nel pomeriggio», proclamò Gus, risoluto.
Rottemberg non aveva mai saltato un giorno di lavoro. Quel messaggio avrebbe messo in allerta chiunque di loro.
River annuì, infilarono le proprie maschere antigas e si avventurarono all'esterno.
Anita era giunta quasi alla porta principale. Durante il tragitto aveva pensato almeno a cinque possibili modi per scappare.
Dritch era un'isola. Sarebbe dovuta tornare indietro, rubare un elicottero all'eliporto e sperare che nessun Diverso la scoprisse nel mentre.
L'entrata del castello era una semplice arcata, senza porta o portoni.
Visto da vicino, il mattonato nero riusciva a creare un effetto molto malinconico. Un cartello di legno sbeccato, sulla destra dell'entrata, riportava lo stemma della rosa nera su sfondo rosso e il nome:
SeelenFleisch
Anita annusò un po' l'aria, sentendosi un cane da caccia. Era riuscita a fiutare qualcosa solo nelle situazioni di evidente pericolo. Farlo a comando era davvero difficile per lei.
Mosse alcuni passi verso l'ingresso, coperto dal manto erboso, fino a che il suo olfatto non venne colpito da un odore incredibilmente familiare e, al contempo, spaventoso.
Tabacco, miele e veleno. Mischiati insieme quel tanto che bastava per renderle la vita impossibile.
Lui non poteva trovarsi lì.
Anita imprecò, guardandosi attorno, guardinga. Mise le mani in posizione, pronte a sferrare un pugno. Sapeva bene che non avrebbe potuto niente contro un Diverso, soprattutto non contro di lui, ma ci avrebbe provato. Poteva cercare di stordirlo e approfittarne per scappare.
All'improvviso, una leggera scia di vento le attraversò le ossa, scivolandole sotto i vestiti. La distrasse esattamente nell'attimo in cui lui le afferrò le mani, girandole e immobilizzandola a terra.
«Sapevo che mi avresti trovato, amore».
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