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Capitolo 28 - Hallucinations

Anita si svegliò allegra e riposata. Non le succedeva da parecchio tempo, pensò versandosi del caffè. Erano così vicini alla soluzione. Finalmente avrebbe potuto vivere in pace e smetterla di darsi colpe.


River uscì dalla sua camera pochi minuti dopo, accomodandosi accanto a lei.
River non beveva caffè, abitudine che Anita aveva sempre trovato strana. Lui si limitò a fissarla, incuriosito.


«Buongiorno...?» tentennò lei, sperando che questo lo facesse smettere di guardarla.
«Ti sei vista in faccia?» bofonchiò River, sollevando un sopracciglio.


Anita sgranò gli occhi, poi corse in bagno per guardarsi allo specchio.
River udì solamente un urlo agghiacciante, poi dei passi pesantissimi che trotterellavano di nuovo in salotto.


«Speravo la prendessi meglio», commentò River.
«Che cazzo è successo ai miei occhi?» sbraitò Anita, furente.
«Chiedilo al tuo amico pennuto».


«Potresti cercare di essere collaborativo, per una volta?»
Anita corse di nuovo in bagno per osservare i suoi occhi. Erano improvvisamente diventati gialli.


River si appoggiò allo stipite della porta del bagno, con fare annoiato.
«Da quanto tempo non mangi?» chiese.
Anita calcolò velocemente a mente, rimanendo silenziosa.


«Almeno un giorno intero».
River spalancò le braccia, come a voler intendere che la soluzione fosse ovvia. Anita si trattenne dall'azzannare lui.


«Quindi pensi che sia temporaneo?»


River annuì, dirigendosi verso la sua stanza per prepararsi. Da quando aveva degli impegni e aveva ritrovato la gioia del suo lavoro, River sembrava un'altra persona. Anita ne fu sollevata.
Squadrò di nuovo i suoi occhi e, sbuffando, si diresse verso la sua camera.


Quando Anita e River arrivarono in centrale non trovarono nessuno. Erano le dieci passate e Rottemberg non era ancora arrivato.


Anita lo trovò strano, ma pensò che il giorno prima avesse fatto tardi per compilare tutte le scartoffie burocratiche, e per attendere il ritorno della squadra di Gus.


«Se tu rimani qui ad aspettare gli altri, io mi avvio in Banca. Voglio assolutamente gli altri fascicoli di Brick», asserì Anita, già con un piede fuori dalla centrale. River annuì e continuò a leggere una rivista che aveva trovato abbandonata su una scrivania.


La strada verso la Banca era assolata e la cappa di ruggine sembrava più pesante e vischiosa. Non c'era neanche un passante e Anita ne fu grata, perché, da quando River le aveva fatto notare da quanto tempo non mangiasse, aveva iniziato a dolerle lo stomaco dalla fame.


Si chiese dove fosse Gufo, ma scacciò quel pensiero scuotendo la testa.
Fortunatamente arrivò velocemente in Banca, almeno non avrebbe più avuto modo di formulare certi pensieri.



L'impiegato della Banca Welston era lo stesso dell'ultima volta, infatti Anita non riuscì a trattenere un sonoro sbuffo.
«Buongiorno», biascicò lei, non appena si trovò di fronte alla scrivania.
«Buongiorno di nuovo», sorrise l'uomo, sornione.
«Ho un mandato questa volta», asserì Anita, fornendogli la documentazione e sfoderando un sorriso trionfante.


L'impiegato annuì e iniziò a digitare convulsamente sul suo computer. Dopo minuti interi di attesa, in cui l'unico suono udibile era il rumore dei tasti, l'impiegato sollevò lo sguardo verso Anita, e mise su un'espressione pensierosa.


«Mi dispiace, ma qualcuno ha già ritirato il contenuto della cassetta di sicurezza del signor Ashton».


Anita rimase attonita, scrutando l'impiegato con i suoi occhi gialli. Lui sembrò rendersi conto solo in quel momento che c'era qualcosa di profondamente sbagliato nella donna seduta di fronte a lui.


«Sta scherzando?» scattò Anita, con evidente astio nel tono di voce.
«Purtroppo no»
«C'è scritto da chi sono stati ritirati?» insistette lei, ancora incredula.
L'uomo si limitò a negare con il capo, continuando a cercare qualche informazione sul suo schermo.


«Almeno c'è il nome dell'impiegato che li ha prelevati e consegnati?»
«Sì, ma non è possibile. Il nome che figura è il mio. Mi sarei ricordato di averli consegnati»
Anita si sentì mancare le forze. Se fosse stata in piedi probabilmente avrebbe barcollato.


C'era sicuramente qualcosa sotto ed era determinata a scoprire cos'era.



Lo avevano drogato, iniettando nelle sue vene un qualche mix che non avrebbe saputo neanche descrivere, e buttato in un sotterraneo buio.
Lui, però, vedeva solo luci e colori. Sfumature di verde e blu come una bellissima aurora boreale. La testa che vorticava freneticamente come un carosello. Una fastidiosa musica trillava costantemente nel retro della sua testa.


Gus giaceva a terra, con la bava alla bocca, in attesa di essere salvato. Aveva provato a muoversi per cercare una via di uscita, ma i suoi muscoli non sembravano collaborare. In più, quando provava a strisciare verso quella che doveva essere la porta, le allucinazioni peggioravano, ponendogli davanti demoni e mostri dalle facce deformate. Una di loro aveva la faccia di Vin.


Non poteva credere che la madre di uno dei suoi più cari amici aveva potuto compiere un atto così malvagio.
La donna lo aveva privato della divisa, lasciandolo in boxer. Sentiva freddo e l'umidità del posto non aiutava affatto.
Dopo quella che parve un'eternità, avvertì i passi concitati di qualcuno scendere fino alla porta che lo teneva recluso.


Rumore di chiavi, tintinnii e imprecazioni di una voce incredibilmente familiare sembrarono dargli un po' di sollievo.
Finalmente la persona dietro la porta trovò la chiave giusta e riuscì ad accedere.


«Gus! Stai bene?»
Quella era indubbiamente la voce di Rottemberg, ma lui non aveva la facoltà motoria di rispondere. Sperò che non si trattasse di un'altra allucinazione.
«Cerca di alzarti, ti porto a casa».

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