Capitolo 2
«Ma quanto è bello il professor Caruso» ripeteva Elena tutta felice, saltellando.
«Onestamente per me è veramente brutto. Che ha quell'uomo di così attraente?» diceva invece Elia, richiamando l'attenzione di Giorgio.
Elia aveva una carnagione olivastra, con capelli e occhi scuri. Il viso tradiva le sue origini latino-americane e ciò era rimarcato anche dal suo accento.
«Parli così perché sei invidioso, ammettilo. Alle ragazze piace, fine della discussione» aveva tagliato corto Giorgio.
Giorgio, al contrario di Elia, era un ragazzo alto ed esile al contempo, con una carnagione chiara e degli occhi talmente verdi da sembrare quasi due smeraldi.
Indossava sempre gli occhiali da vista e, per parlare con noi, era costretto a chinare la testa.
Elia e Giorgio erano miei amici da sempre, fin dall'infanzia. I nostri padri andavano a scuola insieme e adesso lavoravano per stessa compagnia.
Giorgio era il più tranquillo e silenzioso della compagnia, il classico ragazzo che nonostante l'alta statura diventava invisibile fra la gente. Spesso, persino in una stanza, si faticava ad accorgersi della sua presenza.
Sembrava quasi un ornamento dell'ambiente, almeno così pareva a volte.
Elia invece era l'esatto opposto di Giorgio. Era troppo. Sì, era veramente troppo in qualsiasi cosa.
Era troppo nel relazionarsi con gli altri, perché esagerava in tutto: nel mangiare, nel reagire, nel parlare. Tuttavia era uno dei ragazzi più popolari della scuola.
Sapeva farsi rispettare e, anche se non veniva spesso alle mani, utilizzava comunque parole affilate come lame, quasi fossero dei pugni nella pancia.
O ci andavi d'accordo e ti andava bene, oppure gli stavi semplicemente antipatico e finivi nel suo immaginario libro nero.
Elena, nell'ascoltare i due ragazzi discutere del professore, rimaneva stretta al mio braccio e ridacchiava sussurrandomi all'orecchio: «Che idioti vero?». Nel mentre ci stavamo avviando alla fermata dell'autobus.
«Cécile, a te piace quel tale o no?» mi aveva chiesto Elia, mentre osservavo durante la camminata dei nuovi cartelli che pubblicizzavano balsami per capelli intrattabili.
«Come? Quale tale?» avevo chiesto apposta, giusto per far innervosire Elia. Detestava quando facevo così.
«Ceci, santo cielo, il professore! Stiamo parlando di lui, ma ci sei?» aveva aggiunto Elia, quando Giorgio aveva subito capito la mia presa per il culo.
«Ma che te frega se quello riscuote un tale successo? E comunque la mia risposta è irrilevante, Caruso è un bell'uomo! Chi ammette il contrario è semplicemente invidioso e stupido, se non addirittura cieco...» avevo detto in risposta a quella sottospecie di capra.
Con tutti i problemi e i pensieri che avevo, non avevo molta voglia di aggiungere qualcosa al dibattito sulla bellezza o meno del professore.
«Elia, dai non farne un caso nazionale. La bellezza è soggettiva» aveva provato a minimizzare Elena per distendere gli animi, trovando una smorfia di disappunto di Elia.
«No Elena, la bellezza non è soggettiva. Se qualcosa è bello o gradevole alla vista, è bello! Se fa schifo, fa schifo! A te piace la merda che caghi?» insisteva Elia.
Io ed Elena scuotevamo la testa battendoci all'unisono la mano sulla fronte.
«Senti ma che c'entra? Smettila di parlare di cose molto più grandi di te.
«É un argomento ampio, troppo complicato» aveva detto Giorgio sperando di esaurire l'argomento definitivamente.
Una volta sul pullman, però, Elia aveva ripreso con quelle sue assurde tesi sulla bellezza, pretendendo l'approvazione di tutti noi.
Scesi dal pullman, avevamo camminato ancora qualche minuto, finché non eravamo passati per la piazza principale. Un enorme palco costruito per le esecuzioni dominava il centro della scena.
«Elia, niente da ridire per quello invece?» gli avevo chiesto, mostrando disprezzo per quello spettacolo schifoso costruito dinnanzi a noi.
«Sai bene cosa penso: se credono di intimorirci mostrando gente impiccata si sbagliano di grosso» diceva Elia strappando il cenno di consenso di Giorgio ed Elena.
Ma non tutti la pensavano così, anzi. In questa città il nostro pensiero era considerato pericoloso, quasi fosse una sorta di tradimento verso la patria.
I ragazzi, molto gentilmente, avevano accompagnato me ed Elena a casa. Dopo i saluti, avevo infilato le chiavi nella vecchia serratura ed ero entrata. Avrei passato il resto del pomeriggio da sola, non avevo nessuno ad aspettarmi a casa.
Tirati fuori gli evidenziatori e guardato gli appunti, ricominciavo ad arrossire di nuovo ripensando al dialogo con Caruso.
D'improvviso mi era caduta l'attenzione su una specie di faccina sorridente posta su un foglio. Non ricordavo di averla disegnata, non sembrava nemmeno la mia calligrafia.
«Ma che diamine?» il pensiero di come fosse lì mi incuriosiva. "Che l'abbia fatta il prof?" iniziavo a sospettare, ancora stupita ed incredula. "Impossibile..." continuavo a scervellarmi rifiutando quella possibilità. "Che l'abbia fatta mente mi era davanti nel momento in cui non lo stavo guardando?" continuava la mia logica a suggerirmi come conclusione.
«Può essere, ma dunque questo suo lato infantile? Da dove sbucava?» pensavo tra il divertito e l'incredulo.
Stavo per precipitarmi al cellulare con Elena per raccontarle tutto, ma un'ignota ragione mi aveva dissuaso dal farlo proprio all'ultimo momento.
Forse, in qualche modo, volevo tener segreto quello stupido gesto.
All'improvviso mi era sorto un dubbio: stavo forse impazzendo?
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