Non Ero Io il Party-cipio Passato...
Mi svegliai e non c'era più nessuno. Nessuno, tranne me, rannicchiato a terra in posizione fetale. Iniziai a pensare a mille cose: «Che vergogna... sono rimasto a terra tutto il tempo? Come è potuto succedere? E... ah!» Ricordai ciò che avevo vissuto poco prima di svenire.
Quell'attimo esatto in cui ci si risveglia, a metà fra inconsapevolezza e consapevolezza, è tanto euforico quanto deludente. Ma questo dipende molto dal sogno (o dall'incubo) che abbiamo appena lasciato, e soprattutto dalla realtà che ci circonda.
Cercai una spiegazione logica: "E se qualcuno mi avesse messo qualcosa nel cocktail? E se fosse stata un'allucinazione?"
Sembrava plausibile, ma poi la teoria crollò. Ripensai a voce alta: «Ma... io non ho bevuto nulla! Era... era tutto vero?» Non riuscivo a darmi pace e rimasi a terra a fissare il soffitto. Ero immerso nel buio, nel silenzio, e soprattutto nel dubbio. Mentre mi massaggiavo la nuca dolorante, sentii dei passi nell'attico.
Qualcuno entrò, pronunciando un timido: «È permesso?»
Poiché non risposi, continuò: «Non mi pare ci sia nessuno... forza, entriamo, ragazzi!»
Mi trovavo ancora lì, a terra, quando un gruppo di persone si fece largo fra i resti e la sporcizia disseminati sul pavimento. Erano una band musicale, composta da esseri umani in carne e ossa. Chiesi: «E voi chi siete?» Nessuno rispose. Né mi degnarono di uno sguardo: erano tutti concentrati a sistemare e provare i loro strumenti. Dolorante, mi alzai e mi avvicinai a loro:
«S-siete persone a posto, vero?» domandai con la voce rotta da ansia e confusione.
«Oh, salve... in che senso "a posto"?»
«Non siete qui per farmi del male, vero?»
«Farle del male? E perché mai dovremmo farlo? Siamo qui con i nostri strumenti semplicemente per suonare!»
«C-certo... vedo...»
Uno di loro, con un leggero sorriso, aggiunse:
«Che scortesi, non ci siamo ancora presentati. Il mio nome è Al Green, e lei dovrebbe essere un Nonschiavo, giusto?»
«Un Non... che?»
«Beh, è ciò che è: un Non Schiavo... come me e i miei amici.»
«Farò finta di aver capito...»
«Bene. Ora, ci lasci lavorare: stanno per arrivare...»
«Stanno per arrivare chi?» insistetti, ma Al Green non mi rispose. Insieme alla sua band, iniziò invece a intonare una canzone.
https://youtu.be/q8AMZmWqgRM
L'attico si rischiarò di luce soffusa, e la musica si diffondeva nell'aria in modo solenne, quasi in attesa di applausi che però non arrivavano.
Mi spostai verso la vetrata, e il panorama che si presentò ai miei occhi era semplicemente apocalittico: edifici devastati, un silenzio che inghiottiva la città, milioni di persone immobili per strada, come se il tempo si fosse congelato.
Sconcertato, cercai di interrompere la performance:
«Che c-cosa è successo qui?! Ehi, voi! Smettete di cantare un attimo! Ci hanno bombardato?»
Al Green e i suoi compagni però continuarono, invitandomi al silenzio con un gesto, come a dirmi: "Lasciaci finire il brano!"
Mi concentrai nuovamente sulla città. Era un disastro.
Tutto d'un tratto, come per una sorta di miracolo o fenomeno inspiegabile, vidi San Francisco – con le sue persone, i suoi animali, i suoi oggetti – cominciare ad assumere forme bizzarre, colorate... digitali.
Già, tutto divenne così... così... digitale.
«Questo non ha alcun senso logico! Ehi, fermatevi e spiegatemi che sta succedendo!» urlai, ma nessuno mi ascoltava. Dalla vetrata, scorsi i corpi di coloro che avevo visto al PARTY diventare ancora più freddi del ghiaccio.
Provai a dirigermi verso l'uscita, ma mi fermai di botto: l'ascensore non c'era più. E di scale, nemmeno l'ombra.
"Ma allora qual è la prigione, l'attico o il mondo?" mi chiesi, con un brivido.
Era come se tutto il PARTY si fosse riversato nelle strade del pianeta, mentre l'attico rappresentava un ultimo baluardo di normalità e umanità. «Scusate, ho bisogno di risposte, e subito!» gridai.
Al Green e la band, stanchi delle mie suppliche, conclusero il pezzo e lasciarono l'attico in un modo a dir poco teatrale: presero una chitarra e sfondarono una delle vetrate, poi si lanciarono nel vuoto con un paracadute, in religioso silenzio. Prima di sparire, uno di loro si voltò e mi urlò in latino: «Panem et circenses!»
Li richiamai disperato: «Ehi! Tornate indietro! Perché siete venuti qui a suonare se non era di musica che avevo bisogno?!» Ma ormai erano lontani, e persi le loro tracce in pochi istanti.
Tornai a guardare la strada sottostante. Le persone avevano ormai cambiato consistenza: alcune sembravano liquide, altre malleabili e allo stesso tempo dure come l'acciaio. Dopo un lungo, inquietante silenzio, ripresero a muoversi di colpo, quasi fossero formiche operose, rivestendo i palazzi decadenti di una "digitalità" indecifrabile.
Tutto ciò che gli occorreva fuoriusciva da un enorme computer piantato nel bel mezzo della strada principale...
...che emanava luce abbagliante e produceva questo materiale bizzarro a ciclo continuo.
In pochi attimi, la città ricominciò a prendere forma: i palazzi si elevavano maestosi, le persone si moltiplicavano con facilità sconcertante.
Nascevano, si abbracciavano, costruivano; nascevano, si abbracciavano e costruivano ancora; un susseguirsi ininterrotto di azioni che mi lasciò confuso, incapace di capire se ciò che vedevo fosse reale o solo un riflesso distorto della mia mente.
Ad un tratto, nel cielo notturno, apparve una scritta intermittente. Lesse, ad alta voce, quasi sussurrandomi: Tu (NON) sei solo.
Mi pietrificai. Compresi che quel messaggio era rivolto a me, ma invece di rassicurarmi, mi sentii ancor più escluso. Come se, in quell'immenso "party" che sembrava aver inghiottito il mondo intero, io non fossi il benvenuto.
D'improvviso, mi resi conto di essere soltanto uno spettatore indesiderato di una festa infinita, in cui non ero invitato a festeggiare – se non a mie spese.
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