Parte 1
Era l'unica cosa che ancora gli impediva di non impazzire.
Era la sola cosa che ancora non lo faceva diventare totalmente pazzo e gli faceva ancora sopportare il dolore.
Quella fotografia era la sola cosa che gli restava e a cui rimaneva attaccato ogni giorno. Tutte le mattine si svegliava solo per poterla guardare, per poter ancora osservare quegli occhi che gli mancavano come aria, che gli spezzavano il cuore, quel piccolissimo pezzo di cuore che gli era ancora rimasto nel petto. Il resto lo aveva perso, disintegrato, squarciato via insieme al rumore che quel giorno aveva squarciato il silenzio.
Era vivo per miracolo ma vivo era solo una parola per lui; respirare, muoversi, pensare, erano per lui ormai gesti incondizionati. Avrebbe voluto non avere più coscienza se fosse solo stato possibile. Ma era un codardo e di togliersi la vita non aveva avuto il coraggio.
La sofferenza lo stava divorando, non più fisica, quella si era attutita, ma interiore, profonda, insopportabile. L'angoscia lo dilaniava, lo faceva piangere ogni ora, lo faceva tremare ed imprecare a denti stretti.
Quella foto era l'unica cosa che potesse calmarlo, che potesse procurargli un minimo di conforto in tutto quel buio e quel freddo che sentiva dentro.
Quel sorriso che limpido e sincero nasceva spontaneo da quell'istantanea, gli faceva sperare in qualcosa, in qualcosa che neanche lui sapeva ma che ogni tanto gli dava sollievo.
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Quando esanime lo avevano portato in quel luogo, era un corpo quasi morto, irriconoscibile per chiunque lo avesse mai conosciuto prima delle esplosioni. Il sangue era ovunque, era un corpo rosso senza più lineamenti, una macchia. La divisa verde scura non aveva più forma o colore. Solo le targhette intorno al collo avevano rivelato chi fosse, non aveva con sè neanche più il suo astuccio di latta dove dentro c'era praticamente tutta la sua vita.
Un cartiglio con il suo nome, i dati anagrafici, il grado, il reparto, il distretto, il nome dei suoi genitori e l'indirizzo della sua casa. Solo quel nome sulle targhette aveva rivelato chi fosse.
Non i suoi lineamenti non il suo viso, non i suoi occhi.
Quegli occhi si erano aperti solo dopo due lunghe settimane. Spaventati, rossi, stanchi, irrequieti. Non aveva riconosciuto nulla intorno a sè non riusciva a stare sveglio a lungo. Le bende che ricoprivano il suo corpo gli tiravano sulla pelle, si sentiva legato. Le bruciature si erano attaccate alle garze ruvide ed imbevute di sangue, la pelle rimaneva incollata e non si cicatrizzava mai.
Aveva sempre freddo, tremava sempre, il suo corpo era ormai al limite. Soffriva tantissimo. Più volte aveva provato a chiedere aiuto, era sempre solo, sentiva ovunque tanti lamenti intorno a lui, tante richieste d'aiuto in quel luogo marcio che odorava di disinfettante medico e sangue. Solo delle figure ogni tanto gli si avvicinavano, ma lui non riusciva a metterle a fuoco. La gola era secca, non riusciva a parlare o ad urlare.
Dopo alcuni giorni tra lamenti e dormiveglia, dopo essere svenuto un'infinità di volte dal dolore e dal trauma, riconobbe delle voci distinte che lo chiamavano. Non sapeva davvero se stessero chiamando lui, ma sentiva che c'erano delle persone vicine.
Riconobbe il suono del suo nome quando lo si pronunciava.
Ricordava solo il suono.
Aprì gli occhi si costrinse a mettere a fuoco la sola figura accanto al suo letto. Solo una. Riconobbe un volto femminile, dai lineamenti delicati. Quella figura gli strinse una mano. La sentì distinta, chiara.
La stretta di qualcuno che cerca di confortarti. La sensazione del calore umano su quelle dita ghiacciate, lo scossero forte.
Il dolore si stava attenuando, la testa iniziava a non pulsargli più, l'udito stava tornando, il fischio insistente all'orecchio destro si era attenuato.
"Louis".
Sentì una flebile voce dire quel nome.
"Louis".
lo sentì distintamente e mugolò come a chiedere di pronunciare ancora quella parola.
Non ricordava se era davvero lui quel Louis oppure se lo conosceva, se era qualcuno che aveva conosciuto in altra vita. Se era stato solo un sogno.
"Louis cerca di svegliarti".
Lui voleva davvero tanto farlo, voleva ma non ci riusciva.
"Louis sono Mary un'infermiera".
Infermiera.
Infermiera.
Quindi era in un ospedale, o almeno in qualcosa che gli somigliava.
Cercò di mugolare qualcosa ma non ci riuscì.
"Louis cerca di svegliarti".
Non c'era verso di far ragionare il suo corpo, non c'era verso di piegarlo alla sua volontà.
Ricadde in un sonno profondo, distrutto dalla sforzo.
Per un paio di giorni, sentì la voce di Mary.
Lo chiamava ma lui faceva fatica a svegliarsi. Il terzo giorno, riuscì a vederla distintamente. Mora con la sua cuffietta in testa, un'infermiera vera non un'allucinazione.
"Louis sei sveglio!".
Gli regalò un sorriso, lui riuscì ad annuire, non riuscì però a parlare.
"Riesci a sentirmi?".
Annuì di nuovo, il fischio era quasi del tutto sparito, riusciva a sentire, piano, ma sentiva.
Lei gli prese di nuovo la mano che tremava visibilmente, come aveva fatto nei giorni scorsi e gli si sedette accanto.
"Ti trovi nell'ospedale di Amiens".
Lo disse piano in un sussurro con voce ferma e chiara, voleva farsi capire. Parlava la sua lingua.
Scandiva bene ogni parola.
Louis annuì come a spronarla ad andare avanti.
"Ti sei svegliato dopo due settimane da quando ti hanno portato qui, eri quasi morto".
La ragazza si fermò all'improvviso, perchè gli occhi di Louis avevano iniziato a riempirsi di lacrime e il suo volto divenne una maschera di disperazione che fece star male anche lei.
Lui la guardava rattristarsi e più la guardava più gli veniva da piangere. Era vivo e stava guardando qualcuno negli occhi. Era vivo ma soffriva terribilmente.
"Sei salvo adesso, ma è ancora presto per alzarti dal letto".
Lui con le lacrime che adesso gli cadevano copiose e gli rigavano le guance, annuì nuovamente.
"Non so se può darti conforto, ma volevo solo darti questa, è l'unica cosa intatta che siamo riusciti a trovarti addosso".
Le lacrime non si fermavano erano diventate talmente calde da ustionargli anche quel poco di pelle che era rimasta intatta. Non si era accorto prima che nella sua mano c'era qualcosa.
Sapeva cos'era, sapeva cos'era quella cosa che Mary gli aveva messo nella mano e che adesso lui teneva stretta e alla quale si stava praticamente aggrappando.
La stringeva fortissimo tanto da sgualcirla. Voleva sentire quel pezzo di carta nelle sue mani lo voleva sentire mentre gli procurava solchi nei palmi. Il corpo scosso da tremiti per i troppi singhiozzi, voleva morire in quel momento, il dolore era troppo forte.
Voleva morire così tutto avrebbe avuto fine, la sofferenza sarebbe finita, il dolore sarebbe cessato. Non sapeva se sarebbe riuscito a guardare quell'immagine.
Si addormentò ancora con la foto in mano, non voleva lasciarla, ma non riuscì a guardarla, semplicemente perse i sensi.
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Aprì nuovamente gli occhi dopo parecchie ore, si rese conto che intorno a lui tutto era fermo. La calma lo avvolgeva. C'era silenzio, stranamente, c'era silenzio e il luogo dove si trovava era più pulito di quello dove si era precedentemente svegliato.
Era in una stanza da solo, la porta aperta che dava su un corridoio da dove proveniva una flebile luce fioca e calda. L'odore di sangue si sentiva appena. Respirava finalmente senza sentire odore di morte, senza avere la nausea ad ogni respiro.
Sentì qualcosa pungergli la mano.
La fotografia era ancora lì, sgualcita tra le sue dita. Un gemito di dolore gli uscì dalla bocca, un dolore fortissimo al petto lo scosse e dovette stringere i denti per non fare troppo rumore.
Si costrinse a rimane sveglio e mettere a fuoco tra le lacrime e lo sguardo umido, la figura che era ritratta su quel pezzettino di carta dai colori seppia che adesso in un angolo, si tingeva del rosso del suo stesso sangue.
Appena vide quel volto, quando riuscì a metterlo a fuoco, si lasciò andare ad un pianto convulso, rumoroso, non gl'importava più di essere sentito.
Era disperato.
Faceva male.
Era un dolore dilaniante, lo spezzava in due.
Il sorriso di quella figura che lo guardava lo fece fremere. Gli occhi che lo osservavano felici ed allegri lo fecero vacillare, tremare, quasi impazzire.
Aveva scattato lui stesso quella foto. L'aveva scattata mentre un giorno al campo d'addestramento in Inghilterra, gli avevano concesso mezza giornata di libertà dai loro doveri giornalieri.
Le imboscate e le battaglie incessanti ancora non facevano parte del loro quotidiano. La persona che lo guardava era seduta in un prato, con le ginocchia al petto e le caviglie incrociate, teneva le braccia davanti ad abbracciarsi le gambe. I pantaloni della divisa erano macchiati sulle ginocchia, la canotta bianca, sporca di nero per l'addestramento con i fucili del mattutino, risaltava sulla sua pelle nivea. Le targhette di riconoscimento al collo. I capelli color cioccolato, corti sui lati ma più lunghi sopra gli incorniciavano il viso.
Un sorriso spontaneo gli faceva ridere anche gli occhi, il viso era luminoso. Guardava direttamente dentro l'obiettivo.
Ricordava di averlo provocato lui quel sorriso, di averlo fatto ridere prima di scattargli quella foto.
Stavano come al solito punzecchiandosi a vicenda e Louis gli aveva raccontato qualcosa di divertente sulle ultime conquiste di un loro compagno, e su come, la sera prima fosse tornato ubriaco nelle camerate urlando di volersi sposare. I loro amici al campo preferivano passare il loro tempo libero ubriacandosi, raccontandosi delle loro fidanzate lasciate a casa, oppure della voglia che avevano di avere una donna proprio lì che soddisfacesse le loro pulsioni.
Loro invece preferivano stare soli, insieme, si bastavano.
Nascondendosi, celandosi, sfuggendo agli sguardi degli altri, preferivano stare solo loro.
Non erano solo amici, non erano solo soldati.
Aveva tenuto con se quella foto dal momento in cui era riuscito a farla sviluppare. L'aveva tenuta con se nella tasca interna della giacca, nella tasca sinistra vicino al suo cuore. L'aveva messa lì da quel giorno.
Un giorno lontano da quello che li aveva visti entrare in quella maledetta nebbia, in quella trincea improvvisata, in quel maledetto inferno.
Un giorno che però sembrava ieri.
Quel sorriso lo riportava indietro di un anno, lo riportava ad un momento felice. Quel sorriso Louis non sapeva se esisteva più. Non sapeva se mai avrebbe potuto rivederlo.
Non sapeva se mai avrebbe potuto stargli vicino come tante altre volte aveva fatto.
Non sapeva nulla.
L'incertezza era la padrona, la paura e l'incertezza.
L'angoscia e la disperazione.
Rivedere quegli occhi però gli donò un piccolissimo barlume di speranza.
Piccolo, minuscolo, lontano, irraggiungibile.
Salve a tutti, questa è la mia prima mini-long in attesa di una nuova storia
Spero che vi piaccia
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