9. Nocturne
Quando Dakota mi propose di uscire con loro di venerdì sera, negai la mia presenza. Non aveva nominato Gideon e io ero troppo fifona per chiedere, ma se fossi stata delusa avrei sprecato il mio tempo. Se invece ci fosse stato, mi sarei sentita così in soggezione da evitarlo sebbene per tutta la settimana avessi voluto incontrarlo casualmente. Pensavo a loro mentre digitavo distrattamente sul portatile un link che sembrava interessante. Interessante non era la parola adatta, era piuttosto utile alla mia causa. Il titolo del blog era Come baciare? I cinquanta modi migliori.
Strabuzzai gli occhi, per me esisteva solo un modo di baciare: con le labbra. La mia esperienza terminava lì. Sapere che qualcuno ci teneva a determinare i primi cinquanta mi faceva venire mal di testa. Cominciai a leggere l'articolo, vogliosa di imparare, ma superati i primi dieci modi mi trovai catapultata su notizie blande e dementi, per cui targai quel sito come non soddisfacente. Era divertente leggerlo, si buttava più sul comico che sull'informativo, ma eccetto qualche risata mi serviva a ben poco. Passai così la serata, cercando su internet e facendomi una cultura piuttosto specificale. Qualsiasi cosa trovassi, era più informata di me.
Era tardi quando sentii delle voci petulanti nel corridoio richiamare la mia attenzione. Ero piuttosto sorpresa, avevo dato per scontato che fossi l'unica nel mio dormitorio a quell'ora del venerdì. Mi avvicinai alla porta, sentendo sempre più baccano. Erano due voci, due ragazze che forse stavano litigando a qualche porta da me. Sentii un grande botto e qualche urlo, uscì qualche parolaccia pesante che mi fece deglutire aria e decisi di aprire la porta. Mi affacciai, non per curiosità ma per paura. Dall'altra parte del corridoio, a qualche metro dalla mia porta, Daisy stava sbattendo fuori una ragazza dai capelli celesti.
Ciel!
Daisy aveva il volto rigato di lacrime, i capelli acconciati in una piccola coda bassa e stava in canottiera. Solo in canottiera. Le mutande che portava mi fecero arrossire e distolsi lo sguardo dal suo didietro per puntarlo su Ciel. Lei non sembrava scossa, si sorbiva le grida di Daisy con il mento alto e le braccia conserte, strette al petto. Stavano l'una davanti all'altra. I capelli di Ciel erano lunghi oltre le sue spalle, la mascella così contratta che temetti potesse farsi male ai denti. Daisy gridò ancora qualcosa che non riuscii ad afferrare; cioè, ci riuscii ma non riuscivo a collegarlo a nessun discorso poiché non sapevo di cosa stessero parlando. Ciel non disse nulla, si limitò a darle le spalle e camminare via da lei. La postura dritta, l'andatura fiera. Daisy la guardò sparire oltre il corridoio prima di premersi le mani sugli occhi e strofinare. Altri singhiozzi le scossero le spalle e io mi resi conto di star camminando verso di lei quando il pugno che diede al muro un attimo dopo rimbombò nelle mie orecchie.
«Daisy! Ti sei fatta male?» chiesi subito, avvicinandomi ancora.
Daisy alzò lo sguardo su di me, sembrava smarrita. I suoi occhi erano spalancati, fresche lacrime dovevano ancora cadere, le ciglia si erano unite in mezzelune lucide. Scoprii che in realtà non aveva gli occhi propriamente verdi ma sfumavano verso l'indaco, erano di un verde acqua intenso e particolare. Prima che potessi fare un altro passo avanti e farle ancora la domanda, si gettò tra le mie braccia e mi strinse forte, sprofondando la testa nel collo. Singhiozzò così forte che venni scossa anche io. Dopo un attimo di stupore la strinsi a me cingendole la schiena e mi guardai attorno per vedere se Ciel si fosse accorta della disperazione della ragazza tra le mie braccia. Gideon mi aveva detto che Ciel non studiava alla nostra università e che la conosceva perché era la sorellastra del tatuatore, però ignoravo come potesse conoscerla Daisy e cosa fosse successo per farla disperare così animatamente. Senza smettere di sorreggerla, la convinsi a entrare nella sua camera e chiusi la porta alle nostre spalle. Le camere erano tutte uguali, lo immaginavo, ma quella di Daisy era decorata in maniera stravagante. Uno dei due letti era privo di lenzuola, sopra la lettiera c'era un materasso grigio, un po' ammaccato, e un cuscino anonimo. Quel lato della stanza era pieno di vestiti da tutte le parti, sulla scrivania, sulle sedie, sul pavimento. Per non parlare delle scarpe che pendevano da un comodino. L'altra parte, quella che doveva essere di Daisy, era estremamente in ordine, il letto rifatto e le mensole lucide. La feci sedere sul letto buono e mi misi accanto a lei, dandole il tempo che le serviva per rimettersi. Non ci mise molto, si asciugò le lacrime sotto gli occhi con le dita e si pulì il naso con un fazzoletto.
«Scusa» fu la prima cosa che disse.
Aveva la voce roca, come se con le grida e il pianto l'avesse sforzata troppo. Il naso era tappato, le guance rosse e gli occhi bagnati.
«Di solito non mi comporto come una pazza. Devi avermi sentito dalla tua camera.»
«In effetti, è così» ammisi, sorridendole. «Come conosci Ciel?»
Daisy alzò lo sguardo su di me, confusa come lo era stata quando mi ero avvicinata nel corridoio. Se fosse stato possibile, i suoi occhi si sarebbero ingranditi di più.
«La conosci anche tu?»
Scossi la testa. «Ci ho parlato una volta, da Tattoos By Todd, il negozio di tatuaggi. È l'amica di un mio amico.»
Mi resi subito conto di aver pensato a Gideon come un amico e mi chiesi quando fosse diventato tale. Dopo aver condiviso due uscite solitarie con lui o dopo che le sue dita mi avevano sfiorato in quel modo le labbra?
Daisy annuì distratta e riportò lo sguardo a terra. Le spalle le si erano incurvate.
«È la mia ragazza» disse Daisy con un sospiro. Poi si corresse. «Era la mia ragazza. Cioè, non abbiamo rotto ma sento che forse è tempo di farlo. Non lo so, stiamo litigando da settimane.»
Ero tanto sorpresa dalla notizia quanto amareggiata, il dolore di Daisy le incrinava la voce e sembrava empatico. Mi sentivo triste solo a pensare di provare un simile sconforto.
«Da quanto state insieme?»
«Poco più di sei mesi.»
«È molto tempo» commentai, sperando di essere d'aiuto. «Vi dovete volere un gran bene.»
Daisy rise ma non seppi se mi stesse prendendo in giro oppure se era davvero divertita dalle mie parole. In realtà speravo di essere di conforto. Non mi aspettavo certo che ridesse.
«Io le voglio un gran bene. La amo. Ma lei non mi vuole bene. In questi sei mesi, non mi ha mai detto che è innamorata di me.»
Ero troppo poco esperta di relazioni per sapere se fosse una cattiva o una buona notizia, se Daisy soffrisse giustamente oppure fosse semplicemente molto sensibile. Lei si alzò e si mise davanti a me, guardandomi dall'alto.
«Scusami, sto straparlando. Grazie per avermi aiutato.»
Quando mi mise la mano su una spalla, mi alzai e le sorrisi.
«Non ho fatto niente ma se hai bisogno di altro aiuto, sono a due porte da qui.»
Questa volta quando rise sembrò più sincera.
«Posso abbracciarti ancora?»
Piuttosto che rispondere, aprii le mie braccia. Sebbene non fossi brava con le relazioni sociali, me la cavavo piuttosto bene con il mostrarmi disponibile nei momenti del bisogno. Ero la prima persona che Addy chiamava dopo una lite con Mason, o con i suoi, o con qualsiasi compagno di classe o professore che fosse.
Mentre stringevo tra le braccia Daisy, sentivo di essermi guadagnata un'altra amica e il mio cuore si strinse per la felicità.
¤¤¤
Addy era tutta un fuoco appena le diedi la notizia, si agitava sulla sedia, starnazzava ed emetteva degli urletti imbarazzanti. Più volte Mason era passato dietro di lei e l'aveva guardata male, prima di farmi un cenno con la mano. Dopo avermi proposto di fare un tour della casa con il computer tra le braccia, si era seduta al tavolo della cucina e aveva ascoltato le mie paturnie. Le ricerche su internet non erano bastate, anzi, erano state del tutto inutili. Nessuna di loro spiegava come potesse essere memorabile un primo bacio, come non mostrarsi impacciati, quali sintomi introducono l'attrazione reciproca. Mi ero sentita così a disagio con questi argomenti che avevo selezionato la pagina in incognito su internet. Ma era stato tempo perso e sapevo che per tutte le risposte di cui avevo bisogno dovevo rivolgermi ad Addy. Lei era più che entusiasta, voleva aiutarmi.
«Prima ti ha sfilato la forcina dai capelli e poi ti ha sfiorato le labbra?» mi chiese, per la quinta volta da quando gli avevo rivelato gli eventi del weekend passato.
Annuii forzandomi per non alzare gli occhi al cielo.
«E non lo hai più visto da allora?»
«Nemmeno a pranzo. Di solito ci vediamo sempre lì, con Dakota e Connor.»
Addy esibì un broncio pensieroso e mise un dito sotto il mento con fare teatrale.
«Hai chiesto alla sua amica?»
«No, non voglio che capisca.»
«Capisca cosa?»
«Che potrebbe esserci qualcosa tra me e Gideon.»
Dirlo ad alta voce m'imbarazzava oltre ogni immaginazione. Mi sembrava impossibile sentirlo uscire dalle mie labbra. Quel contatto con un ragazzo era così raro nella mia vita che la mia testa non faceva che volare per mari inesplorati e immaginare eventualità che prima mi erano recluse. Ancora non sapevo come questo mi facesse sentire.
«Forse dovresti chiedergli un'altra uscita.»
«Cosa?» sentii urlare Mason e un attimo dopo aveva spinto via Addy dalla telecamera e aveva preso il suo posto. Il mio schermo si riempì dei suoi capelli rossicci e i suoi occhiali tondi.
«Hai invitato questo presunto Gideon a uscire già una volta?»
«Sì, perché?»
I suoi occhi si sgranarono, le lentiggini erano sfocate a causa della risoluzione del mio portatile.
«È proprio questa la domanda giusta, Lily! Perché lo hai fatto?»
Il suo tono mi avrebbe fatto ridere in circostanze diverse, usava un falsetto patetico. Scossi le spalle.
«Avevo voglia di passare del tempo con lui. L'ho portato a una mostra.»
Mason portò una mano alla fronte, disperato, mentre furenti parole uscivano dalle sue labbra. Non faceva che borbottare Perché è nata così? Non è colpa sua, povera piccola ingenua...
Addy lo spintonò per una spalla e poi si sedette sulle sue ginocchia. Faticosamente entrarono dell'obiettivo anche se metà busto di Addy e metà faccia di Mason rimanevano fuori.
«Non lo ascoltare, Lily, è un ragazzo.»
«Appunto perché sono un ragazzo, so quello che i ragazzi vogliono.»
«Non conosci Gideon» ribatté lei e cominciarono così a battibeccare, tenendomi fuori. Riaffiorarono alla mente ricordi vividi dei loro affettuosi litigi in ogni luogo e in ogni momento. Era bello sentirli starnazzare così, mentre le loro facce erano un caleidoscopio di espressioni contrastanti.
«Così non mi aiutate» decisi di dire, per interromperli.
Mason sbuffò e Addy si sporse in avanti.
«Ti piace Gideon? Intendo, ti piace piace?»
Mi piaceva piaceva Gideon? Non lo sapevo, non sapevo niente. Mi conoscevo ma quell'emozione proprio non sapevo interpretarla. L'idea che Gideon potesse piacermi era sopraggiunta solo nell'istante che avevo creduto potesse baciarmi. Prima, non mi aveva sfiorato nemmeno lontanamente i pensieri.
«Non lo so, Addy. Non lo conosco abbastanza.»
«Allora fai in modo di conoscerlo!»
«Senza portarlo ad altre mostre. Basta mostre!» s'intromise Mason ed io risi. Aveva sempre criticato i miei gusti e la mia etichetta, ma lo aveva fatto con tenerezza e placido riguardo. Credeva di aiutarmi a rendermi conto degli errori che facevo.
L'argomento Gideon fu presto sostituito dai loro argomenti, la facoltà di fotografia, alcuni professori, alcuni amici comuni. Quando ci salutammo, sentii che mi sarebbero mancati un po' di più. Quel Natale io e Addy non lo avremmo passato insieme, così come il ringraziamento o il capodanno. Mi sarebbe mancata ancora di più nelle festività, perché avevo il sentore che le avrei passate completamente da sola quell'anno.
¤¤¤
Venerdì notte Dakota rientrò molto tardi dalla serata e restò tutta la mattina del sabato seguente a letto, incosciente. Mi chiesi se l'avesse passata con Gideon, cosa avessero fatto insieme, e forse glielo avrei chiesto una volta che fosse tornata dal mondo dei sogni. Quel sabato decisi di uscire e fare una passeggiata per il campus. Avrei mangiato in mensa e poi sarei stata fuori. Per essere agli inizi di ottobre, il clima era insolitamente solare. C'era qualche nuvola in cielo ma sembrava pressoché bianca e non gridava acquazzone. Il vento era più freddo che gelido, e mi sarei potuta risparmiare il cappello e la sciarpa.
Connor era al solito tavolo ma accanto a lui c'erano solo i suoi compagni di football. Mi sentivo in soggezione a stare con loro, cercai con lo sguardo altri posti liberi ma prima che potessi precipitarmi a un tavolo, Connor mi aveva già individuato e mi aveva fatto cenno di avvicinarmi. Con lui non avevo riscontrato gradi difficoltà nei colloqui ma la ragione principale era che non ci parlavo poi molto. Fui sorpresa che m'invitasse al tavolo nonostante Dakota fosse assente. Decisi di avvicinarmi ma mi sedetti in disparte, lontana da tutti loro. Finii il pranzo in fretta e gli feci un cenno con la mano mentre andavo via ma non fui certa che mi avesse notato. Presto fui nei giardini, in quei cunicoli verdi che si estendevano a reti lungo tutto un perimetro circoscritto. Mi piacevano i motivi che decoravano i piccoli muretti in mattoni, come il prato verde risaltasse le mura di tutti gli edifici dello studentato. Durante l'orientamento avevo visitato ogni edificio e ogni sentiero, compresi i campi degli sport, gli uffici e il quartiere riservato alle confraternite. Avrei fatto una passeggiata e forse sarei passata proprio davanti a quei quartieri, oppure avrei potuto vagare per i campi sperando di venir intrattenuta da qualche partita. Decisi di lasciare la decisione al fato mentre m'incamminavo prendendo la via più vicina. I miei piedi mi avrebbero portato ovunque. Vagai per un po', vidi qualche volto familiare ma non salutai nessuno, non ero entrata in confidenza con i miei compagni di corso. Di nessun corso. Presto raggiunsi i magazzini dietro i quali c'era l'enorme auditorio per le grandi cerimonie o gli eventi importanti. Mi avevano detto che proprio lì il preside avrebbe tenuto i suoi discorsi. Quando l'avevo visto la prima volta ero rimasta piacevolmente affascinata dalla maestosità del palco. Ci avevano informato che molte recite erano state ospitate dall'università. Al centro del palco c'era un pianoforte a coda di un nero brillante. I miei occhi si erano illuminati. I miei piedi mi portarono lì, verso l'auditorio, perché curiosi di vedere se lo strumento era dove l'avevo visto l'ultima volta.
La sala era immersa nel buio e nel silenzio. C'era una luce sul fondo, l'unico spiraglio di speranza che si ergeva dal soffitto e cadeva esattamente sopra una figura nera. Il pianoforte era immobile al centro dell'enorme palco, a dividerci decine di posti a sedere vellutati di rosso. Mi chiusi lentamente la porta alle spalle, anche se fece un gran rumore a causa della sua stazza e rimasi in ascolto; speravo di poter udire passi da qualche parte, sentire qualcuno che era nei paraggi. Il silenzio mi avvolgeva come un abbraccio. La luce era spettarle, come se qualcuno si fosse dimenticato di spegnerla e io decisi di avvicinarmi, attratta dalla sua bellezza. Era di un giallognolo opaco, sotto il suo riflesso piccoli granuli di polvere volavano attratti gli uni dagli altri. Prima di salire sul palco chiesi a gran voce se ci fosse qualcuno. Nessun eco se non la mia voce giunse indietro.
Salii lentamente le scale di legno e i miei passi rumoreggiarono sul grande palco. Lanciai un'occhiata alla platea e mi mancò il fiato. C'erano posti a sedere anche in alto, sui soppalchi bellamente allestiti e decorati. Era uno stile classico che non si addiceva all'università ma ne fui piacevolmente colpita. Più mi avvicinavo al pianoforte più i miei passi rallentavano. Volevo godermi la sensazione delle dita sula superficie liscia e plastificata. Assieme al violino, il flauto traverso e l'arpa, il pianoforte era una fonte d'ispirazione per me. Esteticamente e simbolicamente lo consideravo bellissimo. Lanciai un'occhiata da tutte le parti, rimasi in ascolto un altro po' prima di sedermi cautamente sul seggiolino. Attorno a me l'oscurità creava un perfetto pretesto per estraniarmi dal mondo e pensare solamente a quei tasti fragili e scivolosi.
Avevo smesso di prendere lezioni di pianoforte solamente da un anno ma mi mancava avere almeno tre volte la settimana la possibilità di suonare. A casa non ne avevo mai posseduto uno e riempivo quella mancanza con cd allo stereo che risuonavano attorno a me mentre studiavo, leggevo o mi assopivo nel letto. Quel pianoforte a coda, in tutta la sua magnificenza, mi stava chiamando a sé. Appena premetti le dita sui tasti e schiacciai, risi di cuore. Risi perché ero stranamente euforica. Felice di trovarmi lì, cominciai a fare i conti con i primi accordi che ricordavo e con le scale più semplici. I microfoni non sembravano essere accesi, altrimenti avrei sentito delle bellissime note risuonare in tutta la platea. Lo spettacolo però sembrava essere riservato solamente a me.
Quindi mi buttai sulle note di Nocturne Opus 9 No.2, di Chopin, un testo famoso quanto commovente. Era stato uno dei primi che avevo imparato e non lo avevo più scordato. Chiusi gli occhi, come facevo sempre quando la musica vedeva il mondo per me, e lasciai che le mie labbra s'increspassero in un sorriso sincero. Mentre suonavo, non importava che non fossi brava nelle relazioni sociali, che avrei passato le vacanze da sola, che non aver mai dato un bacio si stava rivelando la complicazione più intrigata della mia vita.
La melodia usciva dai tasti e si riversava intorno a me e più andavo avanti più venivo profondamente coinvolta.
Il fastidioso rumore che somigliava a una busta di bottiglie di vetro che veniva rovesciata in un secchione mi fece sobbalzare. Dall'altra parte del palco, accanto alle quinte coperte da un pezzo di sipario blu, un ragazzo si era inginocchiato per raccogliere gli oggetti che erano caduti dallo scatolone che portava tra le mani. Mi alzai subito dallo sgabello e socchiusi gli occhi per cercare di capire chi fosse ma nell'oscurità i suoi lineamenti erano indistinguibili.
«Scusami» disse e riconobbi la voce. «Non volevo disturbarti, continua pure.»
Non mi sembrava carino dire che il momento ormai era passato, che lo aveva rovinato, così mi limitai a restare in silenzio. Poi uno scatolone venne lasciato scivolare sul palco e presto il ragazzo venne alla luce. I capelli biondi diedero le conferme ai miei timori. Josh Dickens aveva un grande sorriso di scuse sulle labbra sottili e i vestiti erano interamente impolverati. Indossava una tuta scura che metteva in risalto le gambe magre e una maglietta bianca sporca di non so quale tintura.
«Sei molto brava» esclamò, riprendendo tra le mani lo scatolone. Si avvicinò ancora di qualche paso mentre io rimanevo immobile e in silenzio.
«Mi riconosci?» chiese ancora. «Sono Josh.»
Annuii e mi riscossi, dovevo sembrargli un'imbecille.
«Ciao» dissi infine e cercai di sorridere.
Mi aveva sentito e adesso era davanti a me come se si aspettasse qualcosa. A parte i miei genitori, la mia insegnante e Addy, nessuno mi aveva mai sentita suonare. Non avevo mai partecipato a eventi o concorsi, la mia si limitava a essere soddisfazione personale.
Josh mi guardava con uno strano divertimento sul volto.
«Davvero, non volevo disturbarti» proseguì, ravvivandosi con una mano i riccioli che gli cadevano sulla fronte.
«Non mi hai disturbato» mi costrinsi a dire, la testa bassa. «Non dovrei essere qui.»
«È aperto a tutti gli studenti.» si affrettò a dire Josh. «Io sono qui in qualità di servo del teatro.»
Con un braccio indicò tutto lo spazio intorno a noi. Avevo voglia di sorridergli e andare via, perché si stava pericolosamente immettendo in una conversazione. Sapevo che era esattamente quello che la gente normale faceva ma io non ero brava. Balbettavo, arrossivo senza motivo, tenevo la testa bassa. Nessuno voleva avere più della prima conversazione con me e non li biasimavo per questo. Josh però sembrava gentile e non meritava la mia pazzia.
«Sei una specie di assistente?»
Non sembrò sorpreso dalla mia domanda, non poteva sapere che mi era costata un grande sforzo.
«Proprio così. Anche se sono iscritto al corso da quest'anno, sai per i crediti. Stavo mettendo in ordine sul retro e ti ho sentito suonare. Sei davvero bravissima.»
Mi crogiolai in quel complimento arrossendo e scuotendo la testa quindi afferrai la mia borsa e feci qualche passo indietro.
«Ho notato che a pranzo siedi con i giocatori di football.»
Josh voleva a tutti i costi continuare a parlare, o almeno così mi sembrava, mentre io volevo tornare a quando eravamo solamente io e il pianoforte.
Annuii alla sua esclamazione e mi sentii in dovere di dire: «Uno di loro è il ragazzo della mia compagna di stanza.»
«Mio fratello vuole entrate in squadra, si prepara alle selezioni da tutta la sua vita, praticamente. Era forte al liceo.»
Annuii ancora, senza sapere cosa aggiungere. Mi ricordavo del fratello, lo aveva accompagnato al secondo orientamento dell'università, quando anche Addy lo aveva salutato.
«Forse è meglio che vada.»
«Posso andare via io, se vuoi continuare a suonare.» disse lui, retrocedendo verso le quinte come io lo stavo facendo verso le scale.
«Devo comunque tornare nella mia stanza.» risposi e arrivai alle scalette. Non poteva sapere che mentivo ma mi dispiaceva se lo avevo offeso. Non volevo sembrare maleducata o scostante, una pazza, così guardai indietro e gli sorrisi.
«Grazie.»
Lui mi sorrise di rimando e mi fece un cenno con la mano prima di darmi le spalle e tornare da dove era venuto. Cercai di controllarmi e non correre verso la salvezza, ovvero la porta.
Alzai lo sguardo e mi bloccai. Sulla soglia, circondato da un'aureola di luce bianca che filtrava dalle nuvole, c'era Gideon. Avevo sperato di incontrarlo per tutta la settimana ed era stato lui a trovare me. Forse era capitato lì per caso ma qualcosa nel suo sguardo mi diceva che mi stava aspettando. Lo rividi seduto sul muretto davanti alla parrocchia, teneva le braccia incrociate come allora ma il mento era alto e puntava verso di me. Presi coraggio e continuai a camminare. Gideon si spostò quando gli fui davanti e mi fece la gentilezza di aprire di più la porta e lasciami passare per prima.
«Ciao» gli dissi, una volta che entrambi fummo fuori.
Lui mi affiancò. «Ciao.»
Stavo per chiedergli cosa ci facesse lì quando mi anticipò.
«Stai tornando al dormitorio?»
Annuii mesta.
«Perfetto, ti accompagno.»
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