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40. Ci vuole amore e coraggio

Gideon aveva comprato il biglietto nel giro di mezz'ora, pagando di suo pugno; non importava quanto mi fossi opposta, non si era mosso dal suo punto e un'ora dopo la disastrosa chiamata di Connor stavo stringendo convulsamente le mani sul cruscotto dell'auto del signor Markway.

«Chiamami appena atterri.»

«Ok.»

«E chiamami quando arrivi in ospedale.»

Girai la testa verso Gideon, le labbra strette tra i denti. Non la finivo di tremare.

«Andrà tutto bene.»

Non faceva che ripeterlo ma io non ne ero così certa. Eravamo corsi in casa di Henry e avevo rimesso nel borsone quei due panni tolti da quando eravamo arrivati. Non volevo lasciare Gideon ma Connor sembrava disperato ed ero talmente preoccupata per Dakota e le sue doglie in anticipo che non avevo nemmeno tenuto conto di dover attraversare il paese completamente sola. Ebbi l'impressione che Gideon violò tutte le leggi della strada in quanto arrivammo all'aeroporto dopo appena venti minuti esserci messi in macchina, ma non vi badai. Parcheggiò abusivamente davanti a una delle entrate e mi accompagnò dentro. Accanto alla fila, mi consegnò una mazzetta di chiavi.

«Sono del mio appartamento. Se dovesse servirti, usalo come punto d'appoggio. Me le ridai quando vi raggiungo.»

Non ebbi il coraggio di ribattere o chiedere altre informazioni, mi limitai  sospirare e trattenere le lacrime. Quando la sua mano mi carezzò i capelli, non resistetti e mi lasciai andare contro il suo petto. Mi cinse subito con il braccio libero e posò il mento sulla testa, tenendomi stretta. Sprofondai il viso nella sua maglia, inalando il suo odore per farlo entrare in circolo nel mio organismo e calmarmi. Avrei voluto fermare il tempo a quando mi abbracciava per non farmi cadere dal divano, subito dopo aver cenato con una vaschetta di gelato al pistacchio.

«Aspetto con te.»

L'attesa durò due ore e mezzo. Mi andai a rinfrescare nei bagni pubblici ma non ebbi il coraggio di cambiarmi, così salii sull'aereo con il vestito e le infradito. Gideon mi attirò a sé per un ultimo saluto prima di lasciarci e mi stampò un bacio tra i capelli. Promisi che l'avrei chiamato appena avessi potuto.

Appena mi rannicchiai contro i sedili dell'aereo, sentii cadermi addosso tutta la stanchezza emotiva che mi aveva provato in quei giorni. Sentivo scorrere l'elettricità nelle veste, ininterrottamente, e il cervello sembrava sempre attivo. Chiusi gli occhi e mi persi in un buio senza sogni. Quando tornai alla realtà mancava ancora qualche ora. Non riuscii a distrarmi molto e i tutti i messaggi a cui Connor non aveva risposto non facevano altro che alimentare la mia immaginazione. Così finivo per deprimermi e spaventarmi e mi prudevano le mani dall'ansia.

Il viaggio dal taxi all'ospedale lo passai al telefono, in continua apprensione. Connor era ancora irraggiungibile e Gideon mi ripeteva senza sosta che tutto sarebbe andato bene. Avrei voluto credergli.

Le luci al neon dell'ospedale non fecero altro che peggiorare il mio mal di testa. Pagai il tassista in fretta e mi defilai dentro, il borsone che mi pesava su una spalla e il volto ridotto a una cera melodrammatica. Appena arrivai all'accettazione, un'infermiera dai capelli ricci sgranò gli occhi piccoli come quelli di un topo.

«Como posso aiutarla?»

Snocciolai in fretta le mie urgenze e la seguii fino alla sala d'aspetto adeguata. Lì ad appettarmi c'era Connor che non si fermò a giudicare il mio aspetto disastroso e mi strinse al petto. Troppo stanca per sorprendermene lasciai cadere il borsone ai nostri piedi e mi aggrappai alle sue braccia. Appena ci staccammo, notai quanto fosse ridotto male: il viso era scavato e intorno agli occhi c'erano due macchie violacee, segno che non doveva aver dormito molto.

«È in travaglio da otto ore.»

Ci lasciammo cadere su un paio di sedie di plastica parecchio scomode ma mi sembrava una benedizione essere arrivata lì sana e salva.

«I parti possono impiegarci molto di più, non ti preoccupare. Andrà tutto bene.»

Sperai di aver usato lo stesso tono rassicurante di Gideon ma Connor sembrava impassibile a qualsiasi forma di conforto.

«Qualcosa è andato storto, il bambino è prematuro.»

I suoi occhi verdi, di solito tanto brillanti, adesso erano offuscati dalla preoccupazione e dalle lacrime. Gli carezzai la schiena e trattenni le mie lacrime.

«Far nascere un bambino non è uno scherzo, delle volte capita qualche complicazione. Ma Dakota è forte e vedrai che presto ti porterà a casa tuo figlio. O tua figlia.»

La sua testa sprofondò tra le mani e improvvisamente mi salì una rabbia incommensurabile all'idea che i genitori di Dakota, e nemmeno quelli di Connor, non fossero lì presenti ad aiutare.

«Ti serve qualcosa, hai mangiato?»

Scosse la testa. «Di sotto c'è il bar, puoi cenare lì.»

Non mi ero resa conto che fosse già l'ora di cena. Il viaggio e il fuso orario mi avevano scombussolato. Comunque non avevo fame né avrei lasciato di nuovo da solo Connor, così mi limitai a prendere due bottigliette d'acqua dalla macchinetta in sala e quando gliene porsi una, mi sorrise.

«Mi dispiace averti spaventato» disse dopo un po', mentre la stanchezza prendeva il sopravvento. «Ma Dakota voleva che tu fossi qui con noi.»

«Perché io?»

Alzò una spalla e mi guardò negli occhi, come a verificare che fossi pronta per ricevere la risposta. Raddrizzai le spalle.

«Avrebbe voluto dirtelo lei ma l'hanno portata in sala operatoria prima che facesse in tempo.»

Mi si aggrovigliò il cuore e non in maniera piacevole.

«Se dovesse...» La voce gli si mozzò e si prese qualche momento. «Se non dovesse farcela ma il bambino sì, vuole che tu ti penda cura di lui assieme a me.»

La vista mi si annebbiò e pensai che sarei sventa da lì a momenti. Mi aggrappai al muro per evitare di cadere a peso morto sul pavimento sterile dell'ospedale mentre sulla guancia di Connor scendeva una lacrima.

«Io... Perché?»

«Tu e Koti siete più simili di quanto pensi, Lily. Sei stata la sua prima vera migliore amica. Era talmente frenata dal giudizio dei genitori sulla nostra relazione da non vivere appieno il nostro amore. Solo dopo averti conosciuto, ha saputo reagire. Non li aveva mai affrontati, preferiva ignorarli e obbedire qualora la chiamassero, come un cagnolino. Nemmeno io riuscivo a farla ragionare. Poi sei comparsa nella sua vita e, senza volerlo, le hai insegnato tantissimo. Non mi ha raccontato i tuoi fatti personali ma so che anche tu hai dei genitori particolari, severi e che ti hanno soffocato molte volte. Ha visto in te tutto ciò che lei non è riuscita a essere. Prima di... Prima di andare in sala operatoria mi ha fatto promettere che ti avrei spiegato il perché della sua decisione. Sa che non ti tireresti mai indietro perché sei troppo buona ma, se non dovessi sentirtela, sarà meglio che lo dici subito. Crede che tu e lei siate uguali, che abbiate un passato simile e dei ragazzi che vi amavo spropositatamente, anche contro l'approvazione della vostra famiglia. Così, invece che lasciare suo figlio senza una figura materna, ha deciso di cercarne una che ricordasse il più possibile la sua mamma.»

La sua voce rotta e le sue lacrime silenziose mi fecero esplodere. Balzai in piedi, incapace di gestire la rabbia. «Tutto questo è ridicolo! Dakota starà bene e potrà prendersi cura lei di vostro figlio.»

Connor non rispose, si limitò ad affondare di nuovo la testa tra le mani. Mi sentivo agitata, rabbiosa e molto triste. Dakota era stata un'ottima amica, mi aveva guidato nel cunicolo labirintico del mio primo anno, aveva saputo aiutarmi nella mia relazione con Gideon e c'era sempre stata quando avevo avuto bisogno di lei. Non mi ero resa conto di quanto le volessi bene fino a quel momento. La notizia che aveva abbandonato l'università mi aveva intristito talmente tanto che avevo preferito non pensare né a lei né a Connor per molto tempo. Forse anche per Dakota gli addii erano difficili.

Però adesso voleva che facessi da madre a suo figlio, nel caso in cui il parto fosse andato storto. Mi veniva da vomitare. Corsi nel bagno più vicino perché avevo bisogno di qualche istante da sola. Di getto chiamai Gideon. Rispose al secondo squillo ma, prima che potessi raccontargli gli ultimi eventi, scoppiai a piangere. Non mi chiese cosa fosse successo perché tra un singhiozzo e l'altro riuscii a rassicurarlo che Dakota era in sala operatoria ma ancora non si sapevo nulla. Piansi per un buon quarto d'ora, forse venti minuti, scombussolata da tutta la tensione accumulata. Avevo i nervi a fiori di pelle, gli occhi pesanti e le viscere sottosopra. Quando attaccai, Gideon era più preoccupato di prima. Temetti che prendesse il primo aereo e ci raggiungesse ma lui aveva bisogno di altro tempo con la sua famiglia, così gli inviai subito un messaggio per rassicurarlo. Tornata nella saletta, vidi un dottore in camice verde parlare con Connor. Corsi da loro e chiesi spiegazioni.

«È nato» mormorò Connor con il labbro inferiore tra i denti. «È un maschio.»

Il dottore non disse nulla sui nostri aspetti trasandati e disperati, diede una pacca sulla spalla di Connor e fece spazio a un'infermiera che stava portando un esserino minuscolo, un po' violaceo, dentro l'incubatrice. Connor diede le spalle a suo figlio e scosse la testa.

«Come sta? Dakota, come sta?»

Io mi avvicinai all'infermiera con le mani tremanti e lei cercò di sorridermi, anche se il suo volto era macabramente storto in una smorfia di disagio. In un tripudio di coperte e tubi c'era un bambino che respirava tentoni, con le due fessure per gli occhi strette e la bocca minuscola. Aveva le guance macchiate e il pancino gonfio, ma era bellissimo. M'inginocchiai accanto a lui e posai un palmo sul vetro, trattenendo altre lacrime.

Riuscii a distinguere poche parole dalla conversazione tra il dottore e Connor, ma bastarono per rassicurare il mio cuore. Dakota era ancora in sala operatoria, presto avrebbero avuto notizie, per ora bisognava pregare. Quando l'infermiera portò via l'esserino, Connor non l'aveva ancora guardato.

«Sta bene» mormorai, sedendomi di nuovo vicino a lui. «Il bambino sta bene. L'ho visto, è bellissimo e forte proprio come Dakota.»

Connor aveva creato un muro attorno a sé e sentire parlare del bambino che aveva fatto del male alla ragazza che amava con ogni probabilità lo faceva stare ancora peggio.

Nelle due ore successive ingannai il tempo prendendo qualcosa da mangiare per entrambi mentre un'infermiera ci aggiornava ogni mezz'ora sulle condizioni del bambino. L'ultima si avvicinò con le mani intrecciate tra di loro, presa dall'ansia.

«Lei è il padre?» domandò a Connor.

Lui era stravaccato su una sedia. Le testa che ciondolava contro il muro. Non rispose e io annuii alla signora.

«Sa già che nome dare a suo figlio, signor Jean?»

«No.»

«Vuole vederlo?»

«No.»

Scossi un po' la testa e mi scusai con l'infermiera ma lei fece finta di nulla e se ne andò senza fiatare.

«Dovresti vederlo, Connor» gli dissi dopo un po'. «Ha bisogno di te adesso.»

«Koti ha bisogno di me» ribatté lui con voce dura. «E io non posso fare niente per lei.»

Capivo il suo dolore e la sua preoccupazione, ma ormai non erano soltanto in due in quella vita. Adesso che era nato suo figlio doveva fare sul serio. Andai a vedere il bambino da sola. Era ancora avvolto dai tubi, ancora un esserino tremolante e debole e mi feci intrattenere da tutti i dettagli più macabri del parto per poter informare adeguatamente Connor.

L'alba si annunciò dalla finestra in un lampo di arancio e rosa. Di Dakota ancora nessuna notizia. Connor era riuscito ad appisolarsi, stremato, ma si era agitato per tutto il tempo e si era risvegliato un'oretta più tardi. Io mi ero cambiata, sopportando i rigidi spazi di un bagno dell'ospedale.

All'ora della colazione, la stessa infermiera che aveva portato il bambino la prima volta e che era rimasta a sorvegliarci per tutta la notte, ci portò un paio di cornetti.

«Grazie.»

Si sedette accanto a noi, sorseggiando il suo caffè. Quando Connor le andò vicino, lei gli sorrise piano.

«Allora, come sta il bambino?»

«Sta bene. Sarà nell'incubatrice per qualche tempo ma ha strillato come un piccolo demonio, ha dei buoni polmoni. Lo ricoveriamo assieme alla madre.»

«Questo vuol dire che è sveglia? Sta bene?»

«Starà bene quando l'operazione sarà finita. La ricoveriamo appena esce da lì.»

Nella voce della gentile infermiera c'era della speranza ma non della sicurezza, e solo quella avrebbe potuto calmare Connor. Gli carezzai una spalla, confrontata dal suo improvviso interesse per il bambino.

«Possiamo vederlo?»

L'infermiera si alzò. «Certo, vi ci posso portare anche adesso.»

Il ragazzo era ancora riluttante ma quando gli offrii una mano, l'afferrò e strinse forte le dita. Davanti a quei vetri sterili Connor si sciolse. Le labbra strette tra i denti erano diventate viola come il tenero faccino di suo figlio prematuro, che sulla testa aveva un capellino grigio che gli calava sugli occhi e i suoi attributi erano coperti da un pannolone.

«È tuo figlio» mormorai emozionata al suo orecchio, mentre lo abbracciavo. Lui posò la fronte sulla culla di vetro, dove un bambino Biancaneve riposava, e si lasciò cullare dal suono del suo piccolo cuoricino attraverso il monitor. Quel piccolo mirtillo non era capitato per caso, era stato scelto, programmato, da due genitori spettacolari, che si amavano e avevano amato lui già prima che fosse concepito. Non sopportavo l'idea che Dakota avrebbe potuto non conoscere suo figlio, così com'era ingiusto che lui fosse privato di una figura tanto genuina come quella di Dakota. Era nata per far star bene le persone che amava e, così come i miei, i suoi genitori non riuscivano a capire quanto il suo amore per Connor la sostenesse in questo.

Decisi di lasciare soli padre e figlio per qualche istante, ma mentirei se dicessi che lo feci solo per loro. Avevo bisogno di un letto, di una doccia e di qualche aspirina. Non avevo avvisato Sawyer né i miei genitori del mio improvviso ritorno, non volevo né che si preoccupassero né che in qualche modo mi distraessero da ciò che ero venuta a fare: sostenere Connor e Dakota. L'unica persona che volevo al mio fianco era Gideon e, sebbene sapessi quanto fosse sbagliato pensare a noi due in un momento del genere, del delirio era il suo volto che immaginavo. I ricordi della nostra ultima conversazione, di ciò che avrei voluto confessare e di ciò che avrei voluto sentire da lui mi tenevano con la mente lucida.

Gideon mi amava. Me l'aveva detto dopo tre mesi che c'eravamo lasciati, credendo di non potermi avere perché ormai io avevo un altro ragazzo, Matthew, con il quale mi sarei presto sposata. Era tutto così assurdo che quasi scoppiai ridere.

Io che mi sposavo, Gideon che mi amava. E non era nemmeno una soap opera. Aveva confessato di aver lasciato che lo lasciassi, sempre che fosse possibile, perché voleva dare un futuro alla mia famiglia. Per lo stesso motivo aveva cercato Sawyer e l'aveva discretamente fatto entrare nella mia vita. E tutto quel tempo speso a rimuginare sui miei errori, su ciò che non andava in noi, era stato vano. Se lui mi avesse detto la verità fin da subito avremmo potuto affrontare tutto insieme.

Dentro sapevo che non si trattava solamente di questo. Sapevo che Gideon aveva imparato ad amarmi con il tempo e con la mia pazienza, con i miei continui ritorni. Perché ero riuscita a stargli accanto e lui era riuscito a stare accanto a me. Io lo amavo perché dipendevo da lui, era stato così fin dall'inizio, ma lui?

Quando l'avevo lasciato gli avevo detto cose orribili, tratta in inganno dalla furia e dal cuore che mi si spezzava. Erano i pensieri più oscuri che non avrei mai voluto venissero alla luce. Non poteva essersi dimenticato di quando avevo accennato al fatto che noi due fossimo un errore, che io pensassi fin dall'inizio quanto la nostra attrazione fosse sbagliata. Avevo fatto degli errori, avevo sbaglio io per prima, ma me n'ero resa conto e avevo cercato di rimediare imparando a conoscerlo e finendo così per innamorarmi perdutamente.

Gideon era stato il mio primo bacio, il mio primo ragazzo, la mia prima cena con il gelato. L'unico errore che avevo fatto era stato dargli tutto fin dal principio ma a me sembrava così giusto, e mi aveva fatto così bene, che non poteva che trattarsi di un errore di giudizio. Il mio amore andava bene, con tutte le sue problematiche e tutti i miei sensi di colpa, tutte le mie paranoie e le mie ansie.

E adesso sapevo che anche quello di Gideon andava bene, per me. Aveva saputo proteggermi, anzitutto da me stessa. Mi aveva guidato, preso per mano, spronata ad andare avanti e scoprire lati di me stessa, della vita, che da sola non avrei mai saputo scorgere. Mi rendeva la ragazza che avevo sempre sperato di diventare, soprattutto perché, grazie a lui, adesso sapevo come mantenerla, all'infuori di qualsiasi relazione amorosa. Non sarei più stata una Lily diversa da quella che Gideon era riuscito a far emergere, e andava bene così.

Quando tornai da Connor, lui stava mormorando qualcosa al suo bambino, che aveva aperto gli occhietti scuri. Qualcosa mi diceva che li avrebbe avuti belli come quelli del padre. Mi avvinai e gli carezzai ancora il braccio. Lui alzò gli occhi e mi sorrise, il primo barlume di speranza e felicità dopo tante ore strazianti.

La porta alle nostre spalle si spalancò e il dottore entrò a passi fermi.

«Sto cercando Connor Jean.»

Connor balzò in piedi, gli occhi sgranati. «Sono io. Che cosa succede?»

«Può seguirmi nel corridoio, per favore?»

Connor mi lanciò uno sguardo e si allontanò, le labbra strette tra i denti. Lo conoscevo da abbastanza tempo da sapere che ormai quello era diventato un gesto difensivo contro il batticuore. Eppure non l'avevo mai visto così agitato, lui si era sempre goduto la vita al college tra gli amici, il football e Dakota. Adesso incombevano sulle sue spalle pensieri troppo pesanti per un ragazzo tanto giovane.

Lo vidi parlottare con il dottore ma non capii su cosa stessero discutendo. Poi si portò le mani tra i capelli e io strinsi gli occhi. Non volevo crederci. Il dottore cercò di confortarlo con una mano sulla spalla e io trattenni un sussulto. Il tempo si era fermato.

Quando il dottore se ne andò, Connor era ancora immobile nel corridoio. Corsi da lui, le mani che tremavano. Allungai un braccio ma ci ripensai. Alzò la testa e notai che stava... sorridendo.

«È sveglia. Chiede di noi.»

•••

La porta si aprì lentamente e il suo inquietante cigolio risvegliò il bambino addormentato.

«Sempre il solito guastafeste» borbottò Dakota, prima ancora che Gideon entrasse completamente nella stanza. Io mi alzai in piedi e gli andai incontro, abbracciandolo subito.

C'eravamo sentiti al telefono il giorno prima, quando avevamo fatto visita a Dakota e chiesto le prossime mosse ai dottori. Saputo quello che sarebbe potuto succedere, Gideon aveva deciso che con la sua famiglia avrebbe ricucito gli ultimi strappi in un altro momento ed era salito sul primo aereo, da solo.

Mi strinse le braccia attorno alla schiena, tirandomi contro il suo petto.

«Qualcuno ha sentito la tua mancanza, eh, Lily.»

Entrambi sciogliemmo l'abbraccio ma rimanemmo vicini e ci girammo verso Connor, sdraiato accanto a Dakota, che aveva da poco allattato il bambino e se lo teneva stretto su una spalla.

«Hai un aspetto orribile» disse Gideon, nella loro direzione.

«Porta rispetto» gli rispose Connor.

«Ho appena partorito, idiota» rimbeccò Dakota.

Sia io sia Gideon ridemmo. «Stavo parlando con te, casanova» rispose a Connor, mentre alla ragazza ammiccò. «Tu sei sempre bellissima.»

Mi sentii ridicola a ripensare quanto fossi stata gelosa della sua amicizia con Dakota in passato, loro due si comportavamo proprio come fratello e sorella.

Il bambino aveva attaccato una cantilena bassa, gutturale, e si guadagnò qualche piccolo colpetto sulla schiena da parte della madre.

«Non mi presentate la creatura?»

Il volto di Dakota si distese e brillò; anche con la coda sfatta, le braccia prive di tutti i suoi braccialetti colorati e le occhiaie, emanava il fascino di una mamma amorevole. «Gideon, ti presento Rhys Koti Jean, primo del suo nome.»

Gideon si avvicinò e solo allora vidi che tra le mani aveva una busta. «Piccolo pensiero per l'esserino primo del suo nome.»

Connor si mise a sedere e prese la busta, ringraziando Gideon con una pacca sul braccio. Estrasse un paio di calzini azzurri e un disegno accartocciato.

«Ah, quello è da parte di Todd, sono passato da lui prima di venire qui. Daisy e Ciel vi mandano le congratulazioni. Passeranno appena ti sarai rimessa.»

Una lacrima scese dalla guancia di Dakota e Gideon ne rimase un po' sorpreso.

«Sono gli ormoni» la giustificò Connor togliendogliela con il pollice. «Un'ora fa ha pianto mentre stavo cambiando il bambino.»

Dakota mise il broncio e si strinse il pargolo al petto. «Siete bellissimi insieme.»

Lo erano, tutti e tre. Adesso che Dakota stava bene, Connor era tornato al suo solito buon umore, puntellato dall'immensa gioia di riunire tra le sue braccia la sua nuova famiglia. Lo spavento del giorno prima finalmente era stato spazzato via con il sole e adesso non dovevamo far altro che goderci tutto ciò che le pregherie ci avevano offerto.

Gideon posò distrattamente una mano sulla mia schiena e si sporse vicino al mio orecchio. «Vieni, ti porto a casa.»

Non avevo le forze per replicare. Avevo dormito su una brandina subito dopo aver visto Dakota sana e salva nel suo lettino e dopo averla abbracciata a lungo. Poi l'avevo lasciata con Connor e mi ero appisolata in una stanzetta buia. Avevo la schiena a pezzi e il mal di testa pungolava i miei occhi senza sosta da due giorni interi.

Salutammo i ragazzi, il bambino e uscimmo dall'ospedale in silenzio. Nel parcheggio ad aspettarci c'era il trasformer rosso che, inspiegabilmente, mi era mancato da morire. Lì dentro mi sentivo come in un castello, fatto di motori e cilindri, ma pur sempre principesco. Forse perché era Gideon che lo guidava.

Mi lasciai andare contro il sedile abbassando il finestrino per prendere un po' d'aria fresca in faccia. Avevo bisogno di una doccia al più presto e di qualche medicina, oltre che di un cuscino comodo. Non feci caso al percorso che facemmo ma quando vidi la facciata della casa dei miei, mi girai verso Gideon, confusa.

«Non li hai avvisati che eri tornata?»

«Non ne ho avuto il tempo in realtà.»

Era assurdo pretendere che mi portasse nel suo appartamento perché tra di noi c'era ancora quel muro invisibile che ci divideva. Così aprii la portiera e saltai giù. Poco dopo Gideon mi fu accanto. Trafugai nel borsone alla ricerca del suo mazzetto di chiavi e gli consegnai le chiavi.

«Grazie per il passaggio.»

«Grazie per il viaggio» replicò lui, riferendosi all'Illinois e tutto ciò che era successo laggiù.

Entrambi fummo catturati dal vociferare di qualche ospite nel cortile dei miei e io trattenni l'esasperazione. Da una parte avrei volentieri evitato di farmi vedere in questo stato da altre persone, dall'altra sapevo che davanti ai loro amici i miei genitori non avrebbero mai fatto una scenata. Mi avvicinai lemma all'ingresso ma quando Gideon mi venne dietro e mi afferrò per un polso, mi girai senza problemi.

«Lily, ci sono ancora tante cose che vorrei dirti ma non ne ho avuto il tempo.»

«Che genere di cose?»

La mia testa le immaginava, il mio cuore le sperava, ma ero troppo stanca per affrontare la conversazione in quel momento. La porta che si apriva alle mie spalle fu la mia salvatrice.

«Lily» disse Matthew Cavendish, sinceramente entusiasta di vedermi. «Che cosa ci fai qui? I tuoi genitori hanno detto che non ti saresti fatta viva. Beh, che bella sorpresa.»

Qualcuno mi odiava, profondamente. Era tutto un grande scherzo. Gli occhi di Gideon si scurirono, passarono dall'alluminio al piombo, il colore di una tempesta estiva. Non l'avevo mai visto tanto infuriato.

«E tu che ci fai qui?» chiesi invece frapponendomi tra i due.

Matt guardò Gideon ma non gli rivolse la parola. «Pranzo di famiglia, dentro ci sono tutti.»

«Stavi andando via?»

«Volevo fare una passeggiata, vuoi venire con me?»

Gideon lo prese come un'offesa. Solo questa teoria può giustificare quello che fece un attimo dopo. Mi sorpassò e gli finì davanti. Era più alto e più tozzo, e aveva lo sguardo decisamente più incazzato.

«Ho intenzione di lottare per lei, Matthew.»

Il mio cuore s'incastrò nell'esofago e sperai di rimanerci secca, così non avrei dovuto affrontare le conseguenze di quel disastroso incontro. Matthew osservò Gideon con un sopracciglio alzato.

«Buona fortuna, allora» disse, con tono allegro e sinceramente speranzoso. Gideon gli lanciò un'occhiataccia, una proprio brutta. Presto gli sarebbe uscito il fumo dalle orecchie.

«Non mi serve fortuna» mormorò, a denti stretti. Stava andando di male in peggio e fui certa che anche Matthew avesse percepito il tono minaccioso e aggressivo di Gideon, speravo solo che non capisse fosse rivolto tutto a lui.

«Ancora meglio... » borbottò, preso dall'ansia. Mi lanciò un'occhiata per chiedermi aiuto e io fui presa da un tale senso di colpa, una così profonda delusione per me stessa, che mi misi tra loro due, interamente rivolta a Gideon. Questo stava per ribattere, con un piede spostato in avanti e il busto inclinato, ma io gli posai le mani sul petto.

«Matthew ed io non stiamo insieme.»

I suoi occhi si posarono subito di me, ammattiti. «Cosa?»

«So quello che Todd ha letto sul giornale, ma è solo un pettegolezzo, una battuta detta dai suoi genitori che sperano in un futuro per me e Matt.»

Il nomignolo lo fece infuriare di più ma, piuttosto che sbraitare, si chiuse a riccio. Conoscevo benissimo quella tattica, così quando fece un passo indietro, io ne feci uno avanti.

«Gideon...» m'interruppi perché non avevo scuse.

E quando mi diede le spalle e andò via, semplicemente lo lasciai andare.

•••

Il giorno dopo, munita di speranza, m'incamminai diretta verso il suo appartamento.  Avevo dormito, sbraitato contro i miei genitori, parlato con Sawyer, Dakota e Addy e, dopo un'attenta analisi su me stessa, avevo deciso che cosa fare.

Ero davanti al suo citofono due ora prima del pranzo, sperando che le cose andassero bene. Dopo il quinto tentativo, capii che non era a casa. Mi rifiutavo di credere che mi stesse evitando. Tentai da Todd che, con la solita gentilezza, mi disse che non lo sentiva dal giorno prima. Cominciai a vagare per le strade, attendendo un segno divino, o qualcosa del genere. Ero tentata di chiamarlo ma preferii schiarirmi le idee. Come al solito, anche se ero certa dei miei sentimenti, i dubbi mi attanagliavano.

Passai davanti all'osservatorio, gli sorrisi di rancore ed entrai nel parco in cui Gideon mi aveva portato per il nostro primo appuntamento, anche se allora avevo finto non fosse così. Il Seward Park era rimasto lo stesso, ma io no. Quando mi sedetti su quella stessa panchina e guardai verso il lago scintillante, sentii l'evanescente presenza della giovane ragazza che ero stata solo pochi mesi prima, così ignorante su come girasse il mondo. Allora accadde qualcosa di magnifico. Come la muta di un serpente, si sciolse da me quell'anima diventata un'ombra e mi salutò mentre andava a danzare sulla superfice che rifletteva il sole. Lentamente si librò in aria e svanì.

Allora mi arrivò un messaggio.

Todd mi ha detto che mi stai cercando. Dove sei?

Sorrisi contro lo schermo, risposi in fretta e aspettai che Gideon mi raggiungesse. Se fosse venuto, allora avrei saputo quanto era arrabbiato con me. Per ingannare il tempo, ripetei la scala cromatica a intermittenza, godendo della serena mattina estiva. Tutto il verde che mi circondava era sufficiente perché sperassi che con Gideon sarebbe andato tutto bene.

Si sedette accanto a me silenziosamente, non lo avevo sentito arrivare, ma la distanza che mise tra di noi riuscì a ferirmi un po'.

«Ti ho mai detto che sei l'unica persona che riesce costantemente a sorprendermi?»

Le sue parole mi fecero sussultare ed emozionare. «No, non credo» risposi mormorando.

«È così.»

Presi un respiro profondo e mi avvicinai un po', giusto per sovrastare il rumore dei bambini che giovano a palla poco lontano da noi. «Gideon, mi dispiace non averti detto nulla riguardo a Matthew, ma non si è mai presentata l'occasione giusta. Non avrei dovuto mentirti, so che odi le bugie.»

«Non odio le bugie» disse. «Odio dire le bugie. E odio che qualcuno che amo le dica a me. Ma la tua non è stata una bugia. In realtà capisco perché non me l'hai detto. Eri spaventata e stavi cercando di proteggerti. All'inizio mi sono incazzato, ma non con te. Ero incazzato perché avevo questa furia dentro, tutta dovuta al fatto che Matthew potesse averti e io no. Quando mi hai detto che non stavate insieme, bè, mi sono sentito il bastardo più felice sulla faccia della terra.»

Sgranai gli occhi, incapace di contenere la sorpresa che quella rivelazione mi aveva suscitato. «Allora perché te ne sei andato via così? Credevo mi odiassi.»

Si girò verso di me e poggiò un gomito sullo schienale della panchina. «Odiarti? Io?»

Lo disse come fosse una cosa impossibile a realizzarsi e io sorrisi. Gli sorrisi in faccia, spudoratamente, stanca di dover trattenere i miei sentimenti.

«Il fatto è, Lily» riprese, avvicinandosi ancora. «Che brucio d'amore per te. Costantemente, dal primo istante in cui ci siamo incontrati. Bruciavo allora dalla curiosità, brucio adesso dalla voglia. L'unica cosa che so è che, passare un altro giorno senza di te mi distruggerebbe. Se c'è da imparare, sarò il migliore degli allievi; se c'è da insegnare, il migliore dei maestri.»

Mi sciolsi così tanto che temetti Gideon dovesse poi raccogliermi con una paletta. Mi avvicinai così tanto da trascinarmi sul suo grembo e lui strinse le mani dietro la mia schiena.

«Ti prenderai cura di me?» mormorai, abbassando la fronte contro la sua.

«E tu di me?»

Sembravano promesse, quelle, e progetti per il futuro.

«Dobbiamo perdonarci ancora tante cose, Gideon. Dobbiamo ancora imparare come amarci senza farci del male.»

«Impareremo, con la pratica. Nel frattempo, ti prometto di ricordarti che ti amo ogni giorno fino a che non mi consumerò.»

«Esagerato» borbottai, mezza divertita e mezza imbarazzata.

«Ti amo» disse invece lui, fermo, deciso, serio. «Comincerò da adesso. Ti amo, Lily.»

Non resistetti più e attaccai le nostre labbra. Fu veloce e potente, per suggellare il nostro amore.

«Ti amo anch'io.»

«Lo so.»

Scoppiai a ridere e gli diedi un buffetto tra i capelli, che subito si trasformò in una carezza. Chiuse subito gli occhi e mi strinse più forte.

«Grazie per avermi portato dalla tua famiglia, è stato molto bello conoscerli. Milo è un ragazzo in gamba ed è stato fortunato a trovare una ragazza come Margie, pronta a prendere a pugni chiunque minacci i suoi sentimenti. Tuo padre sembra un brav'uomo e anche Henry.»

Mi sorrise ad occhi chiusi, il volto illuminato dal sole. «Sì, lo so. È stato bello anche per me. Torno da loro la prossima settimana, ho intenzione di restare per qualche tempo, almeno fino alla fine dell'estate. Tu...»

«Vengo con te, ovviamente.»

Mi baciò ancora, anche se non so come abbia fatto a trovare la mia bocca con gli occhi chiusi. Rise mentre toglieva con la lingua ogni residuo di dubbio rimasto e mi riportò sul suo petto. Immersi di nuovo le mani tra i suoi capelli, incantandomi tra i riccioli che avevano lo stesso colore del sole.

«Mi piace il tuo nuovo look, te l'ho mai detto?»

«Anche a me piace, niente più acqua nera nella doccia.»

«Però mi manca il piercing.»

Ammiccò. «Quello ti faceva impazzire, eh.»

Mi strofinai contro la sua faccia e poi sprofondai la mia nel suo collo. Ero talmente felice che avrei persino potuto fare le fusa. «Mi rendeva dipendente dai tuoi baci, sì. E mi rendi dipendente da come mi fai sentire. Tu da cosa dipendi?»

Abbassò il mento, incastrò il suo con il mio, in un abbraccio mortale. Mi carezzò la schiena, le braccia, mi baciò le guance.

«Da te, solo da te.»






***
Domandina veloce veloce, prima dell'inizio della fine: qual è il vostro personaggio preferito?
Xoxo❤️

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