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36. Anima in pena


«Sei ancora in tempo per cambiare idea.»

Scambiai uno sguardo con l'hostess e le sorrisi mentre lei passava a un altro passeggero bisognoso delle sue attenzioni. Quindi abbassai il tono di voce e mi rivolsi a Gideon, rannicchiato nel suo sedile troppo stretto.

«Ci hanno appena detto di allacciare le cinture di sicurezza, temo che il tempo per cambiare idea sia scaduto da un po'.»

Lui strinse la bocca in una linea sottile e non rispose. Io mi aggrappai al sedile con le mani e guardai fuori dal piccolo finestrino che aveva decisamente bisogno di una lavata. L'aeroporto si stava muovendo, o meglio, l'aereo che ci avrebbe portato nell'Illinois, dall'altra parte dello Stato, si stava muovendo. Gideon ispirò forte e quando mi girai verso di lui lo vidi chiudere gli occhi con forza.

«Non dirmi che non sei mai salito su un aereo.»

«Sono quello che soffre il mal d'auto, ricordi?»

Sì, me lo ricordavo bene: lui amava le passeggiate.

«Puoi tenermi per mano se vuoi, dura poco.»

«Non sono un ragazzino» ringhiò a denti stretti, con gli occhi ancora serrati.

«Va bene Mr. Fifone, quando ha finito di pregare per la nostra salvezza dai un'occhiata alle nuvole, è spettacolare.»

La mia esclamazione non lo tranquillizzò, anzi diventò ancora più pallido. Mi faceva tenerezza e anche se mi aveva ringhiato contro volevo comunque stringergli la mano, per infondergli un po' di coraggio. La prima volta che ero salita su un aereo ero con i miei genitori: loro si erano seduti su entrambi i miei lati, mi avevano preso una mano ciascuno e mio padre aveva canticchiato la mia canzoncina preferita quasi per tutto il viaggio, per farmi distrarre. Non avrei assicurato a Gideon un mp3 umano ma potevo cercare di tranquillizzalo con parole confortanti.

L'enorme ammasso di ferraglia cominciò a vibrare e tremare, prendendo velocità. Gideon strinse le dita sul sedile davanti al suo, facendo schizzare via la testa del povero passeggero sfortunato. Con delicatezza posai il mio palmo tra di noi, ingenuamente aperto, e appena le ruote anteriori si staccarono dall'asfalto ecco le dita lunghe e calde di Gideon che si stringevano con forza alle mie. Anche l'altra sua mano si unì al groviglio e portò sull'intreccio sul suo petto, strizzando gli occhi.

Io scoppiai a ridere. Mi fu facile ignorare le orecchie tappate, ero abituata a quel piccolo incidente di precorso, Gideon invece dovette pensare di essere diventato sordo, perché si tamponò i lati della testa in allarme.

«È normale» gli dissi, a voce più alta del solito. «Tra poco passa.»

Tornò a stringermi la mano sul suo petto e non volle saperne di guardare fuori, nemmeno quando ci stabilizzammo e persino l'avviso delle cinture si spense. 

«Visto, veloce come strappare un cerotto.»

«Il cerotto più appiccicoso nella storia dei cerotti.»

La sua agitazione era esilarante e non mi trattenni dal ridere spudoratamente davanti a lui. Non la prese bene e mollò bruscamente la mia mano. Ah, la suscettibilità era una brutta bestia.

«Adesso che ti sei calmato, guardi fuori?»

«Neanche per sogno, rischio di vomitare.»

«Guarda che è bellissimo.»

Continuò a scuotere la testa, non voleva sentire ragioni. Peggio per lui, si sarebbe perso un panorama mozzafiato.

«Allora, hai avvisato Sawyer?»

Mi misi comoda sul sedile e ringraziai qualunque forza sovrannaturale mi avesse fatto nascere così piccolina perché l'alternativa sarebbe stata stringermi a fisarmonica come Gideon.

«Sì, certo, non ha avuto nulla in contrario ma qualcosa mi dice che non sei sorpreso.»

«E i tuoi?» chiese, evitando la mia supposizione.

«Sarà una sorpresa non vedermi per giorni.»

Si girò di scatto verso di me, catturato dalla mia intraprendenza.

«Li avviserà Sawyer» lo tranquillizzai. «Diciamo che è un periodo di bassi al momento.»

«Quando non lo è?»

Distolse lo sguardo e mi parve un po' a disagio a condividere con me certi sentimenti che riguardavano i miei genitori. Ma infondo lui conosceva la situazione meglio di chiunque altro e le sue parole rispecchiavano semplicemente la realtà. Così mi limitai a sorridere per smorzare la tensione e concentrarmi altrove. Il viaggio fu tranquillo, intervallato regolarmente dalle preoccupazioni di Gideon. Ogni tanto chiedeva alle hostess quanto tempo mancasse alla fine del volo, a che altezza stessimo o se ci fossero problemi con il motore. Loro sorridevano il più educatamente possibile e dopo aver cercato invano di tranquillizzarlo, mi lanciavano un'occhiata. Come fai a sopportarlo?

Non tentai di distrarlo chiedendogli di nuovo di prendermi per mano perché sapevo sarebbe stato sconveniente e io, in teoria, sarei dovuta rimanere arrabbiata con lui. Il fatto che avessi accettato di accompagnarlo non giustificava tutto quello che era successo tra di noi e dovetti sforzarmi parecchio per tenerlo a mente mentre gli ero così vicina, la sua spalla a un soffio dalla mia.

Eravamo partiti subito dopo pranzo ma a causa del fuso orario, quando vidi le bellissime sfumature gialle e viola di Chicago, era sera inoltrata. Durante l'atterraggio Gideon non mi aveva preso la mano ma aveva strizzato gli occhi e, una volta a terra, aveva ringraziato tutti gli dei esistenti.

L'aeroporto era molto più grande di quello di Seattle e mi sentii improvvisamente investita da una forte pressione sul petto. Ero proprio lì, nell'Illinois, il paese d'origine di Gideon, a chilometri di distanza dalla mia casa. Era stata una decisione molto ponderata che mi aveva tenuto sveglia per due notti consecutive, eppure mi sembrava di aver fatto tutto così in fretta, come volessi lasciarmi le esitazioni alle spalle. Se ci avessi riflettuto un po' di più probabilmente avrei finito per non partire proprio. Gideon era accanto a me, aveva appena preso i bagagli, e cominciò a guardarsi attorno intorpidito. L'aria era calda, anche se la notte stava per incombere e la folla ammassata per tutti i corridoi non rendeva più piacevole la permanenza in quel luogo. Tutte quelle voci, mischiate alla mia usuale ansia – che come un'amica si era appollaiata sulla mia spalla da quando eravamo atterrati – non facevano che aumentarmi il battito del cuore. Girai lo sguardo da tutte le parti alla disperata ricerca di qualcosa o qualcuno che riuscisse a calmarmi e le mie mani finirono direttamente sulla giacca in camoscio di Gideon. Avevo stretto tanto forte il tessuto che le mie unghie vi si conficcarono dentro e lui dovette accorgersene, perché si fermò e mi guardò.

«Qualcosa non va?» Lanciandomi un'occhiata più lunga capì che era proprio così. Mi stavo agitando troppo. Lasciò andare le valige e mi prese delicatamente la mano che lo stava arpionando, facendomi distendere le dita.

«Va tutto bene, aggrappati a me. Henry ci aspetta qui fuori.»

Avrei voluto chiedere chi fosse Henry ma ero troppo concertata sulla pressione delle nostre mani unite e sulla velocità con cui Gideon mi portò fuori da quel caos. Accanto alla zona taxi c'era un enorme parcheggio per le macchine e, oltre quello, l'autostrada. Gideon continuò a camminare nella notte, destreggiandosi tra i cartelli e i poliziotti di guardia. Alla fine mi condusse verso uno spiazzo pressoché vuoto, dove un'auto di pattuglia era immersa nelle tenebre, con un solo lampione a illuminare la fiancheggiata lucida. Un uomo era poggiato alla portiera, aveva un grosso sigaro tra le labbra, proprio sopra i baffi scuri, e l'uniforme da poliziotto.

Lasciai la mano di Gideon quando improvvisamente capii di chi si trattasse. Henry, certo, era l'uomo che li aveva salvati, colui che si era preso cura di Milo per tutti quegli anni. Ormai doveva avere una certa età ma gli occhi splendevano sotto la luce artificiale e le labbra, sebbene coperte da un folto tratto di peluria, erano arricciate in un sorriso.

«Gideon!»

«Sceriffo» rispose lui, con una voce che riuscii a definire solo come strana. Era un miscuglio tra timore, vergogna e immensa felicità. Henry si strinse Gideon al petto, che era notevolmente più alto, e gli incastrò una mano tra i capelli folti.

«Diavolo, come sei cresciuto. Sei proprio un bel giovanotto, adesso.»

La voce di Henry era grave ma dolce, c'era una sorta di malinconica nota che rendeva quell'incontro toccante. Gideon si fece da parte e io feci un passo avanti, porgendo una mano al signore.

«Tu devi essere Lily.»

Sorpresa, rimasi lì a boccheggiare.

«Gideon mi ha parlato di te. Sei stata molto gentile ad accompagnarlo.»

Non guardai Gideon, perché avrei potuto annegare nel mio rossore, così mi limitai a intrecciare la mia mano a quella ruvida del poliziotto. «È un piacere conoscerla, anch'io ho sentito parlare di lei.»

Sperai capisse che, quello che sapevo, lo rendeva ai miei occhi un uomo straordinario che, sebbene non conoscessi, stimassi già moltissimo.

«Dammi pure del tu, bambina, non sono mai stato uno sbirro formale.»

Senza ulteriori indugi, ci fece salire sulla sua auto e io mi strinsi la borsa al petto, desiderosa di trasmettere la mia ansia a qualcos'altro, piuttosto che stritolare ancora la maglia di Gideon. Lui si mise davanti e prese un grande respiro, come se improvvisamente fosse stato colpito da un ricordo. Non doveva essere facile stare lì: chissà quante volte era salito proprio su quell'auto, accanto a Henry, a discutere sulla prossima mossa per incastrate il suo stesso padre.

Avrei tanto voluto allungare un braccio e posarlo sulla sua guancia, sorridergli, dirgli che sarebbe andato tutto bene ma mi trattenni. Henry fu l'unico a parlare durante tutto il tragitto, ci tenne a informare Gideon su come aveva preparato la casa per il nostro arrivo e quanto fosse felice di avere di nuovo indietro il suo ragazzo. Pensai che Henry fosse quanto più di vicino Gideon avesse avuto a un padre, visto che il suo l'aveva così maledettamente deluso, e che Todd, a Seattle, lo aveva protetto come un fratello. Ma il suo vero padre e il suo vero fratello erano proprio lì, adesso così inevitabilmente vicini a lui, eppure distanti mille miglia.

Henry cominciò a rallentare appena entrato in un quartiere mezz'ora più tardi, in una cittadina subito fuori Chicago. Questo era piuttosto abbellito da piccole aiuole, parchi e lampioni, tutti funzionanti. Un quartiere per famiglie. La sua casa era simile a tante altre, con le pareti bianche e il tetto marrone, spiovente, con un posto garage nel quale infilò l'auto.

«Abito solo e la mia casa è piuttosto modesta, ma spero tu possa trovarti a tuo agio. Ho insisto perché non andaste in hotel.»

Capii troppo tardi che stesse parlando con me così lo ringraziai solo una volta entrata nella casa. Henry accese tutte le luci al nostro passaggio, rivelando un corridoio stretto che separava le scale dalla cucina e dal bagno.

«Gideon, ti ho preparato il divano, con questo caldo non dovresti aver bisogno di una coperta ma sai dove trovarle, in caso. Per te, Lily, ho sistemato la camera degli ospiti, su al primo piano.»

«Non avresti dovuto disturbarti tanto.»

«Nessun disturbo» rispose lui scacciando con la mano le mie proteste. «Sono felice che siate qua. Siete affamati? Posso prepararvi la cena in dieci minuti.»

«Abbiamo mangiato sull'aereo, credo bastino una doccia e il letto, o il divano. Non so davvero come ringraziarti, Henry.» Gideon posò una mano sulla spalla dell'uomo che, con un po' di commozione incastrata negli occhi, rispose semplicemente con un sorriso. Io ero d'accordo con Gideon, sia per la questione della stanchezza sia per la gentilezza di Henry. Mi accompagnò in camera, lasciando Gideon da solo, che non mi aveva rivolto la parola e si era dileguato nel corridoio. Quindi anche Henry mi lasciò sola. Posai il borsone su un materasso piuttosto morbido, un po' cigolante, e mi preparai a venir invasa dai dubbi. Trovai confortante l'odore pulito del cuscino appena vi posai la testa. La stanza era buia, piccola ma confortante, con la finestra che dava direttamente sulla strada. La luna non si vedeva, Chicago la rendeva invisibile, però avrei tanto voluto addormentarti nella sua luce. Sentivo i passi di Gideon e Henry agitarsi di sotto, avevano sicuramente molto di cui parlare e non li avrei disturbati per tutto l'oro del mondo. Aveva appena cominciato a immaginare Gideon da ragazzo, che viveva in città, quando i sogni mi vinsero.

•••

Quando mi svegliai non capii subito dove mi trovassi e perché avessi ancora i vestiti addosso. La luce intensa inondava una stanza che non conoscevo, piuttosto vuota e dalle pareti rivestite di moquette grigia. Mi trovavo nell'Illinois, con Gideon. Lo aveva seguito al disperato ritrovamento della sua famiglia e del rapporto che, partendo, aveva strappato.

Aprii cautamente la porta e mi ritrovai su un pianerottolo, dritto davanti a me c'erano le scale. Da sotto arrivavano i rumori tipici di una cucina vivente e le macchine, fuori, erano un continuo viavai di ruote sull'asfalto. Arrivai fino al salotto, una modesta sala con tavolino da caffè e poltrona davanti al televisore. Il divano era stato spinto contro una parete lontana e c'era un cuscino spiegazzato, probabilmente utilizzato da Gideon. Mi affacciai nella cucina e vidi Henry seduto al tavolo mentre sorseggiava il caffè da un'enorme tazza, i suoi baffi che facevano su e giù. Gideon mi dava le spalle, stava preparando altro caffè.

«Buongiorno» mi annunciai, e improvvisamente ricordai di non essermi pettinata i capelli prima di scendere. Cercai disperatamente di districarli con le dita ma appena gli occhi di Gideon furono nei miei mi bloccai. Mi sorrise ma fu breve e non percepii nessun calore particolare in quel saluto. Mi mise davanti una tazza e la riempì.

«Dormito bene?»

«Come una bambina.»

Ne ero sorpresa. Di solito non dormivo bene in luoghi sconosciuti ma la sera prima ero crollata senza nemmeno cambiarmi. Dovevo essere stanchissima ma l'agitazione mi aveva impedito di capirlo.

«Io esco tra una mezzora, fate come fosse a casa vostra» brontolò Henry, alzandosi dalla tavola. Ci lasciò soli in cucina e, una volta acciuffato il latte dal frigorifero, Gideon prese il suo posto.

«Davvero, stai bene?»

Fui sorpresa da quella domanda, non stavo dando segni di cedimento. Forse la sera prima ero un po' scossa ed ero sembrata nel panico ma il riposo mi aveva fatto bene, aveva calmato i miei nervi. Lo guardai mentre sorseggiavo la mia colazione.

«Sì, benissimo, non ti devi preoccupare per me. Tu piuttosto, stai bene?»

Gideon si accasciò sulla sedia, giocherellando con il cucchiaino. Notai che i capelli biondi splendevano e aveva dei vestiti nuovi, sicuramente si era fatto una doccia. Improvvisamente mi sentii la pelle appiccicosa e sentii il bisogno urgente di lavarmi.

«Ho parlato un po' con Henry, mi ha raccontato come sono andate le cose negli ultimi tempi.»

Aspettai che continuasse, silenziosa come un pesce. Lui prese un respiro prima di proseguire.

«Milo si è diplomato quest'anno ma la cerimonia c'è stata il mese scorso. L'ho perso. Però c'era mio padre, vivono ancora insieme. Henry mi ha anche detto che hanno venduto la casa e adesso stanno in un bilocale qua vicino, accanto anche al liceo di Milo.»

«Tuo fratello frequenterà il college?»

La domanda sembrò turbarlo e si mosse un po' a disagio sulla sedia. Beve un po' del suo caffè macchiato che ormai doveva essere diventato freddo.

«È questo il problema: non lo so. Non so più niente di lui.»

«Non dire così, Henry ti ha tenuto informato per tutti questi anni.»

Mi tornarono in mente le parole di Sawyer, a come lui aveva confessato che Gideon aveva chiesto di me, anche dopo che c'eravamo lasciati. Lui era fatto così, chiedeva stando lontano, proteggeva scappando.

«Non la stessa cosa» sbuffò. «Mi sono perso tantissime cose.»

Realizzai che era la prima volta che intraprendeva un dialogo così aperto con me sulla sua famiglia senza dare segnali di panico o stizza. Lui voleva parlarmene, adesso non aveva più freni.

«Sapevi che era così quando hai deciso di tornare qui. Qual è il vero problema?»

Alzò un sopracciglio, guardandomi oltre il bordo della tazza. La posò lentamente sul tavolo, leccandosi le labbra. Fu così che notai non ci fosse più alcun piercing sulle labbra, si era tolto anche quella pallina ridicola.

«Come fai?» ribatté, abbassando gli occhi.

«A fare cosa?»

«A capire sempre tutto, prima di qualsiasi altro.»

Incespicai un po' nella risposta, mi aveva preso contro piede. «Questo non è vero la maggior parte delle volte non capisco proprio un bel niente, in realtà. Tipo adesso, non ho la più pallida idea di quello che ti passi per la testa. Per questo te l'ho chiesto.»

«Mi passa che ho paura di mio fratello» disse di getto, come avesse sparato una pallottola carica di significato.

«Paura?»

«Non di lui» si corresse, notando la mia espressione confusa. «Di quello che pensa su di me. Ho paura che... Ho paura che mi odi.»

I suoi sentimenti straboccarono dalla sua bocca come una diga che si rompe o un iceberg che emerge imponente e spettacolare da un mare ghiacciato. I suoi occhi erano fissi sulla tazza a trattenere tutto quello che la sua lingua non aveva il coraggio di pronunciare. Amavo e odiavo come soppesasse i suoi pensieri, si tratteneva sempre e non lasciava mai il freno. Adesso però volevo che si confessasse di ogni peccato, di ogni timore e di ogni supplizio. Volevo accogliere ogni suo dubbio sulla vita, su ciò che gli stava a cuore, e avvolgerlo tra le mie mani, custodirlo con la massima cura. Gideon aveva scelto me per questa condivisione, forse perché in qualche modo potevo capirlo.

«Hai sempre cercato di salvarlo. Non ti può odiare per questo.»

«Non per questo. Perché me ne sono andato.»

Le sue parole erano cariche di veleno. In quel momento pensai che lui stesso si odiasse, ed era arrabbiato perché questo sentimento lo sopraffaceva e contaminava ogni aspetto della sua vita: dal più brutto al più bello, come l'affetto.

«Gli hai dato una scelta e lui non ha scelto te. Non può biasimarti.»

Gideon sembrò pensieroso, un'ombra gli era calata sugli occhi. Restò con le dita a tamburellarsi il mento, senza rispondere. Era evidente che non mi credeva e stava cercando con ogni mezzo di aggiungere tesi al suo disprezzo per sé stesso. A quel punto, non sapevo quale sarebbe stata la prossima mossa. Ormai eravamo lì, prima o poi Gideon li avrebbe dovuti affrontare. Solo... Quando?

«Vado a farmi una doccia» annunciai, alzandomi e posando la tazza nel lavandino. «Che ne dici se quando torno elaboriamo un piano d'azione?»

Lui annuì distrattamente ma mi seguì con lo sguardo fino a quando non uscii dalla porta, era impossibile non sentire i suoi occhi sulla mia pelle. La doccia fu rigenerante, mi sentii di nuovo una donna e sapevo che, una volta uscita, avrei dovuto essere forte per affrontare i demoni di Gideon. Avevo già in mente di prendere penna e taccuino e segnarmi tutti i passi che, da lì in poi, avremmo compiuto. Quando finii di prepararmi, un vestito giallo canarino che svolazzava sulle mie cosce e i capelli sciolti, ancora umidi sulla schiena, Henry era già uscito e Gideon mi era appena apparso davanti al naso, sulle scale.

«Sei... pronta?»

«Andiamo da qualche parte?»

«Potremmo fare un giro in città, magari ci fermiamo per il pranzo.»

Un altro modo per dire che avrebbe rimandato l'elaborazione di ogni tipo di piano. Gli feci vedere la mia borsa pronta e lui annuì con un gesto netto.

«Fammi solo prendere...»

Il campanello suonò, interrompendo le parole di Gideon.

«Deve essere Henry, probabilmente ha scordato qualcosa.»

Rimasi accanto al corrimano mentre lui attraversava il corridoio e andava ad aprire. Non potevo vederlo da lì ma, quando non sentii nessuna voce provenire dall'ingresso, decisi di andare a vedere.

Gideon era fermo sulla porta, incorniciato dagli stipiti scuri, e mi dava le spalle. Davanti a lui il cielo azzurro si posava dolcemente sui tetti delle case del vicinato. Copriva qualsiasi persona avesse bussato alla porta e le sue spalle erano rigide, la sua mano che tremava sopra il pomello. Un attimo dopo, avvolti dal silenzio, vidi un'esile figura scappare via da lui e dileguarsi nella strada. Gideon le andò dietro, immergendosi nella luce del sole.

«Milo! Aspetta!»

Corsi verso la porta, riconoscendo quel nome. Gideon si era fermato in mezzo alla strada, le mani tra i capelli e gli occhi fissi verso la direzione nella quale suo fratello era scomparso. Lanciai uno sguardo lontano e vidi un puntino diventare sempre più piccolo. Mi avvicinai cautamente a Gideon, il suo volto contorto come non lo avevo mai visto: la fronte era raggrinzita, le sopracciglia abbassate e la bocca semiaperta. Come quando rideva, tutta la sua espressione cambiava, come fosse una maschera di cera che lentamente si scioglieva per la calura di fine giugno.

«Era...?»

«Milo» confermò lui, la voce indescrivibile. Sicuramente scossa da una forte emozione, anche se non so dire se positiva o negativa.

«Ti ha riconosciuto?»

«Sì. Per questo è scappato.»

«Oh, Gideon...» I suoi occhi erano colmi di tristezza e... rabbia. I suoi timori si erano avverati, Milo era appena scappato via da lui. Non avrei mai immaginato una reazione del genere e nemmeno Gideon, dato lo stupore visibile nei suoi lineamenti. Si piegò in due, come colpito da un forte dolore allo stomaco, e incavò la testa sul petto.

«Merda!» imprecò, gridando verso il cielo. Avrei dovuto fare un passo indietro, il suo avvilimento si stava rapidamente trasformando in ira che avrebbe rigettato sul primo oggetto, o persona, che avesse avuto a tiro. E io stavo accanto a lui, una mano premuta contro il suo braccio.

«È stato inaspettato per lui» dissi, cercando un modo per calmarlo e giustificare quell'assurdità. «Ha reagito istintivamente.»

Gideon si alzò di scatto, non aveva sentito nulla di quello che gli avevo detto, si scrollò di dosso la mia mano ed entrò in casa a passo di marcia. Sbatté la porta tanto forte che il mio cuore sobbalzò e tutti gli uccelli appollaiati sugli alberi del quartiere volarono via, fuggendo nel cielo per allontanarsi il più possibile da un'anima in pena la quale, annerita dall'odio e da un profondo amore dilaniante, aveva appena mostrato la sua faccia più pericolosa.

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