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19. Il ringraziamento

I signori Cavendish erano rimasti gli stessi, esattamente come li ricordavo. Erano entrati in casa con un'aria altolocata e doviziosa, avvolti da abiti adatti più a una cerimonia ufficiale che a un ringraziamento in casa. Sebbene la mia dimora fosse ampia, con scalinate lucide, pareti bianche e mobili d'un secolo scorso rifiniti a eccellenza, i loro occhi scrutatori erano alla ricerca di un minimo dettaglio su cui commentare. La mamma era tesa come la corda di un violino e sebbene mi avesse rassicurata che erano tutti buoni amici e che ogni domenica colloquiavano amabilmente finita la messa, si era improvvisamente irrigidita quando la signora Cavendish aveva commentato il colore dello specchio all'ingresso. Lo aveva considerato troppo scuro per un ambiente tanto sterile.

Papà si era messo a ridacchiare e aveva salvato la mamma dalla situazione scomoda facendo accomodare gli amici nella sala da pranzo. Georgia aveva preparato tutto alla perfezione. La sera prima mi ero offerta di darle una mano ma lei, con occhio saggio, mi aveva intimato di starla semplicemente a guardare. Avevo appreso le più banali dinamiche culinarie e mi ero divertita molto vedendola affaccendata con il cibo. La sala da pranzo era stata apparecchiata dalla cura delle mie mani e la mamma si era offerta di dare il suo tocco classico. Avevo fatto un buon lavoro e considerato il cibo profumato al centro della tavola, avevamo riservato ai nostri ospiti un'accoglienza niente male.

Quando i signori Cavendish si erano presentati alla porta, quasi mi ero scordata che avrebbero portato con sé i loro figli. Due ragazzi all'incirca della mia età. Il maggiore, George, si era laureato in medicina giusto la primavera passata e aveva pensato bene di sposarsi con la sua fortunata ragazza agli inizi del maggio successivo. Il secondo genito, Matthew, era al secondo anno di giurisprudenza e fu caldamente accolto da papà con un sorriso smagliante. I posti a tavola non erano assegnati, eppure la mamma mi spinse un paio di volte verso il posto accanto a Matthew. A malincuore mi staccai dal suo fianco e cercai di sorridere amabilmente al ragazzo.

«Devi essere fiero dei tuoi ragazzi, Jonah, se hanno scelto strade tanto facoltose» disse mio padre a un certo punto del pranzo, dopo che la conversazione precedente si era lentamente spenta tra le risate.

«Molto fiero» rispose il signor Cavendish, pulendo con il fazzoletto di cotone il suo mento aguzzo. «Devo riconoscere a George e Matthew l'onore di aver scelto da soli la propria strada.»

Accanto a me, Matthew per poco non si strizzò con un pezzetto di patata ma nessuno ci fece caso. Gli avvicinai la brocca dell'acqua e lui mi ringraziò con un bellissimo sorriso. Al contrario del fratello, Matthew aveva dei lineamenti più delicati, sicuramente presi dalla mamma. I suoi occhi castani facevano pendant con i capelli ricci tagliati corti.

«Lily desidera diventare un avvocato da quando è bambina» esclamò la mamma, facendomi sobbalzare quando pronunciò il mio nome. Mi ritrovai così a dover sopportare una decina di occhi fissi su di me.

«Interessante» sorrise il signor Cavendish. «Che tipo di specializzazione hai intensione di intraprendere, se già ne hai idea?»

Lanciai un'occhiata a mia madre, che in realtà sembrava la più interessata all'argomento. La mia specializzazione non era stata mai ben chiara ai miei genitori ma io avevo preso la mia scelta molto tempo prima.

«Avvocato civilista. Propendo per l'adozione e l'assistenza sociale.»

Gli ospiti annuirono compiaciuti mentre la mamma sbarrò un po' le labbra, stupita.

«Credevo volessi fare l'avvocato penalista.»

«Non ne abbiamo mai parlato.»

Liquidò le mie parole con un gesto della mano, come sempre. «Ne parleremo più tardi.»

Accanto a me, Matthew lasciò cadere il fazzoletto dalla sedia. Quando si piegò sul tavolo, mi sussurrò all'orecchio: «Allarme discorso complicato»

Girai gli occhi verso di lui, sorpresa che mi avesse rivolto la parola con così tanta naturalezza. Ovviamente non risposi ma restai a guardarlo per un po', facendogli capire che lo avevo ascoltato e che in qualche modo aveva ragione. Più tardi mi avrebbe aspettato un discorso complicato con la mamma.

«Come mai t'interessa già l'ambito dell'adozione e dell'assistenza sociale?» domandò George Cavendish, lisciandosi i capelli sul capo e pulendo la forchetta con il fazzoletto.

Mi schiarii un po' la voce prima di rispondere e strinsi le ginocchia tra di loro, cercando il coraggio. «La mia migliore amica è stata adottata quando aveva sette anni e i ricordi della sua infanzia tra istituti e orfanotrofi non sono il massimo. Grazie a un bravo avvocato i genitori hanno potuto adottare un altro figlio, il suo attuale fratello, quando era più piccolo e per lui è stato più semplice. Vorrei poter aiutare bambini come lei a trovare famiglie bellissime come la sua.»

Rimasero tutti in silenzio dopo le mie parole, papà aveva persino ignorato il galateo e posato i gomiti sul tavolo per ascoltarmi meglio.

«Ammirevole» commentò una voce accanto a me.

Era Matthew, che aveva sistemato il fazzoletto caduto "accidentalmente" sulle sue ginocchia.

«Trovo fantastico che giovani come noi abbiamo già idea di cosa fare del proprio futuro. Molti vagano ancora per il mondo senza sapere che strada prendere e per la maggior parte finiscono a rovinarsi la vita.»

Sebbene il suo tono fosse quieto e pacifico, sentii accennata una nota di amarezza. Improvvisamente mi venne in mente Gideon e i suoi non-sogni nel cassetto. Lui non aveva idea di cosa fare della sua vita, e se ce l'aveva era vacua e insignificante. Lui stesso si negava della possibilità e seppure avevo provato a parlargliene, aveva sempre rinnegato l'argomento.

Lo avevo sentito al telefono mentre raggiungevo la casa dei miei, aveva tentato in ogni modo di convincermi a lasciarmi accompagnare. Alla fine ero partita senza dirgli niente sull'orario e mi aveva chiamato, mezzo divertito e mezzo amareggiato. Fu curioso rendersi conto che nell'ambiente al quale ero abituata appartenere mi trovavo più a disagio che in una stanza silenziosa accanto a Gideon. Se lui fosse stato presente, avrei avuto modo di parlare molto più di quanto facessi in quel momento con la mia famiglia e i nostri ospiti. Eccetto domande di circostanza, che quasi nessuno ascoltava con vivo interesse, le mie opinioni non erano desiderate. In più, non accennavo a intromettermi in nessuna conversazione. Ero troppo intimidita dalla superbia dei signori Cavendish e dall'alto località dei figli per provare ad avviare una conversazione più leggera.

Mentre tutti assaggiavano il dolce ai mirtilli, la specialità di Georgia, suonò il campanello. Mi alzai prima che uno dei miei genitori potesse dirmi qualcosa e me ne andai dalla sala da pranzo con l'eco delle loro proteste. Arrivai all'ingresso insieme a Georgia ed entrambe ci bloccammo alla vista dell'altra.

«Stavo giusto raggiungendo la porta, signorina Lily.»

«Oh, sì, non ti preoccupare per me. Avevo bisogno di uscire un attimo da quella stanza.»

Le mi sorrise come se capisse perfettamente e mi sorpassò. Mi poggiai all'armadio dell'ingresso lanciando un'occhiata poco interessata a Georgia che nel frattempo stava aprendo.

Nell'incavo della porta c'era una montagna di ragazzo che dava alle spalle al lucido portico di legno. Portava i capelli scuri tirati indietro e si stava mordendo il piercing al labbro come se gli prudesse. Tra le mani aveva un pacchettino rosato.

«Gideon» mormorai, mentre Georgia chiedeva chi fosse l'ospite e cosa desiderasse. L'interessato stava per rispondere quando mi vide alle spalle della domestica, e mi sorrise.

«Lilylove»

«Che cosa ci fai qui?»

Georgia mi lanciò un'occhiata ammonitrice, come se avesse capito chi rappresentasse Gideon e temesse per il peggio. Proprio come me. Le intimai che andava tutto bene, che lo conoscevo e che ci avrei parlato io. Soprattutto, le chiesi di non dire niente ai miei e di filare in cucina, come se nulla fosse. Georgia mi ascoltò con un cipiglio negli occhi.

Tornai su Gideon mentre socchiudevo la porta alle mie spalle. «Allora?»

«Ti ho fatto una sorpresa. Non hai voluto che ti accompagnassi, così sono venuto lo stesso. Anche se è stato un viaggio di venti minuti davvero noioso.»

Non c'era nulla di entusiasta nella sua voce che si era fatta subito tesa. Aveva percepito il mio nervosismo e lo aveva fatto suo.

«Una sorpresa?» ripetei, come se fosse la parola più amara al mondo.

«Non vuoi farmi entrare?»

Lanciò un'occhiata alle mie spalle e le sue sopracciglia si aggrottarono. Stava giocando con me, l'avevo capito nel momento in cui avevo intravisto la sua imponente figura fuori dalla porta.

«No. Lo sai cosa ne penso.»

Non ribatté a queste parole, perché sapeva che avevo ragione e che non mi avrebbe spostato dal mio punto. Incontrare i miei per ora era fuori discussione.

«Va bene. Allora ti va di uscire con me e festeggiare un po' del ringraziamento insieme?»

Al telefono non aveva accennato a niente del genere. Mi aveva fatto capire che era stato invitato da Todd, che probabilmente sarebbero stati insieme a Ciel e Daisy, se quest'ultima aveva perdonato la ragazza. Non aveva mai detto che voleva passare il ringraziamento con me e soprattutto non aveva accennato alla sorpresa decisamente non gradita.

«Come hai fatto a scoprire dove abito?»

«Dakota. Ha detto che era un piano romantico.»

L'avrei dovuto immaginare. Se fossimo state due persone completamente diverse e il contesto fosse stato stravolto forse sì, la sua sorpresa sarebbe stata romantica. Ma così non era e io cominciavo a innervosirmi sul serio.

«Non posso andarmene dal pranzo così. Hanno invitato degli ospiti e comunque non mi lascerebbero andare. Che cosa dovrei dire? Che me ne vado in giro per Seattle da sola?»

«Che ne pensi della verità?»

Mi faceva tenerezza, vederlo così destabilizzato di fronte ai miei limiti. Improvvisamente provai un moto di disgusto verso il peso che tenevo al petto. Non avrei dovuto nascondere nulla ai miei genitori, la verità sarebbe dovuta essere evidente sin dal principio. Ma Gideon non li conosceva. Io sì, perché mi avevano cresciuto. Non avrebbero capito. Lo avrebbero odiato. Non avrebbero accettato nulla del nostro rapporto. Non avevo intenzione di perdere Gideon.

Decisi di mettere da parte il nervosismo e la rabbia verso quella che doveva essere una sorpresa non gradita, mi dedicai a fargli capire che non volevo una situazione del genere ma c'eravamo inevitabilmente già dentro fino al collo.

«Lo sai che non capirebbero.»

Quando gli strinsi una mano, quella che non sorreggeva il pacchetto, lui non si divincolò e sentii un moto di speranza gonfiarsi nel petto.

«Che cos'è?» domandai ancora, rivolta alla cosetta rosa che teneva stretta. Lui abbassò lo sguardo sulle nostre mani e nascose il pacchetto dietro la schiena.

«Non farai sul serio.»
«Ho l'orgoglio da difendere. Non hai scelto me, non hai scelto il pacchetto.»

«Si tratta di un regalo?»

Ero così felice da volermi mettere a ridere ma Gideon era ancora teso così mi trattenni. Non si facevano dei regali il giorno del ringraziamento ma Gideon aveva pensato a me e aveva comprato qualcosa. Il mio petto si mise a vibrare in maniera imbarazzante.

«So che non si fanno i regali il giorno del ringraziamento così non te ne ho fatto uno.»

Lasciai stare la mano che teneva nascosta e alzai gli occhi su di lui. «Allora non è un regalo.»

«Non lo è.»

«E che cos'è?»

Alzò il mento con fare superbo e lasciò andare le nostre mani. Non rispose ma portò il braccio nascosto sotto la mia visuale e posò il pacchetto tra le mie mani, con riluttanza.

«Se non sono gradito, è meglio che vada. Buon ringraziamento.»

Non volevo andasse via così, ma non poteva rimanere. Strinsi al petto il pacchetto-regalo e lo chiamai mentre stava per scendere i gradini. Non si girò ma io mi aggrappai alla sua schiena, affondando il volto nella sua maglia.

«Grazie» mormorai alle sue spalle.

Presto sentii le sue mani accarezzarmi gli avambracci.

«Avresti dovuto approfittare dell'unico giorno in cui sono grato alla vita.»

«Mi farò perdonare.»

Improvvisamente tremammo entrambi, perché Gideon stava ridendo.

«Oh, non vedo l'or...»

La porta di casa si aprì alle mie spalle e una voce burbera represse un verso di stupore.

«Lily!»

Terrorizzata, sciolsi la presa su Gideon e il pacchetto mi cadde dalle mani.

Gideon ed io ci girammo insieme, lui era un gradino più in basso di me ma non per questo arrivavo alla sua altezza. Adesso la mia testa era alle sue spalle.

«Chi è questo ragazzo?» domandò mio padre con gli occhi fiammeggianti. Non faceva che scambiare gli sguardi dalla faccia di Gideon alla sua stazza e ogni tanto i suoi occhi si posavano anche su di me.

«Papà...» boccheggiai alla fine, facendo un passo nella sua direzione. «Lui è Gideon.»
A voce mi tremava d'impazienza. Se mio padre avesse chiesto di più, io non gli avrei potuto rispondere. Gideon era il mio ragazzo? Gideon era solo un mio amico con il quale scambiavo focosi baci tra una lezione e l'altra? Sicuramente non era il momento e il luogo adatto per discuterne.

Gideon fece un passo avanti, risalendo i gradini, e allungò una mano verso mio padre.

«Gideon Smith, piacere di conoscerla.»

Mio padre è un uomo dai gesti galanti e raffinati, è educato, così gli strinse la mano ma lo fece con riluttanza e il tutto durò un massimo di quattro secondi. Poi si fece indietro, aggrappandosi alla porta.

«Lily, tua madre ti vuole in soggiorno. Non è stato carino alzarsi da tavola in quel modo.»

Gideon non lasciò la presa sugli occhi di mio padre, il loro era lo sguardo più intenso che due persone si fossero mai scambiate.

«Colpa mia, volevo che mi aprisse una bella ragazza.»

Deglutii a vuoto mentre chiudevo gli occhi per sopportare il peso delle sue parole. Probabilmente Gideon sapeva che non avrebbe migliorato la sua situazione e probabilmente era felice del contrario, così mi allontanai da lui senza guardarlo e seguii mio padre in casa. Riuscii a spostarlo dalla porta e girarmi all'ultimo per chiuderla, quando Gideon allungò nella mia direzione il pacchetto rosa preso dal pavimento.

«Hai dimenticato questo.»

Il suo volto era duro, l'unica cosa che tradiva la sua espressione indecifrabile erano gli occhi brillanti. L'argento vivo in essi mi stava dicendo qualcosa che però, nella furia generale, non riuscii a cogliere. Afferrai il pacchetto veloce e gli chiusi la porta in faccia, sperando che se ne andasse prima che mio padre decidesse di fargli un interrogatorio.

L'uomo stava aspettando alla fine del corridoio con le braccia incrociate al petto.

«Che cos'è questa storia, Lily?»

«Nulla. Non è niente.»

«L'ho già visto quando ti siamo venuti a trovare. Hai detto che è solo un tuo compagno di classe.»

«Infatti è così.»

«Ai miei tempi i compagni di classe non irrompevano nelle case altrui il giorno del ringraziamento senza motivo.» I suoi occhi si abbassarono sulle mie mani. «O forse un motivo c'era. Cos'è quello?»

Mi resi conto che stavo stringendo fortissimo il pacchetto solo quando vidi le mie nocche sbiancare. Lo tenni ancora più vicino dopo la domanda di mio padre.

«Nulla, me l'ha solo consegnato senza nessun messaggio particolare.»

«È un regalo?»

Cercai di passare oltre ma lui mi sbarrava la strada. «Non lo so papà. E non so perché si sia presentato a casa. Ne so quanto te.»

Le bugie erano amare nella mia bocca ed ero sicura che se avesse potuto sentire il mio cuore, avrebbe capito che stavo mentendo. Dovevo proteggere Gideon e quello che rappresentava, regali annessi, a tutti i costi. E se il prezzo da pagare era sentirmi una pessima figlia per questo, forse avrei scontato la pena a testa alta e ne sarei uscita indenne.

Mi lasciò andare nonostante il suo sguardo mi dicesse che dovevo stare attenta e che sicuramente non era finita lì. Nel soggiorno mi aspettò il rimprovero di mia madre e a nessuno importò che mi stavo per trasformare in un pomodoro più che maturo mentre tutti mi guardavano sottostare ai rimproveri della mamma. Tutto perché mi ero alzata da tavola per aprire la porta, quando avevamo una signora apposta per questi lavori. Ero stata maleducata e non avevo avuto rispetto per gli ospiti. Mi scusai con tutti e mi sedetti nella poltrona più lontana da loro, quella vicino alla finestra che dava sulla strada. Non c'era più nessuna traccia di Gideon sebbene una piccola parte di me sperasse di intravederlo ad aspettarmi. Magari dall'altra parte della strada, come aveva fatto quando si era presentato dopo la messa chiedendomi una cena assieme.

Non fu difficile rimanere in disparte e restare invisibile per il tempo del the. Il papà era innervosito e la mamma era troppo occupata a intrattenere gli ospiti. Nessuno dei giovani Cavendish si avvicinò a me, per fortuna; probabilmente avevano intravisto nel mio broncio una sorta di allarme. Fatto sta, che tutti mi stavano alla larga. E a me andava bene così. Rannicchiata sulla poltrona, non facevo che guardare il pacchettino. Non sembrava nuovo ma piuttosto riesumato come fosse un vecchio ricordo conservato in una scatola per traslochi. Forse apparteneva a qualche negozio di gioielli ma l'idea che Gideon mi avesse regalato un paio di orecchini o una collana mi sembrava troppo assurda. Alla fine, per la curiosità, decisi di aprire il vaso di pandora. Diedi le spalle a tutti e finsi di essere improvvisamente attratta da qualcosa fuori la finestra. Aprii con cautela il coperchio e scoprii, posata delicatamente su un soffice strato di cotone, una margherita senza stelo. Era rivolta verso l'alto, con i petali ben spiegati verso l'eterno che cominciavano a dorarsi a causa della mancanza di nutrimento. Non era tempo per le margherite e mi chiesi in quale posto fosse incappato Gideon per trovarne una così ben sbocciata. Chiusi di nuovo la scatola come se l'aria facesse male al fiore e me la strinsi al petto, mentre una voragine di consapevolezza mi avvolgeva il cuore.

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