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18. Sancta Sanctorum

«Dobbiamo festeggiare!» esclamò Dakota, mentre Connor la rimetteva per terra dopo l'abbraccio-bacio-giravolta in aria che si erano appena scambiati.

«Abbiamo tutti passato gli esami del trimestre. Siamo dei geni!»

Gideon mi venne vicino e mi stampò un bacio tra i capelli, il suo braccio scivolò intorno al mio fianco e mi strinse al suo.

«Mangiamo tutti fuori. Ho bisogno di uscire dal campus più spesso.»

Ci incamminammo nel corridoio staccandosi dalla massa di alunni presi dai tabelloni e presto raggiungemmo le uscite. Connor ne approfittò per apostrofare quello che Gideon aveva appena detto.

«Ma se non sei mai all'università! Te ne stai tutti i giorni al cantiere. Vieni qui solo per pranzare con Lily e riaccompagnarla in camera.»

Sentendomi personalmente presa e messa nel discorso, lanciai un'occhiata a Gideon.

«Beh, questo è vero, ma anch'io ho bisogno di uscire un po' dal campus.»

Dakota mi puntò un dito contro. «Questo perché sei ossessionata dallo studio e hai paura delle persone.»

Amavo e detestavo la crudeltà con cui sia Dakota sia Gideon palesavano la realtà ma non potevo certo offendermi. Dopo qualche chiacchiera abusiva sul posto dove andare a festeggiare, optammo per un locale al centro che secondo Connor era perfetto. Ci dividemmo per prepararci e Dakota mi trascinò letteralmente verso la camera, più eccitata che mai.

«Sai che non festeggiamo solamente gli esami passati, vero?» mi chiese, mentre sistemavamo sui letti tutto l'occorrente per prepararci.

«Di cosa parli?»

Afferrai il maglioncino blu e i jeans neri prima di buttarli sul braccio e dirigermi verso il bagno. Dakota mi seguì, tra le mani aveva una maglietta rossa a maniche lunghe e un golfino a girovita dalle sfumature arancioni.

«Sto parlando di te e Gideon» rispose con un gran sorriso. «Sapevo che alla fine vi sareste trovati.»

Con non poca fatica scansai ogni piccolo trucco disordinatamente posto sul lavandino e mi feci spazio per lavarmi i denti e darmi una sistemata alla faccia. Dakota era dietro di me, con la schiena poggiata alla doccia.

«Allora, come sta andando?» continuò.

Finii di lavarmi i denti e le lasciai spazio mentre retrocedevo in un angolino angusto e cominciavo a cambiarmi.

«Bene, credo.»

Dakota mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla. «Quanto entusiasmo, bambolina.»

Ridacchiai. «Non ho termini di paragone ma non mi posso nemmeno lamentare. Va tutto... Bene.»

Era vero. Tutto andava bene. Gideon era gentile e disponibile, mi accompagnava sempre a pranzo e poi di nuovo nel dormitorio. Ogni tanto mi prendeva da un'aula e mi accompagna alla lezione successiva. Tra una pausa e l'altra, quando non c'era nessuno attorno a noi, mi attirava a sé e mi baciava. E io sentivo come un brontolio nello stomaco e anche nel cuore, e ogni tanto non gli davo la mano perché mi tremava troppo. Tutti i miei dubbi li avevo esposti ad Addy nei miei momenti di crisi, via Skype, e lei mi aveva introdotto nel mondo dell'infatuazione.

«C'è che ti sei presa un'enorme e irripetibile cotta per lui, ecco cosa ti succede» mi aveva detto una sera, mentre continuava a ridacchiare isterica. «Io lo sapevo, lo sapevo! Ah, Lily, sono così felice che tu abbia ascoltato il mio consiglio, che abbia avuto coraggio e ti sia fatta avanti.»

Mettendo in conto tutto questo, sì, andava bene.

Uscimmo mezz'ora più tardi, Dakota aveva insistito affinché rendesse il mio viso più ordinato con del mascara e un filo di cipria. Si era occupata anche dei miei capelli, spazzolandoli e applicando un prodotto che li avrebbe tenuti in posa. Li aveva lasciati sciolti, anche se io avrei preferito tenerli legati. Mi facevano sentire più ordinata. C'era solo la macchina di Connor ad aspettarci, entrambi i ragazzi addossati alle portiere con gli sguardi lontani. Appena ci sentirono arrivare, Gideon buttò il mozzicone di sigaretta appena cominciato e lo schiacciò con la scarpa.

Mi lampeggiò un dubbio in testa. Ogni volta che lo avevo visto fumare, gettava la cicca dopo appena un paio di tiri e si assicurava che fosse spenta schiacciandola con brutalità contro qualsiasi marciapiede. Una delle prime volte che lo avevo visto aveva fatto la stessa cosa, quindi sapevo che forse aveva il vizio. Ma ogni volta che lo baciavo non sentivo mai il sapore amaro del tabacco. Quando le mie labbra sfioravano le sue c'erano due opzioni: o sentivo il suo sapore, oppure quello del cioccolato. Era una combinazione che trovavo fantastica e mi faceva venire voglia di assaggiarlo sempre una volta di più. Mai, però, avevo sentito il sapore di una sigaretta. Eppure lui fumava. Almeno una volta doveva averlo fatto prima di vedermi. Forse se in quel momento mi fossi alzata sulle punte e avessi preso l'iniziativa, avrei saputo che sapore aveva il fumo. Ma non ero tanto coraggiosa e forse non lo avrei mai scoperto.

Il locale era ampio e le vetrate davano su una strada principale beatamente illuminata da lampioni e negozi ancora aperti. Per i marciapiedi circolavano persone imbottite di ogni comodità per prevenire la pioggia che verso sera avrebbe cominciato a manifestarsi. All'interno dell'abitacolo c'erano pochi tavoli tondi ma molti ad angolo che attraverso delle piccole tendine risultavano appartati. Alle pareti erano addossati lumi che facevano calare la cera delle candele su dei piattini appositi e rendevano il contorno colorato e accogliente. Prendemmo posto verso il fondo, in un separé dalle tende rosso scarlatto e le panche morbide rivestite da una copertura verdognola e soffice al tatto. 

Se nel locale non avessero venduto anche panini e fast food avrei pensato che fosse un posto chic e lussuoso. Gideon mi consigliò di provare il pesce e io acconsentii con entusiasmo mentre la coppia assieme a noi rasentava ogni genere di focaccina e di antipasto fritto. Mi feci passare qualche patatina fritta che trovai gustosa ma godetti della mia cena molto più di quanto avrei potuto fare mangiando le loro schifezze. Gideon sembrava essere d'accordo con me poiché si finì metà del mio piatto e mi offrì un po' della sua pasta. Erano gesti dolci che provocarono delle occhiate da parte di Dakota, e io sguazzavo nella consapevolezza di quei momenti.

«Si avvicina il Natale» disse Dakota a un certo punto della serata, mentre i nostri piatti erano stati sparecchiati e noi godevamo dell'aria calda e l'odore di origano.

«Manca più di un mese» la prese in giro Connor.

«Come ho detto, si avvicina. Avete programmi?»

Gli occhi di tutti si puntarono inspiegabilmente verso di me così mi ritrovai costretta a rispondere per prima.

«Ogni anno vado a teatro con i miei genitori alla vigilia e poi in chiesa, la domestica cucina il pranzo di Natale la notte e nel pomeriggio ci dedichiamo a passare nel quartiere per regalare biscotti ai vicini.»

Seguirono attimi di silenzio dopo le mie parole e subito dopo Dakota e Connor scoppiarono a ridere. Con la coda dell'occhio vidi Gideon trattenersi con un pugno sulle labbra e la faccia rivolta all'esterno.

«Che cosa c'è?»

«Scusaci» rispose Connor. «È solo che sembrano le tradizioni del secolo scorso. Davvero fai queste cose da quando sei bambina?»

«Sì. Vi sembra strano?»

Dakota annuì piano ma vedendo la mia espressione trovò di nuovo la serietà.

«Davvero, scusaci Lily. In realtà i tuoi piano sono più belli e organizzati dei nostri.»

«Voi cosa fate?» dovetti chiedere, mentre ormai mi divoravo di curiosità.

«Cenone tradizionale, film spazzatura su Babbo Natale e i suoi elfi, tanti dolci e tanti giochi. Spesso ci sono di mezzo i regali, comodi e morbidi pigiami e un caminetto acceso.»

Interessante. Una volta avevo passato il Natale con Addy ma c'erano i genitori di entrambe che avevano iniziato a conversare di lavoro, lavoro e poi altro lavoro. Avevamo cercato di vedere un film tutti insieme ma non riuscivamo più a metterci d'accordo. A un certo punto della serata il fratello di Addy si era stufato e aveva cominciato a fare i capricci, così sono tutti andati via e la serata si era conclusa miseramente. Non me ne intendevo di film spazzatura, dolci e giochi da tavola, tantomeno stare tutti insieme con addosso il pigiama accanto a un caminetto. Nella mia casa c'erano sempre stati i termosifoni e i regali si scambiavano durante le cena, con ringraziamenti ed entusiasmi vari al seguito.

«E tu?» chiesi ancora, rivolgendomi a Gideon.

Gideon abbassò gli occhi nei miei. «Io non festeggio il Natale»

«Perché no?»

«La mia famiglia è ebrea. Non l'ho mai festeggiato.»

«Quindi anche tu sei ebreo?»

Le sue labbra fremettero come la coda di un fringuello. «No, in realtà non lo sono.»

Confusa dalle sue parole, mi ritrovai con la fronte aggrottata. «Tu non credi in alcun Dio?»

Quando scosse la testa, ne feci di una questione personale. Mi misi a incrociare le braccia al petto e girai il busto verso il suo, pronta a fronteggiarlo.

«Non credi in niente?»

Gideon lanciò un'occhiata ai due amici che ci stavano guardando come spettatori di fronte a una succulenta opera teatrale e non ricevette aiuto. Tornò a guardarmi con uno scintillio negli occhi.

«Come ti ho già detto, vorrei poter credere in me stesso ma proprio non ci riesco.»

«Perché no? Non hai fiducia nelle tue capacità?»

«Di quali capacità parli?»

La sua domanda mi fece intuire molto. Non si trattava semplicemente d'insicurezza: lui non riusciva a vedersi. Quando ero più piccola, la mamma mi faceva specchiare sempre almeno una volta al giorno e mi ripeteva che conoscersi è di fondamentale importanza per avere successo nella vita. Allora non capivo cosa intendesse ma sentendo ciò che aveva appena detto Gideon, mi s'illuminarono gli occhi per la rivelazione.

«Non te ne rendi proprio conto, vero?» osservai, mentre ci scambiavamo i ruoli. Lui cominciava a confondersi e io a diventare enigmatica.

«Non ti rendi conto della moltitudine di opportunità che giovani come noi hanno nelle vene. Possiamo essere chiunque vogliamo in qualsiasi momento. Tu non hai solo delle capacità, Gideon, tu hai tutte le capacità. Sta a te scegliere quali sfruttare.»

Le mie parole lo fecero sorridere anche se per breve tempo.

«Non so di cosa tu stia parlando.»

Detto questo, si rivolse di nuovo al tavolo e Connor venne in suo soccorso, introducendo il suo Natale. Un po' mi feriva che Gideon non volesse approfondire. Non era un discorso chissà quanto personale, stavo solo esprimendo un mio pensiero che eventualmente lo avrebbe potuto far riflettere. Sapevo che lui frequentava architettura solo per aver perso una scommessa e che lavorava al cantiere per mantenersi. Quello che non sapevo era perché piuttosto che pagare la scommessa spendesse energie e guadagni misteriosi per frequentare corsi ai quali non era interessato. Era molto intelligente e aveva una mente aperta a qualsiasi situazione. Io riuscivo a capire che, con un po' d'impegno, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avesse voluto. Perché lui invece non lo capiva?

La conversazione dirottò presto dal Natale ai programmi per il secondo trimestre e io mi esclusi automaticamente quando cominciarono a parlare del football e della stagione che stava per cominciare. Quando mi squillò il cellulare, Gideon fece segno a tutti di rimanere in silenzio. Lo ringraziai con un sorriso.

«Pronto?»

«Lily.» Era mia madre.

«Ehi, mamma, ciao. Come va?»

Non le avevo detto che sarei uscita con degli amici perché altrimenti mi sarei sorbita un lungo ed estenuante interrogatorio. Mentalmente ringraziai chiunque ascoltasse le mie sorde preghiere e ci avesse fatti capitare in un locale dove i tavoli erano appartati gli uni dagli altri. Se i miei amici restavano in silenzio, mia madre non mi avrebbe scoperto.

«Piuttosto bene» rispose lei. «Ti ho chiamato per parlare del ringraziamento.»

Tipico dei miei, andare dritti al punto.

«Io e tuo padre abbiamo invitato degli ospiti quest'anno e abbiamo pensato che sarebbe carino se tu arrivassi a casa un paio di giorni in anticipo, per aiutarci.»

Ogni anno addobbavano la casa come un museo per il ringraziamento, nel caso qualche collega o amico facoltoso decidesse di unirsi. Era la prima volta che invitavano qualcuno di loro spontanea volontà e presunsi si trattasse di qualche personaggio rilevante.

«Credo si possa fare, mi organizzerò con lo studio. Chi sono gli ospiti?»

«I signori Cavendish e i loro figli.»

Annuii e poi, capendo il mio errore, confermai la mia presenza a mia madre. Mi trattenne ancora un po' per qualche convenevole e alla fine mi lasciò andare con la buona notte.

«Tutto bene?» mi chiese Gideon, appena agganciai.

«Tutto bene» confermai «Dovevo aspettarmi il loro invito al ringraziamento.»

«Il ringraziamento!» ripeté Dakota con un misto di preoccupazione e sollievo nella voce. «Mi sono completamente dimenticata che è già il suo tempo. I miei vorranno che li raggiunga.»

«Possiamo svignarcela a casa di mia madre appena la situazione si fa imbarazzante, noiosa oppure esasperante» disse Connor, rivolgendosi alla sua ragazza.

Davanti ai nostri occhi, Dakota si sciolse come un gelato nel microonde, afferrò le guance di Connor e stampò un bacio sulle sue labbra.

«È per questo che ti amo.»

¤¤¤

«Stavo pensando a quello che hai detto riguardo il ringraziamento» disse Gideon, mentre mano nella mano raggiungevamo il portone del suo palazzo. Dietro di noi, sentimmo i motori della macchina di Connor mentre si allontanavano sulla strada.

«Ah sì?»

Afferrò le chiavi dalla tasche posteriori dei jeans e mi condusse su per la scalinata.

«Ti posso accompagnare io, se vuoi. Così conosco i tuoi genitori.»

Aspettai che aprisse la porta del suo appartamento e che fossimo dentro per dare sfogo a tutte le ragioni per cui quell'idea era folle.

«Non credo sia una buona idea.»

«Perché no?»

Lo vidi togliersi le scarpe e infilarle sotto il divano prima di camminare verso il frigorifero e prepararmi un bicchiere d'acqua. Io mi accomodai sul divano, seguendo ogni suo movimento.

«Non vedo la necessità di fare la conoscenza dei miei genitori. Voglio dire, secondo te devo confessare che sei il mio...»

Mi bloccai prima di pronunciare la fatale parola. Gideon non venne scosso dalla mia interruzione, mi porse il bicchiere e si sedette accanto a me.

«No» disse bruscamente, mandando all'aria gran parte di tutto quello in cui stavo cominciando a credere negli ultimi tempi.

«Non c'è bisogno che tu parli della nostra... relazione.»

Pronunciò quella parola come fosse amara, come se non trovando un termine più adatto si fosse accontentato.

«E di cosa dovrei parlar loro?» chiesi come fossi stata attaccata. Personalmente, sentivo una piccola fitta che minacciava di ingrandirsi al centro dello stomaco.

«Di quello che vuoi. Voglio solo accompagnarti e conoscerli.»

Posai il bicchiere sul tavolino senza nemmeno aver bevuto un sorso. Sentivo la gola secca.

«Non capisco tutta questa ossessione per i miei genitori.»

«Non è un'ossessione, Lily» disse con durezza, anche se in qualche modo sentivo che non era rabbia rivolta a me. «Voglio solo che si rendano conto della realtà e accettino l'esistenza di tipi come me.»

Scosse la testa, le sue stesse parole galleggiavano tra di noi e rendevano la vista offuscata a entrambi. Ci facevano precipitare in un limbo di confusione inibitoria.

«Lascia stare, non capisci.»

Era vero, non capivo. Non capivo se volesse essere accettato dei miei come se si trattasse di una benedizione per la nostra relazione oppure accettato in via generale da tutte quelle persone che riservano dei pregiudizi superficiali. In entrambi i casi, non mi sembrò un'idea malvagia ma continuavo a credere che accompagnarmi sarebbe stata una mossa sbagliata. Conoscere i miei come fosse stato il mio ragazzo era fuori discussione, non avrebbero mai accettato quello che c'era tra di noi e io non volevo certo che Gideon tornasse a giudicarmi attraverso gli errori della mia famiglia. Allo stesso tempo, farli presentare senza che capissero in che rapporto fossimo mi sembrava inutile e stupido.

«Non voglio che parli di tipi» gli dissi, riafferrando il bicchiere e cercando di contenere le mie esuberanze.

«Eh?»

«Non devi parlare di tipi come te» specificai, «Altrimenti sei come loro. Lo so che mi hai detto di non paragonarti ai miei genitori ma cadi nella trappola da solo. Tu stesso ti consideri un tipo. Come pretendi che loro la pensino diversamente?»

«Non voglio che la pensino diversamente. Voglio che accettino la realtà.»

Mi sembrava una discussione così assurda che alla fine soffocai le mie mancanze con l'acqua. Gideon finì con l'alzarsi dal divano e girovagare per la stanza con l'aria dubbiosa e tormentata. Prese un bicchiere d'acqua per sé e poi s'incamminò a passo spedito verso la porta della sua stanza da letto. Le volte in cui mi aveva fatto entrare nell'appartamento, eravamo rimasti sul divano a chiacchierare o guardare la televisione. Un paio di volte ci eravamo baciati come se ne valesse della nostra vita; ma mai mi aveva fatta avvicinare alla sua camera. Dal mio conto, io sapevo che si trattava di una specie di sancta sanctorum che riuniva a sé il suo passato e il suo presente. Quando avevo dato una sbirciatina, l'avevo trovata una camera vuota e triste, con le pareti scure e pochi effetti personali. E poi quella cornice.

Quando Gideon fece sbucare la testa dalla porta, mi girai verso di lui.

«Non vieni?» mi fece, l'aria ancora assente ma che si stava lentamente riprendendo.

Con ansia e curiosità mi avvicinai alla porta e mi fermai sullo stipite. Osservai l'abitacolo a luci spente per quella che era la seconda volta ma finsi di esserne rapita come se si trattasse di una scoperta. Questa volta potei godermi ogni dettaglio essenziale, sicura di avere l'approvazione di Gideon. Le pareti non erano spoglie come ricordavo, accanto al letto erano appesi ritagli di giornale oppure disegni a mano libera che raffiguravano i più intriganti segni geroglifici che avessi mai visto. Mi avvicinai a loro titubante mentre Gideon rimaneva vigile con gli occhi fissi su di me. Gli passai accanto poiché era disteso sul letto e posai una mano aperta sul muro.

«Li hai fatti tu?» domandai, riferendomi ai disegni.

Gideon piegò il capo affinché potesse seguire il mio sguardo. «Sono opera di Todd. Veniva qui ad esercitarsi quando non aveva l'ispirazione. Diceva che la vista sulla strada gli faceva venire in mente moltissime idee.»

Mi avvicinai alla finestra, cercando di catturare l'essenza dell'ispirazione che aveva colpito Todd affinché disegnasse contorni tanto enigmatici. La finestra era chiusa e mi ci appoggiai con la fronte. Dava su una strada ad angolo dove un singolo lampione illuminava una piazzola dominata da secchioni. Non sembrava di grande ispirazione, l'unica cosa interessante sembravano le luci dei palazzi adiacenti che come un albero di Natale si accendevano e spegnevano a seconda delle azioni di chi li abitava.

«A proposito di Todd» cominciai, girandomi verso di lui. «Non avete mai passato un Natale insieme da quando vivi a Seattle?»

Gideon alzò le braccia e poggiò la testa sulle sue mani, addosso alla testiera del letto. I bicipiti fremettero sotto la maglietta che cominciò ad alzarsi all'altezza del bacino. Gideon non sembrava nemmeno rendersi conto della reazione che quella posa scatenava in me.

«In effetti sì, ma non si può dire che festeggiamo. Lui è solo, io sono solo. Ci vediamo e mangiamo qualcosa insieme. Alcune volte ha lavorato e io sono rimasto semplicemente a casa.»

Le sue gambe lunghe erano fasciate da jeans che mettevano in risalto ogni contorno ed erano distese sul letto, accavallate all'altezza delle caviglie. Aveva un corpo longilineo, snello e possente; era impossibile non sentirsi a disagio accanto a una stazza come la sua eppure in quella posizione sembrava così naturale e inoffensivo che mi veniva voglia di raggomitolarmi accanto a lui. Non avevo mai pensato di essere una ragazza da coccole eppure Gideon mi faceva sentire il bisogno di riceverne, tipo in continuazione. Da lui. Di ogni genere. In ogni momento.

«È triste» mormorai, mentre mi avvicinavo. Presi coraggio e mi tolsi le scarpe così da potermi almeno sedere accanto a lui. Con la coda dell'occhio vidi spuntare una tuta bianca e rossa dall'armadio e pensai che fosse quella che si metteva nel cantiere. Ero incuriosita da come stesse in quegli abiti.

«Non dirmi che è triste» esclamò lui con un sorriso.

«Ma lo è» ribattei, guardandolo negli occhi.

Mi rendevo conto solo in quel momento che le luci erano spente e che noi due eravamo seduti sul suo letto, comodi, a parlare di tutto e di niente. Gideon si spostò di un poco, mantenendo quella posizione da capogiro, e mi fece spazio. Lo presi come un invito a sdraiarmi accanto a lui ma nonostante ne avessi la più sfrenata voglia, mi costrinsi a tirare entrambe le ginocchia al petto e continuare a guardarlo faccia a faccia.

«Non è male come sembra» disse guardando verso il soffitto. «Todd, intendo. Gli stai simpatica.»

«Sì, ho notato. Non è male, hai ragione, e comunque ti somiglia parecchio.»

Gideon increspò un sopracciglio e sul suo volto si tinse un'espressione se non proprio di disgusto almeno di disappunto.

«Non intendo fisicamente» mi affrettai a rispondere. «Intendo come persona. Avete lo stesso senso dell'umorismo. E poi avete entrambi le braccia tatuate di scuro, senza i colori, e quegli sguardi duri e minacciosi.»

Accorgendosi della leggerezza del mio tono, Gideon si ritrovò a sorridere quasi senza volerlo.

«Forse hai ragione. Da quando l'ho conosciuto, non ho fatto alto che attaccarmi alla sua vita e renderla un po' mia. È stata la prima persona con cui ho parlato una volta arrivato a Seattle. Pensavo fosse un maniaco in cerca di ragazzini perduti, invece ho scoperto che aveva un paio d'anni in più di me e voleva solo darmi una mano. Allora abitavo nella macchina con cui avevo viaggiato fino a qui e lui ha cominciato a venire a trovarmi tutti i giorni per due intere settimane.»

Gli occhi di Gideon erano vaganti, due proiettili grigi che viaggiavano nei ricordi. Il suo volto era fisso sul soffitto, come se quella parete scura e angusta racchiudesse ogni segreto del passato che Gideon conservava gelosamente. Decisi di non interromperlo e rimanere in silenzio, senza espirare rumorosamente, per cercare di farmi spazio in quel piccolo spiraglio.

«Un giorno mi ha portato a pranzo fuori e poi a cena. Quindi ho conosciuto Ciel, che aveva la mia età e mi ha subito trattato come un cane con la rabbia. Todd mi ha ospitato nella sala tatuaggi per un po', visto che lui abita al piano di sopra, e io ho cominciato a fidarmi di lui. Poi sono venuti i tatuaggi e poi l'università.»

Finì il racconto con un sospiro che portava con sé il macigno del tempo. Gideon sembrava addolorato ma anche orgoglioso di quel racconto, come se si trattasse di una cicatrice di guerra. I suoi occhi trovarono i miei ed entrambi fummo catapultati alla realtà.

«Mi chiedo perché non interrompi gli studi, se sai che il tuo futuro non te lo garantisce una laurea in architettura.»

Gideon spostò un braccio e lo lasciò cadere al suo fianco, posando la mano pericolosamente vicino alle mie caviglie. Scosse le spalle.

«Chi lo sa, forse diventerò un architetto. Forse lascerò gli studi un mese prima della laurea. Forse penderò la laurea ma non diventerò un architetto.»

I suoi piani vaganti mi facevano venire il mal di testa.

«Non hai un piano per il futuro? E il cantiere?»

«Quello mi permette la libertà.»

Non capivo di cose stesse parlando. Pensai si riferisse al fatto che grazie ai soldi del lavoro poteva mantenersi un appartamento ma poco reggeva con la storia della libertà. Qualcosa, nelle sue parole, era tenuta strettamente celata e non faceva tornare i conti.

«Ma vuoi diventare un architetto?»

«Diciamo solo che non mi entusiasma come lavoro. Ma se non ho altre strade, dovrò per forza diventarlo.»

Scossi la testa, disturbata da quella logica poco precisa. «Non sembri il tipo che si accontenta. Insomma, non hai mai sentito parlare dell' inseguire i propri sogni

Gideon alzò il busto, reggendosi al materasso con i gomiti. Le sue ginocchia si piegarono per mantenere l'equilibrio e d'un tratto lo sentii vicino, forte e caldo.

«E se non avessi sogni da inseguire, Lilylove?»

«È impossibile!» ribattei con enfasi. «Tutti hanno almeno un segno nel cassetto. Non dico che sia sempre giusto o possibile perseguirlo, ma almeno tenerselo stretto quando la realtà è troppo dura da affrontare. Ognuno di noi ha bisogno di un sogno in cui rifugiarsi quando tutto diventa semplicemente... troppo.»

Mi guardò con un intensità tale da rendermi difficile respirare. Era diventato bravo in questo, togliermi l'ossigeno. Non faceva che guardarmi con quegli occhi, e dire certe cose, e sfiorami le mani in quel modo...

«Beh, io non ho sogni in cui scappare. Scappo, sì, ma non ho mai trovato un rifugio.»

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