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16. Forse non ti piaccio abbastanza

Quando Gideon entrò, mi trovò seduta sul divano intenta a cercare di accendere il televisore. Lo aiutai con le buste e mi lasciò sistemare qualche scorta nel frigorifero.

«Ti aiuto a cucinare» gli dissi mentre lo osservavo posare gli adeguati pensili e sughi sul piano cottura.

«Sai farlo?»

Colsi nel suo tono un avvertimento divertito e di rimprovero, mi stava prendendo in giro. Questa volta, però, in maniera scherzosa. Voleva farmi divertire. Nascosi un sorriso girandomi dall'altra parte.

«Puoi insegnarmi.»

Gideon non sembrava molto propenso a lasciarmi avvicinare ai coltelli o ai fornelli, mi trattava come fossi una bambina che deve tenere lontane le mani dal forno. Mi lasciò lavoretti che anche dalla mia esigua esperienza riconoscevo insignificanti. Aprii i barattoli di sugo e li versai nella pentola che poi lui si prese la premura di mettere sul fuoco.

«Non vorrei che le tue mani si rovinassero» mi spiegava di tanto in tanto, quando brontolavo per fare qualcosa di più costruttivo. Ribattevo che le mani si rovinavano con lavori molto più faticosi, come il giardinaggio o la scultura, ma lui non sembrava volermi dare retta. Alla fine restai a fissarlo mentre friggeva carote e cipolle nell'olio e mi limitai a porgere domande per capire meglio e trovarmi preparata nella possibile eventualità che la stessa scena si ripetesse in futuro.

Gideon cucinava per necessità, mi stava spiegando, non perché gli piacesse. Però con il tempo e la noia si era dato ai siti internet e aveva scoperto ricette assai succulente. Quella previsa per la sera in cui ero ospite comprendeva della pasta fatta in casa ripassata con sugo aromatizzato e un'insalata di pollo. Era bravo, molto più di quanto potessi sperare di essere io in futuro se mai avrei imparato a cucinare. La mamma mi aveva sempre assicurato che una volta avviata la mia vita mi sarei dovuta occupare soltanto di affari e grandiosità, di ricevimenti e inviti suntuosi, di cene raffinate e tanto, tanto buon lavoro. Non avrei avuto né tempo né voglia di restare in cucina a preparare del cibo, a quello ci avrebbe pensato chiunque io mi sarei potuta permettere di assumere. Nella casa della mia infanzia era Georgia, una donna che veniva da Cuba e aveva l'accento del Kentucky, che si preoccupava delle pulizie, dei pasti e della spesa. Da piccola avevo pochi ricordi di pomeriggi passati con i miei ma ne conservavo di bellissimi al parco con Georgia.

«È tutto buonissimo» dissi a Gideon, mentre finivo la mia insalata.

«Il tuo tono sorpreso mi offende. Ormai dovresti sapere che l'apparenza inganna.»

Sebbene il suo tono fosse sempre costantemente impassibile non riuscì a nascondere un sorriso beffardo.

«Non sono sorpresa perché tu sai cucinare. Sono sorpresa che riesca a farlo meglio di me.»

«Non hai mai cucinato?»

Scossi la testa e la abbassai, piena di vergogna. «Mia madre non sa farlo e io non sono mai dovuta ricorrere a un uovo al tegamino dell'ultimo minuto. Abbiamo una donna che si è sempre occupata di queste cose.»

Gideon annuì distratto e a me tornò alla mente la cornice nel suo cassettone. I vetri rotti e le facce annerite mi ossessionavano la testa. La mia lingua non voleva farne parola ma la ragione prendeva sempre il sopravvento sulle mie emozioni e sapevo che sarei scoppiata a breve. Cercai di distrarmi pensando a che bella serata stessi passando in sua compagnia. Le luci erano accese ma soffuse, Gideon aveva acceso una stufetta che teneva ben nascosta accanto al divano e l'aria era calda e confortevole. Eravamo seduti l'uno di fronte all'altra e tra di noi le posate piroettavano sui piatti. Era piuttosto intimo e la consapevolezza di quel momento mi piombò addosso con vivace torpore. Ero contenta di star vivendo una serata come una normale ragazza di diciotto anni, in compagnia di un bel ragazzo, parlando serenamente del più e del meno. In più, l'idea di stare sola nel suo appartamento non m'incuteva ansia o timore; in qualche modo sapevo, o almeno speravo ardentemente, che Gideon si sarebbe comportato da gentiluomo come aveva dimostrato di saper fare più volte, e mi avrebbe riaccompagnato al dormitorio a qualunque ora glielo avessi chiesto. Mentre finivo di raccogliere gli ultimi succulenti pezzi di pollo, Gideon restò a guardarmi con le mani incrociate sopra il tavolo. Il suo piatto era vuoto e sotto la luce giallognola delle lampade sul muro, sul suo volto brillavano sfumature ombrose.

«Non dirmi che sono sporca di sugo in faccia.»

«Eh?»

«Mi stai fissando. Ho qualcosa in faccia?»

Restò a fissarmi ancora un altro po' in totale silenzio, poi si lasciò stravaccare sullo schienale della sedia.

«Non hai nulla di unto in faccia, tranquilla. Ti stavo guardando perché assomigli molto a tua madre ma non riesco a trovare nulla di tuo padre.»

Le sue parole mi sorpresero tanto che la forchetta mi sfuggì dalla presa e rotolò sul tavolo fino a far tintinnare il bicchiere.

«Qualcosa ti ha sorpreso?»

Restai imbambolata a sbattere le palpebre prima di trovare il coraggio di rispondere.

«No, scusa, è che non mi aspettavo quello che hai detto. Molti dicono che sono uguale a mia madre, ho ripreso moltissimi tratti somatici da lei: i capelli castani, le labbra piccole, il volto tondo...»

«Gli occhi verdi» finì lui al posto mio e io scossi la testa, sorridendo.

«I miei occhi non sono proprio verdi, in realtà. Vado più per il nocciola e credo di aver preso da mio padre in questo. Non so, ho sempre pensato fossero un colore talmente neutro e banale da considerarlo noioso.»

In confronto ai suoi occhi argentati, i miei non erano davvero nulla di che. Con la luce giusta potevano apparire verdi ma di un colore scuro e che stonava con la limpidezza delle iridi chiare che tanto piacevano. I miei occhi non erano né chiari né scuri; erano il miscuglio della genetica dei miei genitori.

«Mi piacciono i tuoi occhi» disse dopo un po', sporgendosi in avanti per osservarli meglio.

«Ti devono piacere le cose banali e scialbe allora. Che cosa dovrei dire io dei tuoi?»

Il mio tentativo di fargli un complimento non andò in porto come pensavo perché si ritrasse come fosse stato scottato da un fiammifero. Se a Gideon piacevano occhi sciocchi e comuni come i miei, erano due le possibilità: aveva gusti particolari oppure qualcosa nella chiarezza degli occhi lo turbava. Mi venne in mente il ragazzino che nella foto Gideon stava abbracciando. I boccoli dorati cadevano sui suoi occhi e s'incastravano alle ciglia lunghe. Sembravano la fotocopia l'uno dell'altro, se non fosse stato per l'altezza e le espressioni opposte.

«Cosa mi dici dei tuoi tratti, invece? Assomigli ai tuoi genitori?»

Trattenni il fiato attendendo una sua risposta o una reazione. Gideon rimase immobile, la schiena poggiata al legno chiaro e le braccia ferme sul tavolo; mi stava guardando ma non ero sicura che mi vedesse. Le mie parole lo avevano colpito, era evidente, ma non poteva sapere che avevo dei sospetti. La mia domanda appariva innocua ma non meno pericolosa, per lui.

«No» disse dopo attimi interminabili di attesa. «Non somiglio a nessuno dei miei genitori.»

«Che strano...»

Mi alzai, cercando di ritrovare l'autocontrollo e sparecchiai i piatti dalla tavola. «Parlami un po' di loro, oppure della tua famiglia in generale. So che sei dell'Illinois e sei venuto a Seattle da solo.»

Continuai a sparecchiare sotto il suo attento sguardo e qualcosa nella sua espressione mi suggerì che mi stavo barcamenando in un territorio vietato. Avrei dovuto immaginarlo ma la curiosità era tanta che non riuscivo a fermarmi. Mi avrebbe potuto zittire in qualsiasi momento eppure attendevo risposte, speravo che volesse parlarne. Forse in realtà la storia della cornice era molto più banale di quanto immaginassi. Forse si era rovinata anni addietro per un incidente e cadendo da qualche parte si era persino rotta. Forse Gideon attendeva di sostituirla e l'aveva rivolta verso il basso solo per contenere i vetri. Forse mi stavo agitando per nulla ma ero famosa nella mia famiglia per voler venire al nocciolo di qualsiasi questione, persino la più banale. Volevo assicurarmi che la questione della cornice fosse tutto un fraintendimento ma non potevo certo chiederglielo direttamente perché altrimenti avrei ammesso la mia colpa e sarei stata nel torto dal principio. Volevo che lui si aprisse con me spontaneamente e rispondesse alle tacite domande alle quali agognavo.

Gideon rimase in silenzio. Quando finii di sparecchiare, non si prese la premura di ringraziarmi ma pensai di averlo turbato troppo così non dissi nulla. Mi risedetti davanti a lui in attesa e alla fine mi sporsi un po' in avanti, cercando di conferirgli serenità.

«Va tutto bene?»

«Certo» rispose subito, come se il suo silenzio non fosse mai esistito, come se le mie domande non fossero mai state porte. Mi aveva semplicemente ignorato e si aspettava che facessi altrettanto.

«Allora... La tua famiglia?»

«Non voglio parlare della mia famiglia.»

«Perché no?»

«Non mi va e basta. E non sono affari tuoi.»

Colpita fisicamente dalle sue parole, mi feci indietro.

«Scusa» mormorai a bassa voce, sentendomi di troppo. Avevo esagerato ma questo mi aveva insinuato nella testa un dubbio ancor maggiore. Se Gideon non voleva parlare, significava che c'era qualcosa che si teneva dentro. La maggior parte delle volte riguardava un segreto. Forse si trattava della sua partenza per Seattle, forse anche della cornice. Ma per quella sera avrei smesso con le domande e l'invasione.

«Non volevo insistere» ripresi, cercando nel mio tono qualcosa che potesse tranquillizzarlo. Non sembrava arrabbiato né stanco, non mi stava riservando rancore, ma non voleva sicuramente parlarne. Alla fine si fece un po' avanti anche lui.

«Scusa tu per la violenza delle mie parole. Devo esserti apparso uno psicopatico. In realtà non voglio parlarne perché non c'è nulla d'interessante da dire. Ho semplicemente interrotto tutti i rapporti con loro e parlarne distruggerebbe la promessa che mi sono fatto molti anni fa.»

Oh. Questo cambiava le cose. Come sospettavo e speravo non era nulla di grave, probabilmente si trattava di una grande litigata adolescenziale. Nonostante questo, erano affari suoi e basta. Se mai un giorno me ne avesse voluto parlare, sarei stata lì per lui.

«Va bene» dissi allora, convinta che la serata potesse rianimarsi. «Non parliamo più di genitori e famiglie.»

Non mi regalò un sorriso ma seppi che era d'accordo. Poi però scosse un po' la testa e si alzò dalla sedia, accartocciando la tovaglia.

«Anche tu hai fatto una promessa simile sui tuoi genitori?»

Mi alzai seguendolo fino al divano. Sapevo che in qualche modo ci eravamo addentrati nel discorso lasciato in sospeso nel corridoio.

«Non hai idea di come siano i miei genitori.»

«Posso immaginare.»

«Non sono cattive persone» mi affrettai a dire. «Mi vogliono bene e io ne voglio a loro. Ho aspettato di essere indipendente per molto tempo e nonostante questo continuano a influenzarmi in molti aspetti della mia vita. Non so come mi faccia sentire.»

Gideon mi venne accanto e sentii subito il calore del suo braccio a contatto con il mio. Ero inebriata dalla sensazione che il mio cuore battesse più veloce quando ero vicina a lui, che la mia testa piuttosto che andare in tilt tornava fermamente lucida. Gideon mi faceva sentire sicura, sia accanto a lui sia di me stessa.

«Quando hai l'esame?»

«Gli esami, vorrai dire» lo corressi. Poi sbuffai, sentendomi cadere addosso la paura di un nuovo test. «Martedì, giovedì e venerdì.»

Lui annuì distrattamente e accese il televisore. «Venerdì pomeriggio sei prenotata.»

«Da chi e per cosa?» chiesi, guardandolo.

Da dietro, le luci giallognole gli creavano un'aureola attorno alla folta capigliatura pece mentre i riflettori della televisione rendevano la sua pelle più pallida di quanto fosse. Le pupille nei suoi occhi erano tanto strette che temetti potessero incombere nell'iride e sparire, lasciando solamente le sfumature di un mare in tempesta.

«Da me» rispose, guardandomi a sua volta. Eravamo tanto vicini che il suo mento sfiorava la mia fronte ma solo le nostre braccia si toccavano distrattamente. Così presi l'iniziativa e allungai un braccio, afferrando la sua mano.

«Per cosa?» chiesi ancora mentre vedevo i suoi occhi abbassarsi sulle nostre dita intrecciate.

«Per un po' di svago dopo il dovere. Scommetto che avrai voglia di rilassare un po' la testa dopo gli esami.»

Probabilmente aveva ragione e la prospettiva che avrei passato del tempo di svago con lui mi faceva frullare lo stomaco. Gli strinsi un po' la mano facendogli capire che per me andava bene e quindi tirai su le ginocchia, lasciando i piedi con tutte le scarpe oltre il bordo.

«Non ti addormenterai ancora, vero?»

Risi piano, temendo di spezzare l'incantesimo di due ragazzi accoccolati a distanza sul divano. «Tu cerca di tenermi sveglia e io vedrò che posso fare.»

¤¤¤

Dakota stava andando fuori di testa, letteralmente. Non faceva che afferrare dei fogli, accartocciarli, spedirli dall'altra parte della stanza e poi correre a riprenderli. Un paio di volte era scoppiata a piangere e un altro paio aveva sbattuto le mani sull'armadio. Eravamo arrivate al punto di chiedere una camomilla forte giù in cucina e l'avevo convinta a stendersi sul letto con una pezza calda sulla fronte. In quel momento stava facendo grandi respiri mentre teneva la pezza ferma con un braccio.

«Mi dispiace» disse, senza aprire gli occhi. «Di solito non vado così fuori di testa per gli esami. Ma questa volta so di aver combinato un disastro. Non ho capito nulla degli ultimi argomenti e in Scienze della terra hanno aggiunto qualche domanda di biologia alla quale non ho saputo rispondere.»

«Ho chiesto a Gideon di far venire Connor» dissi, mentre la osservavo seduta sul letto.

Dakota aprì un occhio. «Davvero?»

Annuii cercando di capire dal suo tono se avevo fatto bene oppure no. La vidi visibilmente rilassarsi e sulle sue labbra comparve un sorriso.

«Wow, grazie Lily. Solo Connor avrebbe saputo che avevo bisogno di lui se mi avesse visto in questo stato. Sono felice di aver trovato un'altra persona in grado di capirmi così velocemente.»

Sorrisi anch'io, sentendomi d'aiuto e gratificata dalle sue parole. Ero felice di averla aiutata e di star creando con lei un legame assai proficuo. In mancanza di Addy, avevo bisogno di qualcuno che mi sorreggesse come solo una migliore amica può fare. Dieci minuti più tardi la porta si scosse sotto potenti colpi. Andai ad aprire e mi ritrovai di fronte Connor con un'espressione un po' emaciata. Mi salutò distrattamente con una mano e andò dritto verso la ragazza che lo abbracciò. Mi resi conto che c'era qualcuno dietro Connor solo quando questa persona mi prese per mano e mi condusse fuori dalla stanza, chiudendo la porta. Mi ritrovai davanti a Gideon, una sua mano stretta nella mia e l'altra che si era improvvisamente materializzata sulla mia guancia.

«Com'è andata?»

«Piuttosto bene» risposi entusiasta. «Sono stati tre giorni faticosi ma ho risposto a tutto e dovrei averli passati decentemente.»

Sorrise come se il mio entusiasmo potesse essere contagioso e senza dire più un'altra parola avvicinò il suo volto al mio. Il mio cuore balzò in gola. Era da tanto tempo che desideravo baciarlo ancora ma non avevo mai avuto il coraggio per fare la prima mossa. Aspettavo semplicemente che anche lui lo volesse e quando le nostre bocche si toccarono sospirai di sollievo. Mi misi in punta di piedi per avvicinarmi meglio e premetti il mio mento contro il suo. Quando passai le dita sulla sua guancia mi chiesi che sensazione potessi provare se si fosse lasciato crescere la barba. Gideon mi tenne vicina stringendomi il retro del collo e io mi lasciai guidare dalla sensazione che le nostre bocche facessero rumori strani ma romantici. Anche se ci eravamo scambiati pochi baci, mi sentivo come fosse ormai un'abitudine. Come se le mie labbra si adattassero alle sue e si muovessero come desiderava. Gideon non lasciava che mi muovessi di fantasia, prendeva il controllo totale e a me andava bene. Ogni tanto la sua lingua saettava sulle mie labbra e me le faceva socchiudere ancora di più. Adoravo i giochetti con i quali mi stuzzicava facendomi perdere il fiato.

Si staccò dalle mie labbra senza che potessi prevederlo e andarono a toccare un'altra zona della mia faccia, più nascosta e intima. La tempia. Un po' sbalordita lasciai che il calore delle sue labbra tornasse verso le mie ma lui si abbassò e baciò la base delle orecchie. Mi stava facendo il solletico ma non sembrava carino ridere e dimenarmi per allontanarmi. In realtà, mi piaceva la sensazione della sua bocca morbida sulla mia faccia, ovunque fosse. Ridacchiai solo quando finì con il baciarmi il mento e alzandomi la faccia, a quel punto rise anche lui.

«Sembri felice» mormorai, facendo un passo indietro.

Mi diede un pizzico sul mento e sorrise mordendosi il piercing. «Lo sono. Perché è il tempo del sequestro.»

¤¤¤

L'ultima volta che avevo visto Todd era prima che mi mettessi con Gideon. Mettermi con Gideon. Non sapevo a che punto della relazione fossimo, non ci eravamo dati etichette e né Dakota né Connor ci avevano chiesto cosa stessimo facendo. Era semplice dedurre che in realtà fossimo solamente attratti l'uno dall'altra, senza baci nel mezzo, perché in pubblico non ci mettevamo mai troppo vicini e sicuramente non ci scambiavamo effusioni. Lo avevo baciato tre o quattro volte e sempre quando eravamo da soli. Non sapevo come si comportassero le coppie ma sicuramente non mi sedevo sulle sue ginocchia durante il pranzo con faceva Dakota con il ragazzo, non gli pulivo la faccia con un dito quando qualche salsa rimaneva incastrata al lato delle labbra, non gli prendevo la mano quando camminavamo vicini. Mi rendevo conto che ci fossimo infatuati l'uno dell'altra ma capivo anche che bisogna procedere lentamente in queste situazioni. Io non avevo fretta di etichettare me e Gideon come una coppia anche se nel profondo del mio cuore speravo che lo fossimo ormai. D'un tratto riuscivo a immaginare solamente lui al mio fianco; qualsiasi altro ragazzo sarebbe stato ridicolo e inappropriato.

Abbandonai in fretta le riflessioni sul punto in cui ero con Gideon e mi ritrovai dentro la sala tatuaggi con lui al mio fianco. Quel venerdì pomeriggio non c'erano clienti, a detta di Gideon, e notai subito una ragazza seduta a gambe incrociate sul pavimento con la schiena posata al bancone. Davanti a lei c'erano delle foto e un album aperto era supino sulle sue gambe. Appena il campanello della porta trillò al nostro arrivo, Ciel alzò la testa e delle ciocche azzurre le finirono sugli occhi.

«Ciao» disse distrattamente, e tornò con gli occhi sulle sue foto. «Todd è sul retro.»

«Ti ho portato la merenda» disse Gideon porgendo il sacchetto bianco alla ragazza.

Durante il tragitto per arrivare lì, Gideon si era fermato al ristorante italiano sull'angolo e aveva comprato quelle che mi disse fossero delle focaccine appena sfornate. Ciel afferrò il sacchetto velocemente e spiò l'interno. Il suo volto sembrò illuminarsi. Poi i suoi occhi s'incupirono e seguirono il movimento di Gideon lungo la stanza.

«Che cosa vuoi in cambio, Smith?»

Gideon si premette le mani sul petto e socchiuse gli occhi. «Nulla, in realtà. Ma visto che me lo hai chiesto e insisti tanto, propongo il tuo affetto.»

Ciel gli fece la linguaccia prima di tornare alle sue focacce e ignorarci completamente. Ero piacevolmente sbalordita dai suoi toni scherzosi verso Ciel; Gideon mi aveva detto che la conosceva solo perché aveva qualche legame con Todd, legame di cui non ricordavo la natura, ma che non erano in intimità. Non ero gelosa ma piuttosto sollevata che Gideon provasse affetto e riuscisse a dimostrarlo con toni amichevoli e scherzosi.

Mi guidò nella stanza sul retro, quella nella quale mi aveva portato anche Todd quando ero venuta a fargli visita. L'uomo grande e tatuato era sdraiato sul divanetto e teneva un libro aperto tra le mani. Senza toglierlo dai suoi occhi né abbassarlo, disse: «Ti ho sentito parlare con Ciel. Se ti servono venti dollari, Gideon, prendili senza chiedermi il permesso.»

«Com'è bello sapere che quando vengo qui tutti crediate che mi serva qualcosa, come un favore o venti dollari.»

«Non è forse sempre stato così?» domandò sarcasticamente Todd e a quel punto tolse il libro. I suoi occhi finirono subito nei miei e la sua bocca si aprì un po'.

«Oh, guarda guarda chi hai portato nella tana del lupo.»

«Ciao Todd» dissi io, sorridendo amabilmente.

«Lily.»

Fece un segno formale con la testa, come i gentiluomini di una volta e Gideon sembrò sorpreso dal nostro scambio di battute.

«Allora» riprese il ragazzone dagli occhi neri. «A cosa devo questa visita se non sei interessato ai miei soldi?»

Gideon camminò tanto vicino a lui da lasciar cadere le sue gambe dal divano e sedersi comodamente al loro posto. Todd gli riservò un'occhiataccia.

«Un po' di svago, suppongo. Hai qualcosa da bere?»

Todd mi disse di accomodarmi mentre andava verso il mini frigo e acciuffava tre birre. Ne porse una anche a me ma rifiutai di buon grado.

«Non ha l'età per bere» esclamò Gideon, lasciandomi un'occhiata. Ero sorpresa che si ricordasse che non bevessi per quel motivo ma Todd rise di gusto e mi fece girare nella sua direzione.

«Sei una ragazza rara, Lily.»

Al suo compimento –pensai di trattasse di quello –, m'imbarazzai e abbassai lo sguardo. Gideon seduto accanto a me, mi diede un buffetto sul gomito.

«Non sono l'unico a pensare che tu sia matta.»

Todd, che si era seduto su una sedia davanti a noi, incrociò le braccia al petto e socchiuse gli occhi. Sulle guance gli cresceva una barba irregolare e dalle sfumature chiare in contrasto con le iridi tanto oscure.

«Non penso che sia matta...» Alzò il mento con fare pensiero e dopo un attimo si ritrovò ad annuire silenziosamente. «Forse un po' matta lo è, per lasciarsi abbindolare da uno come te.»

Gideon tirò su una mano e fece il medio all'amico. Non fui sorpresa da quel questo, Addy amava mandare a quel paese chiunque le desse fastidio e ormai ero abituata. Mi sorprese più il sorriso che comparve agli angoli della bocca di Gideon mentre faceva il gestaccio a Todd, come se si stuzzicassero a vicenda continuamente, tanto da renderlo divertente e familiare. Riconoscevo del calore, in quel posto tanto angusto, che la mia casa si era sognata di possedere per molti anni.

«Un po' matta lo è per forza» continuò Gideon, sorseggiando la sua birra.

«Perché riesco a frequentarti senza andare fuori di testa?» ribattei, sentendo il bisogno di intromettermi nella loro conversazione dato che stavano parlando del mio stato psichico. Todd sbottò a ridere e Gideon si limitò a girare la testa verso di me, lo sguardo calcolatore.

«Anche, ma soprattutto perché riesci a essere carina e educata con tutti ma appena ti avvicini a un ragazzo il tuo intero sistema va in tilt. Con me non succede e questo mi fa ridere.»

Non ci trovavo nulla di divertente ma ero d'accordo con lui. Aveva ragione, comunque. Anche Gideon si era accorto di questa stramba situazione e non seppi come reagire a questa sua consapevolezza. Forse si ricordava di quello strano incontro con Josh Dickens nell'auditorio o di quando ero scappata da Jesse, il ragazzo vestito da Superman che era solo venuto a farmi compagnia sotto stretta richiesta di Gideon. Sì, potevano essere pretesti piuttosto competenti di cui avvalersi.

«Forse mi piaci troppo» dissi, cercando di trattenere il rossore che stava lentamente salendo dal collo fino alle guance. La frase mi era uscita di getto, come se non ci fosse un minimo controllo tra quello che pensavo e ciò che mi usciva dalla bocca. Però non avevo mentito: all'inizio riuscivo a stargli accanto proprio perché volevo tenermi lontana, proprio perché sapevo che non avrebbe combinato niente di importante nello starmi vicino. Adesso però era diverso.

«O forse, non ti piaccio abbastanza.»

Todd sorrise, Gideon mi fissò negli occhi. Io ero rimasta a bocca aperta per quello che aveva detto. Quindi scossi la testa e aspettai che si spiegasse meglio. Un attimo dopo prese un altro sorso di birra e si rivolse al suo amico.

«Che cosa sta facendo Ciel, comunque? Sembra che sia tornata ad avere sette anni.»

«Daisy» rispose Todd e venni catturata da questo nuovo discorso. «Le ha fatto una specie di ultimatum. O Ciel si apre con lei e la smette di essere il frigido ghiacciolo che tutti noi sopportiamo, oppure la lascia definitivamente. Quella testa calda di mia sorella è andata nel panico e ha deciso di farsi perdonare con un po' di creatività. Mi ha chiesto di tirare fuori dagli scatoloni tutti gli album di famiglia che avessimo, ovvero uno, e di darle il permesso di prendere qualche foto. Poco m'importa a me delle foto, le ho detto. Così sta facendo qualcosa come un collage cercando di ricostruire la storia della sua vita. È convinta di poter regalare metaforicamente sé stessa a Daisy.»

Il tono di Todd era giocoso, quasi come se trovasse l'idea di Ciel ridicola, ma nei suoi occhi luccicava comprensione e affetto circondati da una dolcezza sottile. Ciel non mi aveva fatto una grande impressione la prima volta che l'avevo conosciuta e le volte a seguire erano state talmente rare che non avevo nemmeno perso tempo a farmi un'idea su di lei. Avevo assistito alla tristezza di Daisy e, se Ciel si stava impegnando per aggiustare le cose, pensai che fosse un gesto spettacolare.

«È una bellissima idea» dissi prima che potessi fermare la mia bocca dal farfugliare ancora.

Todd mi guardò. «Sì, se ti piacciono gesti romantici ed eclatanti.»

«È una cosa brutta?»

«No» si affrettò a dire. «Ma conosco poche persone che ancora la pensano così.»

Mi lanciò una lunga occhiata e posò la birra sul pavimento. «Scommetto che a te piacciono questo tipo di gesti.»

Ammetterlo forse sarebbe stato sconveniente, soprattutto in presenza di Gideon. Lui non sembrava per niente il tipo da gesti eclatanti, benché meno romantici, ma Todd aveva ragione. Io ero il tipo da quei gesti. Mi ingozzavo di film spazzatura con il lieto fine, i romanzi rosa erano il carburante della mia giornata. Per questo avevo atteso tanto il primo bacio, per questo avrei programmato il mio matrimonio perfetto. Per questo, forse, avevo anche problemi sociali.

Alla fine Gideon si alzò e andò a buttare le bottiglie.

«Sarà meglio che andiamo, riporto Lily al dormitorio»

Todd si alzò e ci accompagnò all'entrata. Ciel era ancora seduta a terra, gli occhi che come paline da biliardo scattavano di qua e di là sulle fotografie. Tra i capelli aveva anche dei pezzettini di carta. Todd la guardò facendo una smorfia.

«Che dici, ti serve un aiutante?»

Ciel non alzò nemmeno gli occhi su di lui. «Va a prendermi altra colla. E abbiamo della carta stagnola? No, forse è meglio quella trasparente. O, fammi un favore, prendile entrambe e poi vediamo.»

Todd ruotò gli occhi al cielo e si portò gli indici alle tempie, ruotandoli a mezz'aria. Gideon sorrise e salutò tutti mentre con una mano premuta sulla mia schiena mi congedava dalla sala tatuaggi.

¤¤¤

Più tardi quella sera, quando Gideon entrò nella mia stanza per gli ultimi saluti, mi tornarono in mente le sue parole che in qualche modo mi avevano scottato.

«Quando hai detto che forse non mi piaci abbastanza, stavi scherzando vero?»

Gideon, che stava camminando in direzione della finestra, si fermò e si voltò verso di me.

«Perché me lo stai chiedendo?»

«Beh, perché è un pensiero un po' strano da fare.»

«Credi che sia strano pensare di non piacerti abbastanza?»

Mi persi un po' nel senso delle nostre parole e quando ci arrivai annuii con vigore. Gideon fece qualche passo avanti, avvicinandosi alla mia figura immobile. Nella stanza scura i suoi occhi brillavano come piccoli diamanti immersi in un mare di petrolio e io ero troppo concentrata su di loro per rendermi conto che aveva allungato le mani e mi aveva toccato le braccia, i marchi neri incisi sulle sue dita facevano un grande contrasto sulla mia pelle pallida che quasi sussultai.

«Ci conosciamo da poco e non pretendo di piacerti già molto. So che molti dei miei comportamenti sono ancora un mistero per te, come molti dei tuoi lo sono per me. Se ancora non mi conosci per bene, come fai a sapere che ti piaccio?»

Le sue parole avevano un senso, eccome se ce lo avevano, e infondo dovetti ammettere che aveva ragione. Però per qualche assurdo motivo io sapevo che Gideon mi piaceva. O almeno, quello che conoscevo mi piaceva. Non lo comprendevo ancora profondamente ma tutto ciò che avevo visto aveva cominciato ad essermi familiare e non potevo ignorare il batticuore che come un allarme mi ricordava chi avevo vicino o chi per sbaglio mi aveva sfiorato la mano. E poi c'era la questione del bacio. C'erano parti di me stessa che persino io ignoravo eppure erano state proprio quelle a fidarsi di Gideon tanto da convincermi a farlo diventare il primo. Non potevo spiegarlo a parole, lo sentivo e basta, e speravo che anche lui sentisse qualcosa che, sebbene non potesse spiegare, riusciva a dare un senso a quello che eravamo.

«Forse hai ragione» mormorai infine. «Però sono sicura che anche tutto ciò che ignoro finirà con il piacermi quanto già mi piace quello che conosco.»

Gideon fu sul punto di dire qualcosa ma alla fine decise che era meglio tacere, quindi lasciò cadere le braccia e mi augurò una buona serata. Avevo avvertito, nel suo ultimo sorriso, qualcosa che mi ricordava la misteriosità di un segreto. Qualcosa che voleva ma non poteva dirmi pendeva dalle sue labbra ma non era stato abbastanza coraggioso da tirarlo fuori e affrontarlo.

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