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15. Dentro il gioco

Mia madre era davanti alla porta della mia camera. Dietro di lei, l'ombra di mio padre che guardava con un sopracciglio alzato ogni ragazza che passava nel corridoio.

«Allora, non ci fai entrare?»

«Oh, sì, certo. Entrate pure.»

Mi scostai e lasciai che osservassero ogni piccolo dettaglio con sguardi acuti e occhi pronti. Poco dopo mi avrebbero rinfacciato ogni piccolo errore, me lo sentivo.

«Allora, che cosa ci fate qui?»

La mamma si avvicinò al letto e lanciò un'occhiata alla cornice che ritraeva noi tre su un campo da golf; la foto risaliva a qualche anno prima, quando ogni estate mi portavano al campo estivo del loro club.

«Stiamo andando a pranzo dai Cavendish, abitano qui vicino. Tuo padre ha pensato di venire e farti un saluto.»

Gli sorrisi, anche se mi stava dando le spalle. Era alla finestra.

«È molto carino da parte vostra. Però tra poco devo andare a lezione.»

Gli occhi di mia madre s'illuminarono.

«Sì, certo, immaginavamo. Ho pensato che potremmo accompagnarti.»

Aspettai qualche secondo prima di rispondere.

«Ehm... Va bene, non c'è alcun problema.»

Pensai a come sarebbe stato camminare tra i corridoi dell'università con i miei genitori al fianco, come se mi stessero accompagnando dal dottore. Mi sarei sicuramente sentita in imbarazzo ma non potevo certo farlo presente.

Ringraziai chiunque mi stesse ascoltando per aver fatto uscire Dakota prima così non ero stata costretta a fare le conoscenze. In qualche modo ero sicura che i miei genitori avrebbero notato una scintilla ribelle negli occhi chiari della mia amica e avrebbero disapprovato. Addy non era mai stata nelle loro grazie e preferivo che Dakota nelle loro menti rimanesse uno stereotipo come me piuttosto che sottostare ad altre critiche. Finsi di dover uscire per andare a lezione prima per non sopportare i continui sguardi sprezzanti che lanciavano a destra e a manca tra le pareti della camera. Come previsto, si misero ognuno a un mio fianco. La mamma mi prese a braccetto.

«Quanto dista l'edificio?» chiese mio padre, una volta usciti tutti e tre per strada.

«Non molto, è vicino il quartiere delle confraternite.»

Mia madre alzò gli occhi al cielo. «Ancora esistono? Pensavo che dopo tanto tempo quest'assurda tradizione si fosse estinta.»

«Ancora esistono, cara» rispose papà, guardandosi attorno. Aveva alzato gli occhiali scuri sul capo e qualche ciocca brizzolata fuoriusciva dalle asticelle e gli scherniva le tempie.

«Pensiamo di voler parlare con i tuoi insegnanti» riprese mia madre, facendomi subito irrigidire.

«Non mi sembra una buona idea. Voglio dire, non è necessario.»

I suoi occhi severi si prepararono a un'ammonizione.

«Riteniamo che sia necessario, al contrario. Vogliamo essere certi che vada tutto bene.»

«Perché non dovrebbe andare bene? V'informo di tutti i miei progressi giornalmente.»

Era vero, sottostavo a un piccolo interrogatorio ogni giorno via email e passavo più tempo al telefono con loro che con Addy. Mi costringevo a pensare che fosse per attaccamento genitoriale nei confronti di un'unica figlia ma nel profondo di me stessa conoscevo la verità.

Arrivammo presto davanti all'edificio di scienze umane e mi fermai prima che potessero mettere piede all'interno.

«Vi prego, fidatevi di me, sta andando tuto bene. Non c'è bisogno di verificare parlando con i miei insegnanti. Siamo tanti in aula, se dovessero dare ascolto a ogni genitore che non si fida del proprio figlio non riuscirebbero mai a fare lezione.»

Mio padre aveva gli occhi socchiusi a causa del sole che riusciva a passare attraverso le nuvole bianche e mi colpiva le spalle ma le piccole rughe attorno agli occhi mi suggerivano che aveva una posa tirata.

«Ci fidiamo di te, Lily.»

«Ci nascondi qualcosa?» chiese però mia madre, facendo un passo avanti.

Sebbene fossimo ormai alte uguali, sentivo la sua presenza che incombeva su di me come quando ero una bambina.

«Non vi nascondo niente, mamma. Solo, i pochi amici che sono riuscita a farmi potrebbero ridere di me se i miei genitori irrompessero in aula per parlare con il professore come se stessimo al liceo e io avessi quattordici anni.»

Una bugia bianca, per salvarmi dall'incubo di farli entrare ancora più profondamente nel mio piccolo nido di sopravvivenza.

A quel punto mio padre sorrise. «Ho capito, hai paura che ti mettiamo in imbarazzo.»

Abbassai il capo, fingendo vergogna.

«Sentito, Anne, la nostra bambina è cresciuta troppo in fretta. È arrivata alla fase in cui si vergogna di noi.»

Cercai di non ribattere che mi vergognavo di loro da tanto tempo e lasciai che mia madre si avvicinasse per accarezzarmi la coda.

«Se è così, non entreremo in aula. Ma esigo continui aggiornamenti.»

Annuii sentendo il petto più leggero e mi sbilanciai per abbracciarli.

«Mi ha fatto molto piacere ricevere la vostra visita, salutate i signori Cavendish da parte mia.»

«A noi ha fatto piacere rivedere te» disse papà, stringendomi tra le sue braccia.

«Ah, Lily, i signori Cavendish...»

«Lily!»

Ogni fibra del mio corpo s'immobilizzò mentre i miei genitori lanciavano un'occhiata alle mie spalle. La prima cosa che vidi furono le loro sopracciglia incresparsi.

«Perché quel ragazzo ti sta chiamando?» chiese subito mia madre e vidi nei suoi occhi chiari il sentore di rabbia e cattive notizie. Deglutii a vuoto e girai appena la testa. I miei timori erano esatti. Gideon mi stava aspettando davanti all'entrata dell'edificio, un braccio alzato in aria e la schiena poggiata alla parete. Anche lui sembrava avere un'espressione assorta, come se lo sguardo dei miei avesse contagiato anche la sua faccia. Ero in una posizione perfetta, per chi ama trovarsi in mezzo a due fuochi.

«Chi è?» chiese allora mio padre, non mollando la presa sul ragazzo alle mie spalle.

Tornai con gli occhi su di loro e congiunsi le mani.

«È solo un compagno di corso, forse vuole dirmi qualcosa prima che cominci la lezione.»

«Deve essere urgente, perché si sta avvicinando» costatò mia madre e mi si gelò il sangue nelle vene. Osservai il mio orologio al polso e finsi che era tardi.

«La lezione sta cominciando, forse vuole avvisarmi di non fare tardi.»

Li abbracciai ancora e baciai le loro guance per defilarmi prima possibile. Appena mi girai, scoprii Gideon bloccarsi mentre camminava nella mia direzione. I suoi occhi erano fissi in quelli dei miei e mi ci volle molta calma e molto controllo per sorpassarlo facendo finta di nulla ed entrare, salutando per l'ultima volta i miei genitori con la mano.

Una volta al sicuro dentro le mura dell'edificio, attesi che Gideon tornasse indietro ed entrasse. Aspettai qualche minuto che mi parve non passare mai prima di vederlo spingere le doppie porte di vetro e guardarsi attorno. Lo raggiunsi con poche falcate e gli sorrisi.

«Ciao.»

«Mi hai appena ignorato di fronte ai tuoi genitori?»

Sapevo che non avrebbe ignorato l'argomento, così mi guardai attorno per prendere tempo. Non potevo negargli la verità, però mi sentivo sconfitta. Mi ero comportata come una vigliacca e una sciocca; chiunque, sia Gideon sia i miei genitori, mi avrebbe sgridato per questo.

«Non li conosci, avrebbero mandato all'aria tutta la mia giornata tra interrogatori e ramanzine. Dai, accompagnami a lezione.»

Questa sarebbe cominciata quindici minuti più tardi ma ormai ero lì, così mi lasciai accompagnare su per le scale.

«Che genere di ramanzina?»

«Mi avrebbero chiesto chi frequento, perché lo frequento, cosa ho intenzione di fare. Mi avrebbero ripetuto migliaia di volte che devo concentrarmi sullo studio e sulle opportunità della vita.»

«Ti avrebbero detto tutto questo solo averti visto parlare con me?»

Il suo tono stupito mi fece sentire ancora più sottoterra. Perché era la verità, lo avrebbero fatto. I loro occhi parlavano chiaro, Gideon aveva emanato il sentore di non essere un ragazzo adatto a me. Loro approvavano i figli dei loro colleghi, ragazzi già laureati o in procinto di entrare in un ambito lavorativo facoltoso. Loro amavano il cashmere, le scarpe lucide e il portafoglio pieno. Io mi ero sempre fatta suggestionare da tipi del genere, perché ero abituata ad averli attorno da tutta la vita. I miei genitori mi avevano inculcato nella testa di stare lontana da tipi come Gideon e proprio questo errore mi aveva portato a farmi precipitosamente incoraggiare dai pregiudizi su di lui. Anche con un'occhiata, anche con un solo sguardo superficiale, avevo capito che Gideon per loro doveva starmi lontano.

«Sì» sospirai infine. «Avrebbero detto tutto questo.»

«Così è per via dei tuoi genitori che stai lontana dai ragazzi?»

«Non da tutti i ragazzi» confessai, la voce ridotta in un sussurro.

A quel punto Gideon sembrò capire.

«Quindi è a loro che devo la tua rigidità nei miei confronti?»

Bloccai la mia andatura, colpita dalle sue parole.

«Di quale rigidità stai parlando?»

Gideon non sembrava turbato, arrabbiato o triste. La sua era una facciata scientifica, stava semplicemente esponendo dei fatti; questo mi fece ribollire il sangue nelle vene. Mi servivano le sue emozioni per capirlo e più lui si mostrava inespressivo più io mi sentivo distante. Tutto quello che volevo era stargli accanto ma lui non lo permetteva mai in maniera tanto stretta.

«A volte mi guardi ancora come se avessi paura di me» confessò e i suoi occhi grigi sembrarono trapassarmi la pelle. Li sentivo carezzarmi la faccia, non teneramente, ma con voracità. Solo i suoi occhi luminosi mi facevano capire che era umano e non un automa, che forse qualcosa lo provava.

«Non... Non è vero che ti guardo così. Non mi hai mai fatto paura.»

Forse disagio... Disagio sì.

A quel punto ridacchiò ma fu freddo e distaccato. Scoprii che non mi piaceva la derisione di una risata. Gideon già sorrideva e si divertiva poco, quando lo faceva per scherno era ancora più devastante.

«Perché ridi?»

«Perché hai appena mentito.»

«Non ho mentito. Non che debba essere divertente, ma sono sincera. Non mi hai mai messo paura.»

Gideon strizzò i fogli tra le sue mani e si concentrò sullo sfrigolio della carta.

«Qual è sempre stata la tua scusa per starmi alla larga?»

Pensavo che dopo tanto tempo avessimo superato la fase del rammaricarci sugli errori passati. Incrociai le braccia al petto per farmi più coraggio.

«La stessa che hai utilizzato tu all'inizio: i pregiudizi. Adesso però dovremmo aver superato quel periodo. Non è così?»

Alzò il mento e i suoi occhi si puntarono nei miei, negandomi il respiro.

«Dimmelo tu, è così?»

Scossi la testa e continuai a camminare. Dopo poco, Gideon m'imitò e mi raggiunse subito date le sue lunghe gambe.

«Dici così solo per via dei miei.»

«Mi sembra ovvio» ribatté a tono.

Non sapevo se stessimo litigando e se fosse per un motivo più profondo che la fugace occhiata che si erano scambiati, ma ero troppo occupata a far diminuire il battito nel mio cuore per pensarci più a fondo.

«Non li conosci.»

«No» ammise. «Ma conosco il genere, mi basta questo.»

Alzai le braccia al cielo, esasperata. Improvvisamente, le sue parole si erano fatte cariche di disprezzo e giudizio, quando invece credevo che dei due fosse quello più scarico di cattive abitudini.

«Sei come loro» replicai, alzando un po' il tono di voce. Poi me la schiarii e ripresi a parlare normalmente. «Ti basi su giudizi senza aver prima provato il prodotto personalmente. Vi criticate tanto a vicenda e alla fine siete tutti uguali.»
Qualcosa nelle mie parole lo fece arrabbiare, o forse infuriare, perché non mi aspettai quello che fece dopo. Mi strinse il polso in una morsa e mi fece girare verso di lui. Tanto fu l'impeto che andai a sbattere contro il suo petto e un gridolino venne attutito dalla sua maglietta.

«Non ti azzardare a paragonarmi ai tuoi genitori.»

Ero scioccata per il suo gesto ma piuttosto che soccombere alla sua rabbia, non feci che alimentarmene. Strattonai il braccio e lo fissai dritto negli occhi.

«E perché no? Che cosa succede altrimenti?»

«Lily» mi ammonì. Il suo tono non ammetteva repliche. Così replicai.

«Gideon.»

Ci fissammo per secondi che sembravamo bruciare l'aria tra di noi. Nessuno dei due aveva intenzione di cedere per primo ma sentivo le mie forze vacillare. Gideon sicuramente non era un ragazzo che si arrendeva facilmente mentre io non ero abituata alle sfide, specialmente se la persona con cui mi mettevo contro riusciva a farmi andare in pappa stomaco e ginocchia contemporaneamente.

Alla fine, fui io a cedere. Abbassai lo sguardo e feci un passo indietro. Gideon non restò al suo posto, mi diede le spalle e comminò nella direzione opposta. Sentivo gli occhi bruciare per l'intensità della nostra conversazione ma non volevo che finisse così. Gli andai subito dietro, cercando di fermarlo come aveva fatto lui. Inutile dire che non ci riuscii con le mie forze ma lui fu piuttosto abile a fermarsi e aspettare che mi mettessi davanti al suo petto.

Non mi diede il tempo di parlare che chiese, il suo tono quasi dispiaciuto: «Hai paura che terrorizzi i tuoi genitori?»

Doveva aver letto qualcosa nei miei occhi, forse era a causa della loro fragilità umidiccia, che gli fece rilassare le spalle e arricciare il naso. Scossi lentamente la testa mentre le mie mani andavano di propria volontà a posarsi sul suo petto. Quando alzai gli occhi nei suoi, sentii il cuore pompare tanto forte che credetti potesse cadermi fuori dal petto e posarsi ai nostri piedi.

«Ho paura che loro terrorizzino me, tanto da convincermi a starti lontano. E io non voglio.»

Vidi qualche volto familiare apprestarsi per entrare in aula, così lanciai un'occhiata distratta all'ora sul polso. Parlando parlando, si era fatto tempo di andare a lezione. Lo guardai con gli occhi pieni di speranza.

«Hai lezione oggi?»

«Ho il giorno libero. Hanno chiuso il cantiere per tre giorni e non vado a lezione.»

Guardai nella direzione dell'aula e mi assicurai che non chiudessero la porta, quindi mi allontanai un po' da lui.

«Mi passi a prendere dopo?»

Annuì mentre mi vedeva andare via. Come ultimo saluto alzai la mano e la scossi ma lui mi aveva già dato le spalle.

¤¤¤

Aspettavo trepidante il momento in cui Gideon avrebbe accostato al marciapiede e mi avrebbe aperto lo sportello del fuoristrada per portarmi con sé nel suo appartamento. L'ultima volta che c'ero stata mi ero miserabilmente addormentata ancora prima che potessimo stare un po' insieme e avevo intenzione di recuperare nel pomeriggio. Dopo aver mangiato con Dakota e Connor, ed essermi un poco sfogata con la mia coinquilina, decisi di avere coraggio e affrontare qualsiasi conseguenza mi si sarebbe posta nel momento in cui sarei rimasta sola con lui. Ero decisa ad affrontare una conversazione matura a testa alta, anche se non capivo bene su cosa dovessimo discutere. Nel corridoio avevamo parlato con toni duri e inaspettati, le nostre parole erano state più forti di quanto sarebbe stato necessario e io mi ero ritrovata con le spalle al muro. Non avevo mai alzato i toni con un ragazzo, non alzavo mai i toni in generale, ma Gideon riusciva a farmi andare in tilt tutto il sistema.

Mi feci calore sulle braccia sebbene non avessi i brividi di freddo. Ero agitata e in ansia per il suo imminente arrivo. Il fuoristrada parcheggiò davanti a me e mi diede la fiancata del passeggero. Aspettai inutilmente un paio di secondi prima di rendermi conto che non sarebbe sceso ad aiutarmi; quindi afferrai la maniglia e feci da sola. Dentro, Gideon aveva acceso l'aria calda e io mi crogiolai nel torpido alito che avvolgeva la mia pelle arrossata.

«Com'è andata la lezione?»

«Come sempre» risposi, felice che avesse subito avviato una conversazione tranquilla e naturale. «Devo finire dei saggi per la prossima settimana e prepararmi per gli esami di fine stagione.»

Era iniziato novembre e gli esami erano imminenti. L'idea mi elettrizzava e terrorizzava allo stesso tempo. Avevo l'assurda fobia di sentirmi una fallita, odiavo la sensazione di sconfitta e quindi facevo sempre tutto quello che era in mio potere per eccellere. La mamma era fiera di questo mio lato del carattere, lo teneva sospeso tra le braccia come un empio trofeo da mostrare ai vicini e ai colleghi in attesa che il mio futuro brillante confermasse ogni certezza. Ero accerchiata da occhi invisibili che osservavano ogni mio progresso e se avessi fatto un passo falso sarei stata perduta per sempre. Mi calava sulle spalle la responsabilità di un futuro già scelto al quale non potevo oppormi, e neppure lo volevo. Gli esami erano imminenti, sì, ma io studiavo assiduamente tutti i giorni per gran parte del pomeriggio e della sera. Non c'era questionario che non avessi consultato per esercitarmi, non c'era pagina di un testo d'esame che non avessi letto almeno tre volte e sottolineato, cerchiando i punti fondamentali con la matita e riscrivendo schemi. La mia parte di stanza era per lo più sommersa da quadernoni, fogli e post-it in vista di ogni tipo di facilitazione allo studio. Il mio era un metodo che durante il liceo mi aveva permesso di uscire con il massimo dei voti.

Arrivammo all'appartamento avvolti da un silenzio che a prima impressione non sembrava né tirato né imbarazzato ma solo quando scesi e lo vidi allontanarsi senza aspettarmi mi accorsi che c'erano parole tra di noi che ancora non erano state perdonate.

«Ho un esame anch'io questo lunedì» mi disse, mentre chiudeva la porta alle mie spalle. «Potremmo studiare insieme qui. Hai i tuoi libri?»

Annuii e mi tolsi la giacca, posandola educatamente su un panchino della zona cottura. Capii che Gideon non aveva intenzione di parlare dell'accaduto nel corridoio quando si tolse le scarpe di fretta e le buttò nella sua camera prima di prendere da lì un paio di libri e stendersi sul divano. Lentamente mi avvicinai alla poltroncina logora e mi ci sistemai come meglio potei. Dopo poche righe lette del nuovo capitolo, notai Gideon sistemarmi meglio una lampada da soggiorno dietro le spalle.

«È per la vista» disse, quasi volesse giustificare tanta premura.

Gli sorrisi rincuorata, cercando di smorzare un po' della tensione che si era accumulata sulle sue spalle. Tentai di cogliere qualche cenno che mi desse il permesso di avviare la conversazione ma gli occhi di Gideon non si staccavano dai suoi libri e dai suoi fogli, non emise un fiato e passò la maggior parte del tempo a tamburellare il retro della penna sulle sue ginocchia. Alla fine desistetti e mi dedicai ai nuovi capitoli, cercando di concentrarmi come meglio potevo. Ogni tanto venivo distratta da qualche suo rumore, si alzava e prendeva da bere per entrami, cambiava posizione sul divano, sistemava i fogli sulle sue gambe, mi chiedeva se avessi bisogno di qualcosa. Difficilmente riuscivo a studiare assieme ad altre persone, adoravo il fatto che Dakota non ci fosse quasi mai in camera mentre io mi dedicavo a scienza e politica per interi pomeriggi. In una stanza sola con Gideon al mio fianco, sebbene ci fosse più silenzio che respiri, riuscivo a concentrami la metà di quanto fossi brava e più mi distraevo più mi abbattevo, più ero delusa da me stessa. Gli occhi vagavano prima sulla pagina scritta d'inchiostro e poi più in alto, verso la testa piegata di Gideon. Ogni tanto gli osservavo le mani e ogni tanto le labbra che si stuzzicavano il piercing. Quando capivo di essermi incantata su di lui per troppo tempo, scuotevo la testa e mi mordevo l'interno della guancia, come punizione.

«Resti per cena?» chiese dopo un po' e io sobbalzai, non aspettandomi di sentire la sua voce. Delle penne caddero e questo lo fece sorridere un poco. Me le raccolse e aspettai che si ritirasse su prima di rispondere.

«Posso?»

«Te l'ho appena chiesto, quindi direi di sì.»

«In questo caso, molto volentieri.»

Si alzò in piedi e fece scricchiolare la schiena, alzando le braccia e piegando la testa al rumore delle sue ossa, feci una smorfia e mi tappai le orecchie, presa da un moto di orrore.

«Che c'è? Ti da fastidio quando scroccano le giunture?»

«Lo odio» sibilai, aprendo un occhio per vedere se aveva smesso.

Un attimo dopo mi fu davanti con le mani protese verso la mia faccia. Non capii cosa avesse intenzione di fare prima che chiudesse una mano a pugno sopra l'altra. Poi, uno per volta, le due dita cominciarono a piegarsi e fare rumori inquietanti. Strillai per l'orrore mentre una risata scuoteva il petto di Gideon. Quando finì, si rimise diritto e io lo fulminai con lo sguardo.

«Vado a fare la spesa, ho poco in frigo per preparare qualcosa di decente.»

Balzai in piedi, lasciando scivolare libri e fogli sulla poltrona.

«Ti accompagno.»

«Non ce n'è bisogno, c'è un supermarket aperto ventiquattro ore su ventiquattro a meno di un isolato da qui. Vado e torno prima che tu possa finire i capitoli che devi studiare.»

Mi chiesi come sapesse che non avevo ancora terminato ma decisi di prendere questa sua intuizione come una sensazione positiva; forse mi aveva capito abbastanza da sapere che se non finivo di studiare come mi ero programmata poi mi sarei sentita in dovere di rimediare in ogni momento possibile.

«Sei sicuro? Potrei aiutarti a portare le buste.»

«Per esperienza, mi trovo costretto a rifiutare questo tuo generoso gesto. Tu e le compere di cibo non andavate molto d'accordo l'ultima volta che ho controllato.»

Mi tornò alla memoria quella volta al supermercato, la mia prima spesa e l'imbustamento molto precario. Da come Gideon mi stava guardando, capii che era proprio a quello che si riferiva. Incrociai le braccia al petto.

«Puoi imbustare tutto tu se vuoi, ma faremo prima in due.»

«Preferisco che tu rimanga qui a studiare o a guardare un po' di televisione. Sarò ti ritorno davvero presto. Fai come fossi a casa tua.»

Mi lasciò per mettersi le scarpe e recuperare la giacca, quando fu di nuovo di ritorno, si avvicinò in fretta e mi lasciò un bacio umidiccio sulla fronte come quella volta nella mia camera buia quando avevo sperato che mi baciasse per la prima volta e lui si era tirato indietro.

Se ne andò prima che potessi protestare ancora e mi riaccasciai sul divano sbuffando come una bambina. Non avevo intenzione di sbattere i piedi a terra e fare i capricci ma avrei davvero preferito andare con lui piuttosto che rimanere chiusa in un appartamento sconosciuto, tutta sola. Ricominciai a studiare con l'intenzione di finire presto e poiché non avevo studiato per bene nelle ore precedenti, decisi di dare una letta da capo a tutti i capitoli. Finii prima del previsto e rimasi imbambolata a fissare il soggiorno per cinque minuti buoni. Non sapevo per che ora potesse essere di ritorno Gideon, mi aveva assicurato molto presto ma i tempi si stavano allungando più di quanto desiderassi. Misi tutto a posto e posai tutti i suoi figli sopra il tavolino, per ordinare. Mi aveva detto di fare come fosse casa mia ma non avevo una stanza dove rifugiarmi per stendermi sul letto e intrattenermi con qualche libro o un po' di musica. Il mio busto si girò quasi in automatico e individuai la porta che avrebbe dato nella sua stanza da letto. Era socchiusa, non troppo aperta per svelare i propri segreti alla discreta distanza in cui stavo e non troppo chiusa da precludermi il dolce sapore della curiosità. Intravedevo l'angolo di un letto fatto e la punta di un paio di scarpe da ginnastica. Le pareti sembravano scure ma poteva essere l'effetto della luce spenta. Volevo conoscere il colore delle pareti della sua camera, volevo sentire quanto fosse morbido il suo letto. Era ordinato o no? Aveva una scrivania? E libri su mensole come me? Nel soggiorno non c'erano molti libri se non dizionari e riviste di sport sparpagliati qua e là nei davanzali.

Capii di essermi avvicinata troppo quando la porta scricchiolò sotto la mia mano che la spingeva un poco. Non avevo intenzione di curiosare nella sua privacy... Solo dare un'occhiata. La porta finì con l'aprirsi completamente facendomi avere una visuale perfetta sul piccolo abitacolo quadrato. Il letto era dall'atra parte della parete davanti alla porta e accanto a me c'era un enorme armadio a cassettoni. Era piuttosto spoglia per essere una stanza, eccetto degli effetti personali sul comodino e sul cassettone non c'era nient'altro. Le lenzuola erano scure, non nere ma forse blu, in tinta con il colore delle tendine di una piccola finestra che dava sulla strada. Non avevo intenzione di fare un passo dentro e accusarmi da sola di aver infranto il suo luogo personale ma gli occhi erano avidi. Perlustrai ogni angolo alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse lui o che anche solo riuscisse a farmi capire un po' più chi fosse. Il comodino era troppo lontano così mi accontentai dei pochi oggetti sul cassettone. Un oggetto rettangolare saltò agli occhi e li strizzai per notare meglio cosa fosse. Aveva gli angoli scheggiati e il legno chiaro era un po' consumato. Una cornice. Piuttosto che essere posata verticalmente era supina e nascondeva la foto che credevo contenesse. Presa dalla mia solita voglia d'ordine allungai un braccio e la alzai, pensando che qualche possibile scossone l'avesse fatta cadere. La prima cosa che notai fu il vetro scheggiato e da un ritaglio squadrato usciva un angolo di carta plastificata. Lo afferrai tra due dita e venne fuori lentamente, lasciando cadere sul cassettone tutti i vetri che la cornice nascondeva. Si trattava di una foto la cui vista mi lasciò con il fiato sospeso. Doveva essere una famiglia quella ritratta ma le teste dei due genitori erano state annerite con un accendino fino a renderne irriconoscibili i volti. In ginocchio davanti ai due adulti c'erano due ragazzi, quello più alto abbracciava quello più piccolo e più sorridente. Entrambi erano biondi, entrambi sembravano felici e piccoli. Avvicinai la foto così tanto agli occhi che temetti di incrociarli tra di loro. Il più grande aveva un'aria tanto familiare che per un istante credetti potesse trattarsi di un parente, poi mi resi conto dei freddissimi occhi chiari e delle labbra grandi, delle sopracciglia dorate e aggrottate, nonché dell'aria vagamente superiore che lo permeava. Gideon. Quella doveva essere la sua famiglia. Mi terrorizzò il fatto che la cornice fosse rotta, la foto annerita e coperta. Quello che supposi potesse essere il fratello minore aveva gli stessi occhi chiari e la stessa capigliatura dorata. Gideon aveva ammesso di essersi tinto i capelli ma non aveva risposto sul perché l'avesse fatto. Nella foto era molto più giovane, praticamente un bambino, e non doveva avere più di quindici anni. Sapevo che era dell'Illinois e Todd mi aveva rivelato che era arrivato a Seattle molto giovane tanto da crescerlo lui stesso.

Il mio cuore non voleva cessare di battere all'impazzata. Mi formicolavano le dita dove avevo toccato la foto e il vetro rotto. La consapevolezza che Gideon tenesse nascosta una parte della sua vita mi cadde addosso in tutta la sua pesantezza e fu allora che mi resi conto che doveva esserci per forza un motivo per cui lui era com'era. Forse era successo qualcosa di tanto grande nella sua vita da spingerlo a trasferirsi dall'altra parte del paese, a rompere una cornice di famiglia e annerire i volti dei propri genitori. Ero terrorizzata e incuriosita, la voglia di scoprire quale verità si celasse dietro quei vetri rotti mi portò quasi alla follia per pochi secondi. Una cosa era certa, ormai ero dentro il gioco e non mi sarei arresa.

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