12. Annullare ogni dubbio
Fissavo il foglietto con insistenza, era accartocciato sul mio cuscino. Non riuscivo a prendere una decisione; presentarmi da lui sarebbe stato avventato ma era innegabilmente curiosa. Le parole che Todd mi aveva rivolto il giorno precedente continuavano a fluttuarmi per la testa. Alla fine decisi che avrei fatto tardi a lezione se non mi fossi mossa immediatamente, così infilai il biglietto nella tasca dei pantaloni e mi avviai. Se non l'avessi visto nemmeno a pranzo, avrei avuto la risposta a cosa fare.
Sarebbe stata una decisione folle, non mi era mai venuto in mente di agire in questo modo; presentarmi a casa di un ragazzo, solo per parlare o chiedere spiegazioni. Probabilmente Gideon continuava a evitarmi perché non voleva illudermi o forse perché si vergognava. L'idea di lui che arrossiva mi fece sia ridere sia tenerezza. Avrei tanto pagato per vederlo in difficoltà. Sembrava così sicuro di sé, così audace nella sua pelle. Mi sarebbe bastata metà della sua sicurezza per scalare la società con successo. Era il modo in cui camminava o si atteggiava; se prima lo avevo considerato idiota e pretenzioso, adesso mi pareva elegante e felino. Non era il tipo da abbassare gli occhi, o sorridere per un nonnulla. Non era il tipo dalle piccole bugie bianche, sbatteva in faccia la verità nuda e cruda, senza farsi problemi. Mi ricordavo ancora bene quando aveva detto di non credere in sé stesso e con le informazioni di cui disponevo mi sembrò un grande controsenso. Tutto ciò che faceva o diceva emanava sicurezza. Sembrava la persona più certa di sé di questo pianeta. Immaginai che tutti avevano le proprie debolezze, Gideon era solo bravo a nasconderle sotto strati d'indifferenza e audacia.
Con la mente rivolta a lui, non riuscii a concentrarmi bene sulle lezioni. Mi sembrava di impazzire; Gideon aveva manipolato la mia mente, una volta libera e pronta a imparare. Mi sentito a disagio, continuavo a tornare al bacio e poi al biglietto con l'indirizzo del suo appartamento. Mi aveva posseduto la ragione.
Arrivai alla sala mensa avvolta da un sottile strato d'inquietudine. Alzai gli occhi per scorgere le teste familiari dei miei amici e mentre mi rendevo conto che erano tutti seduti al solito tavolo, vidi una testa mora uscire verso i giardini con qualcosa in mano, forse una mela. Velocizzai il passo, come se potessi raggiungere il ragazzo che era appena uscito e mi bloccai quando Dakota mi chiamò. Dovetti reprimere l'impulso di lanciare il vassoio e correre dietro di lui.
«Era Gideon?» chiesi, appena mi misi a sedere accanto a loro.
Connor e la sua ragazza si scambiarono un'occhiata, poi lui abbassò lo sguardo.
«Aveva un impegno.»
«Sì, certo» borbottai, amareggiata.
Avevo appena capito cosa fare, così afferrai il biglietto dalla tasca e lo stritolai nel pugno. Tutto il mio corpo era avvolto dalla frustrazione. Improvvisamente mi ritrovai catapultata dentro sensazioni che non avevo mai avuto modo di sentire. Rabbia, frustrazione, batticuore, agitazione. Gideon era riuscito a farle nascere in me prima che me ne accorgessi. Forse aveva uno strano potere. Di sicuro, presto lo avrei scoperto.
¤¤¤
Avevo visitato il quartiere di Capitol Hill in passato, mi era sempre sembrato accogliente e familiare. Il tipico distretto dove le famiglie si stabiliscono per crescere i propri figli. In più, era il più vicino all'università.
In assenza del GPS sul telefono e di uno nella macchina, dovetti orientarmi con una mappa della città che si vendeva solamente nei negozi turistici. Mi sentivo impacciata a guardare prima la strada e subito dopo il sedile del passeggero, dove la mappa era bella stesa e Capitolo Hill era cerchiata di rosso. Seppi che stavo girando a vuoto quando vidi per la terza volta lo stesso fast food, così decisi di parcheggiare e continuare a piedi. Con la mia coda alta, l'aria stravolta e un mappa color arancio stesa tra le mie braccia mi sentivo un'emerita idiota. Quella era la mia città e non avevo idea di dove andare. Cercai più volte con gli occhi la strada indicata da Todd ma non riuscivo a trovare nulla con lo stesso nome. Alla fine chiesi ai passanti e più di uno mi diede informazioni contrastanti.
A quel passo, avrei vagato per tutto il pomeriggio.
Camminai per altri dieci minuti prima di finire in un sobborgo piuttosto angusto il quale portava a una piazza pulita e gremita di gente. Da lì, si diradavano quattro vie minori. Le lessi tutte e l'ultima risultò oro ai miei occhi. Era la stessa scritta sul foglietto. Ero amareggiata perché vie tanto piccole non erano scritte sulla mappa ma la accartocciai nella borsa e la dimenticai. M'immisi nella via piena di entusiasmo ma più mi avvicinavo al civico, più sento il cuore martellare nelle orecchie. Se mi avesse aperto, cosa gli avrei detto? Perché ero lì? Con quale coraggio mi ero presentata?
Alla fine ce l'avevo fatta ad arrivare, ma il proseguimento sembrava una sfida molto più ardua. Mi fermai davanti al numero giusto. Era una residenza a più piani alla quale si accedeva da un viale acciottolato. C'era un piccolo cortile condominiale. Spinsi piano il cancelletto azzurro, che emise un vagito inquietante. Percorsi il viale con la sensazione di venir osservata dai gargoyle eretti sul tetto. Stavo camminando verso il patibolo, la testa bassa e gli occhi vagamenti annebbiati dall'insicurezza.
Arrivai davanti al portone e una sabba di bottoncini bianchi mi diede il benvenuto. Improvvisamente mi sentii una stupida, di quelle rarissime, che non ne combinano mai una giusta. Mi tornò alla memoria che Gideon lavorava quattro giorni su sette e quel giorno non era libero. In più, non conoscevo il suo cognome. Mi sentivo un'idiota come non lo ero mai stata. Mi accasciai sull'infisso freddo e chiusi gli occhi, cercando di ripetere a memoria la scala cromatica. Non riuscii a calmarmi come sempre, ma persi un po' di tempo ritrovando il giusto equilibrio per non andare nel panico. Scrissi in fretta a Dakota per conoscere il cognome di Gideon e lei non fece domande quando mi inviò la risposta.
Smith.
Probabilmente era fuori, ricordai che mi aveva detto lavorasse in un cantiere. Non potevo immaginare cosa volesse dire lavorare, studiare e vivere da solo all'età di soli ventun anni senza una famiglia vicina cui appoggiarsi.
Il portone cigolò e io dovetti spostarmi per far passare chiunque volesse uscire. Gideon mi vide prima che io vedessi lui.
«Lily!»
Sobbalzai e alzai gli occhi su di lui. vederlo dopo quei occhi giorni che ci avevano divisi fu come una secchiata di acqua gelida dritta in faccia. Il rumore del mio cuore attutiva ogni altro intorno a me. Non so cosa mi aspettassi, forse che era cambiato. Ma ovviamente non lo era. il piercing era sempre lì, argenteo come i suoi occhi. Labbra carnose. Sopracciglia dorate. Mi guardava con un cipiglio sul volto.
«Che cosa ci fai tu qui?»
Accostò il portone alle sue spalle e mi costrinse a fare dei passi indietro, mentre lui veniva avanti. In mano aveva due grandi buste nere che pensai fossero della spazzatura.
«Ehm... ciao.»
Il suo sopracciglio si alzò. «Ciao.»
L'ultima volta che ci eravamo parlati era stata subito dopo aver staccato le nostre labbra. Vedermelo davanti fu come ricordare quella sensazione. Ricordare il sapore del cioccolato e l'odore che emanava il suo collo. Alzai impacciata il biglietto che mi aveva dato Todd e lo misi sotto il suo naso.
«Non ti ho visto questi giorni durante il pranzo e non sapevo dove trovarti.»
Gideon posò una busta a terra e prese il foglietto, analizzandolo con uno sguardo irritato.
«Todd ti ha dato il mio indirizzo?»
Annuii casta, sentendomi inadeguata oltre il dovuto. Avercelo davanti mi stava mandando in tilt tutti i nervi. Mi porse il foglietto scarabocchiato e afferrò la busta da terra.
«Perché sei andata da lui?»
Si aspettava che lo seguissi mentre camminava verso i grandi secchioni alla fine del viale e così feci, standogli dietro.
«Te l'ho detto, non sapevo dove cercarti.»
Aspettai che buttasse le buste e si girasse verso di me prima di prendere un grande respiro. Era tempo di farsi coraggio.
Gideon rimase fermo davanti a me, il suo sguardo mi mandava scintille su tutte le braccia e il petto. Mi sarei dovuta aspettare una reazione brusca, la mascella contratta e gli occhi stretti mi suggerivano che non era felice di vedermi. Probabilmente perché gli avevo messo i bastoni tra le ruote, se aveva intenzione di evitarmi, non stava facendo un buon lavoro a causa della mia improvvisata.
«Beh, perché volevi trovarmi?»
Lanciai uno sguardo alle mie spalle, verso il condominio. Non sapevo se volevo che m'invitasse a entrare a casa sua oppure se sperare che non lo facesse, rispettando un'etichetta antica che mi piaceva tanto. Con Gideon, mettevo sempre in dubbio qualcosa.
«Volevo parlarti» dissi infine, cercando di non far tremare la voce.
Le sue braccia incrociate al petto mi mettevano ancora più a disagio; una volta avevo letto su un giornale che quando ci si mette in quella posa vuol dire che non si ha voglia di parlare. Non ero arrivata fin lì per vedermi sbattere in faccia un muro invalicabile. Se volevo parlare, l'avrei fatto parlare. Però allo stesso tempo speravo la tensione si sciogliesse; speravo che lui si sciogliesse. Senza che potessi aggiungere qualcosa per convincerlo a non mandarmi via, mi fece un cenno con la testa e mi ritrovai a seguirlo un'altra volta. Pensai che mi stesse conducendo dentro il codominio, nel suo appartamento, e il mio cuore si strinse in una morsa sconosciuta. Ma Gideon si fermò sul grandino del portone e si lasciò cadere con leggerezza, fino a distendere le gambe sul piccolo pezzetto di prato tra questo e il viale. Dubbiosa, mi abbassai anch'io e strinsi le ginocchia al petto, trattenendole con le braccia.
«Di cosa vuoi parlare?»
I suoi occhi fissavano la fine del viale, come se non vedesse l'ora che sparissi dalla circolazione. Con un po' d'incoraggiamento, presi fiato.
«Mi stai evitando, di nuovo.»
«No, non è vero.»
«Ah no?»
«No. Credimi, non avrei problemi a dirti che è così. Perché lo pensi?»
Mi strinsi nella giacca rossa e mi resi conto che lui era uscito per buttare la spazzatura ed era rimasto solo con la maglietta a maniche lunghe. Doveva avere freddo.
«Non ti vedo da giorni» risposi con la voce bassa, timorosa di dire la cosa sbagliata.
«Io non vedo te da altrettanto tempo» ribatté. «Potrei dire che sei tu a evitare me.»
Lo avevo evitato i primi giorni della settimana, questo era vero, ma pensavo Dakota gli avesse detto che ero dai miei. Poteva sembrava un'assenza giustificata. Scossi la testa, rendendomi conto che aveva ragione.
«Quindi non mi stavi evitando.»
«No.»
«Bene.»
«Bene? Ti darebbe fastidio se ti evitassi?»
La tensione si era sciolta, non sembrava poi così arrabbiato che mi trovassi lì. Quando alzai gli occhi su di lui, notai una scintilla d'irriverenza nel suo sguardo.
«Certo. Perché non dovrebbe?»
«La domanda giusta è: perché dovrebbe?»
La mia fronte si aggrottò e mi ritrovai a fare i conti con la sua espressione indecifrabile, quella dove ogni lineamento è naturale e non lascia spazio alla possibile interpretazione delle sue emozioni. Sembrava una statua greca, con il naso lungo, il mento sporgente, le labbra carnose. Persino gli occhi così chiari sembravano fatti di marmo.
«Non credo esista qualcuno al mondo che è contento di essere evitato.»
Stavo per chiedergli se a lui piacesse ma pensai fosse stupido, così tenni la bocca chiusa.
«Forse hai ragione» ammise, inclinando un po' la testa. «Sei venuta solo per dirmi questo?»
«In realtà no.»
Non sapevo trovare le parole giuste per introdurre la questione del bacio. L'imbarazzo mi montava nel petto lasciandomi senza fiato.
«Ecco, si tratta di quello che è successo l'altro giorno.»
«Parli del bacio?»
Mi guardò e restituii lo sguardo. Vide qualcosa nei miei occhi che lo fece annuire piano, come se mi stesse dando il permesso. Prima di introdurre il discorso, mi accesi come una lampadina.
«Aspetta, ma tu non devi lavorare oggi?»
«Attacco tra un'ora. Possiamo parlare un po', se vuoi.»
Felice che avessimo tempo e che non mi volesse cacciare, emisi un sospiro di sollievo. Il cemento era scomodo sotto il mio sedere ma dovevo sforzarmi per raggiungere i miei scopi. Strizzai forte gli occhi e organizzai mentalmente una lista di questioni da sottoporre. Appena li alzai su di lui, però, la lista sfumò e si frantumò, mandandomi in confusione.
«Non voglio farne una questione di stato, davvero, però preferirei capire meglio.»
«Capire cosa?» domandò, con gli occhi fissi nei miei. Dovetti fare un grande sforzo per non distogliere lo sguardo.
«Perché hai detto che avrei fatto meglio a non baciarti. È una cosa strana da dire.»
«Ho solo cercato di avvertirti. Che cosa pensi che significasse?»
Le parole di Todd cominciarono a vibrare nelle mie orecchie. Non crearti aspettative. Gideon non è il tipo da promesse.
«Non ho aspettative» dissi d'impulso e l'intensità fu tanta che abbassai gli occhi sul prato. «Non mi aspetto che io ti piaccia dopo solo un bacio o qualche giorno passato insieme. Anche se non ho mai avuto un ragazzo, so come vanno queste cose, o comunque lo posso intuire. So che non ti piaccio.»
«Ti sbagli» disse, la voce ferma e dura, un po' roca. «Non è vero che non mi piaci. Altrimenti non avrei avuto voglia di baciarti o uscire con te. Ricordi quello che abbiamo pensato l'uno dell'altra prima di iniziare...?»
Lasciò la frase in sospeso e agitò un po' le mani. Avevo capito a cosa si riferisse, parlava dei nostri primi incontri, dei pregiudizi e le pessime opinioni. Annuii convinta.
«Ci siamo sbagliati, ovviamente. Ma passare dall'errore al piacere è un grande passo. Non sono convinto di saper saltare.»
La sua confessione mi colpì forte, come se avesse condiviso un segreto inestimabile.
Non si è mai trovato in situazioni sentimentali.
Sei la prima a essere ricambiata.
Se le parole del suo amico erano vere, io piacevo a Gideon e lui non sapeva come comportarsi. La situazione mi divertiva e inteneriva, in qualche modo eravamo sulla stessa barca. Aveva tanto scherzato sulla mia inesperienza ma a quanto pareva anche lui era nella stessa situazione. Forse non aveva mai avuto una ragazza. Forse era il suo primo bacio anche per lui. Quest'idea venne subito eclissata. Non mi aveva baciato come se fosse inesperto, tutto il contrario. Era stato accurato, come se conoscesse i movimenti a memoria, sapeva come aiutarmi quando non capivo cosa dovessi fare. No, non era il suo primo bacio. Ma se io ero davvero la prima ragazza a interessargli? La consapevolezza mi fece arroventare le guance di piacere, per la prima volta. Sentivo caldo alle mani e alla bocca dello stomaco, come quando ingerivo la cioccolata calda.
«Non mi è mai piaciuto un ragazzo» confessai, sperando di poterlo mettere a suo agio in questa nostra nuova "condizione". «Però mi trovo bene con te. Non so il perché.»
Non aveva mai staccato gli occhi da me ma lo fece quando un brivido gli colpì il collo e la schiena.
«Senti freddo?» chiesi subito, vedendolo alzare le spalle e socchiudere gli occhi. Venni colpita dal piacere nel vederlo in quello stato. Pensai che si svegliasse così, la mattina, dopo una lunga notte di sonno profondo. Scosse un po' il capo e delle ciocche nere gli svolazzarono sulla fronte.
«Sono sceso senza niente addosso.»
«Vuoi la mia giacca?»
«Non potrei mai togliere la giacca a una donna.»
Vidi l'accenno di un sorriso che represse un attimo dopo.
«Io mi sono riscaldata abbastanza, te la cedo volentieri.»
Era rimasto a parlare con me, era il minimo che potessi fare. Stavo già abbassando la cerniera quando le sue mani finirono sui miei polsi, bloccandoli.
«Sto bene. Non toglierti la giacca per me.»
«Va bene.»
La rimisi apposto e strinsi le labbra, a disagio. Non sapevo se eravamo arrivati al capo di qualche conclusione o se avessimo ancora parole in sospeso di cui discutere.
«Ti sei tinto i capelli, vero?»
Gideon non sussultò, sorprenderlo era praticamente impossibile.
«Te ne sei accorta dalle sopracciglia?»
Annuii veloce, d'un tratto imbarazzata per aver palesato di averlo osservato parecchio, e con attenzione. Ma sì, lo avevo immaginato dalle sopracciglia.
Gideon intrecciò le mani e si strinse nelle spalle, come a trattenere del calore.
«Quando ho cambiato colore ho pensato di tingere anche le sopracciglia. Poi me ne sono dimenticato e alla fine non m'importa se si vede.»
«Perché hai cambiato colore?»
Sopra di noi il cielo aveva lo stesso colore dei suoi occhi. Le sue ciglia a mezzaluna dorate sbattevano lentamente.
Aspettò molto per darmi una risposta, così intervenni dicendo: «Non dirmi che hai perso un'altra scommessa.»
Il piercing al labbro si tirò quando sorrise. Mi piaceva quando sorrideva. Sentivo una strana potenza al centro dell'addome, perché gli avevo scatenato io quella reazione.
«Stai imparando cos'è l'umorismo per caso?»
«Piccoli passi.»
Si sfregò le braccia e l'orlo della maglietta salì un po' sul polso, ricordandomi che la sua pelle era tatuata. Con un cenno del capo, indicai le sue braccia.
«E quelli?»
Gideon seguì i miei occhi e si guardò il polso.
«Parli dei tatuaggi?»
«Sì.»
Se li guardò un altro po' prima di alzare un'intera manica e stendere il braccio davanti a me.
«Mi danno l'aria da duro, non è così?»
Annuii distrattamente, sentendomi coinvolta in uno scherzo permanente.
«Sono per difendermi.»
Sbarrai gli occhi e feci finta di analizzarlo. Non sembrava il tipo da doversi difendere.
«Difenderti?» ripetei, incredula.
«Certo» rispose lui, tirandosi giù la manica. «Non mi piace la violenza ma il mondo e le persone sono imprevedibili e a volte bisogna farsi scudo. Sono la mia copertura, assieme a un corso di autodifesa.»
Non riuscii a trattenermi e scoppiai in una risata imbarazzante. Strizzai gli occhi e mi accasciai sullo stipite dell'arco nel quale era incastrato il portone. Mi ressi al marmo e allungai le gambe sul prato, per quanto il mio corpo era scosso dalle risa.
«Perché ti fa tanto ridere?» riuscii a sentirlo chiedere.
Cercai di calmarmi scuotendo la testa e respirando a fondo. «Nulla, è solo che un tipo come te...»
Lasciai la frase in sospeso, non gli sarebbe piaciuto il continuo perché era qualcosa che avrei detto quando il mio scambio d'interazioni sociali si basava sui pregiudizi. Però Gideon sorrise ancora, annullando ogni mio dubbio.
«Certo. Un tipo come me, alto, con i tatuaggi e lo sguardo incazzato deve amare la violenza. Altrimenti non sarei uno stereotipo perfetto, giusto?»
Mi lasciai trasportare dall'ironia del momento e continuai a ridacchiare.
«Scusa» mormorai quindi, sperando che non si fosse arrabbiato per il mio sfogo. «Mi piace che non ti piaccia la violenza.»
Lui mi guardò, stringendosi ancora nelle spalle.
«E a me piace che a te piaccia che non mi piace la violenza.»
Risi più profondamente, e le sue labbra si stesero ancora di più. Non avevo mai scherzato tanto con un ragazzo e sapevo di star esagerando. Mason era un tipo più imbranato e divertente, eppure mi aveva sempre fatta ridere la metà di come stava facendo Gideon. E lui non sembrava nemmeno sforzarsi. Però, da come sorrideva, forse trovava piacevole che riuscisse a farmi ridere.
Se mi fossi presentata alla me del passato, le avrei detto di non pensare tutte quelle cose brutte su di lui, le avrei detto che era una gran bella testa vuota. È vero, non conoscevo ancora bene Gideon, ma ero sicura di volermi basare solamente sulla verità da quel momento in poi. Volevo continuare a ridere con lui, a scambiare battute e conoscerci meglio. In più, era l'unico con cui riuscissi a fare tutto questo e se non coglievo l'opportunità al balzo, sarei rimasta sola e senza amore per tutta la mia vita.
«Devo andare» disse e spezzò la magia.
Si alzò e quando guardò giù aspettai che mi aiutasse, invece non mosse un dito. Così mi aggrappai al muro e mi alzai.
«Vai al cantiere?»
Annuì, guardandosi attorno. Feci qualche passo indietro, capendo di dover congedarmi.
«Allora ci vediamo al campus.»
Lui alzò una mano e si avvicinò al portone.
«Non mi eviterai quindi?» borbottai ad alta voce, sperando che mi sentisse. Lui girò a malapena la testa e disse: «Solo se tu non eviterai me.»
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