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1. Asso


«Fuori di qui, topo di fogna! E non farti rivedere mai più, se non vuoi finire con entrambe le mani mozzate e una pallottola in testa!»

Akaza rotolò per diversi metri contro il terreno fangoso e maleodorante del retro della taverna in cui era riuscito ad intrufolarsi solo pochi minuti prima, andando a sbattere senza alcuna grazia contro i bidoni pieni fino all'orlo di scarti di cibo marcio. La ghiaia su cui era stato costretto a scivolare gli graffiò la pelle, creando ulteriori squarci e macchie di sangue fresco in quei pochi vestiti vecchi e logori che indossava ormai da tempo immemore. La spazzatura gli si rovesciò addosso, ricoprendolo quasi per intero e avvolgendolo in una impalpabile quanto irrespirabile zaffata di putridume.

A fatica e con il corpo dolorante per i graffi e i colpi di bastone presi per essere stato sorpreso a rubare – oltre che sporco e puzzolente come una fogna a cielo aperto –, il giovane ragazzo si mise a sedere e guardò in cagnesco il proprietario della locanda mentre si ripuliva le mani con il grembiule ingiallito che teneva attorno ai fianchi. Lo seguì con lo sguardo finché non vide l'uomo che lo aveva sbattuto fuori dal locale a calci in culo richiudersi la porta di legno alle spalle, poi si tirò all'impiedi e sputò con disprezzo verso la sua direzione.

«Fanculo, vecchio stronzo.» Digrignò a denti stretti, cercando di scollarsi di dosso le bucce di patata che gli si erano appiccicate ovunque.

Infilò una mano nella tasca che aveva rattoppato alla bell'è meglio proprio per quell'occasione e tirò fuori il tozzo di pane che era riuscito a sgraffignare dal tavolo di uno dei clienti. Era stato facile far passare la mano sotto al braccio di quell'uomo troppo sbronzo per accorgersi della sua presenza. Peccato che il proprietario si fosse accorto di lui, eccome, e gli avesse rovinato i piani inseguendolo e colpendolo con la scopa. Avrebbe dovuto provare a rubare una coscia di maiale o, ancora meglio, qualche sacchettino di pelle carico di monete d'oro, ma aveva iniziato da poco ed era ancora nuovo del mestiere.

Fece schioccare la lingua contro il palato e rimise il pezzo di pane in tasca, sentendo la frustrazione pervaderlo da capo a piedi. Quel misero tozzo non sarebbe bastato nemmeno per arrivare fino a cena e sapeva già che suo fratello Hakuji lo avrebbe rimproverato e strigliato per bene, vedendolo tornare indietro conciato in quel modo senza avere nulla di sostanzioso tra le mani.

Si incamminò con il viso basso e cupo, guardandosi le punte dei piedi nudi e ignorando la gente che lo scansava come se avesse la peste. Raggiunse velocemente lo stretto vicolo cieco in cui lui e Hakuji avevano creato un rifugio di fortuna e scivolò oltre le pesanti coperte logore che facevano da tendaggio, trovando suo fratello intento a scuoiare quello che aveva tutta l'aria di essere un grosso ratto.

«Io quello non lo mangio. Non voglio morire prima dei miei giorni per chissà quale malattia.» Disse, attirando così l'attenzione del gemello.

«Cazzo, Akaza! Cos'hai combinato?» Chiese Hakuji, mollando l'animale morto sul legno della cassa mangiato dalle termiti che usavano come tavolino per avvicinarsi ad Akaza e afferrargli il mento con le dita sporche di sangue.

Il ragazzo non aveva avuto modo di vedere in che stato versasse il suo viso, ma immaginava che fosse gonfio e tumefatto per le botte che aveva preso. Lo sentiva pulsare dolorosamente ad ogni battito del proprio cuore, ma ingoiava magistralmente i gemiti che rischiavano di risalirgli su per la gola. Non gli piaceva apparire debole.

«Sono andato a lavorare. Questo è quello che sono riuscito a portare.» Rispose con noncuranza, tirando fuori dalla tasca il tozzo un po' raffermo per mostrarlo come fosse il più grande e prezioso dei trofei.

«Morirai per mano di qualcuno o per via di un'infezione, se continui così. Non è questo ciò che ti ho insegnato; e se avessi saputo che sarebbe andata a finire così ogni singola volta, avrei fatto meglio a tenerti fuori da tutto questo.»

Nel sentirlo parlare in quel modo, Akaza allontanò malamente la mano sporca di Hakuji. Non era la prima volta che lo rimproverava o che gli riversava contro quelle parole, ormai ci aveva fatto l'abitudine, ma faceva male allo stesso identico modo.

«Scusa tanto se non sono bravo come te, ma ti ricordo che anche tu sei stato preso e picchiato diverse volte, prima di diventare ciò che vanti di essere. E poi io, a differenza tua, non ho ancora rischiato di perdere le mani perché la mia ambizione è così alta da provare a derubare qualche riccone.» Urlò, indicando con la mano le tre linee nere impresse su entrambi gli avambracci di Hakuji.

Non era vero che non aveva mai corso il rischio di ritrovarsi con una mano mozzata, ma preso com'era dalla rabbia e dalla frustrazione, non poté fare a meno di sfogarsi contro il suo gemello, sputandogli addosso le prime cattiverie che gli passavano per la testa. Vivevano quell'orribile vita ormai da troppo tempo ed era stanco di essere trattato come l'ultimo degli scarti della società. Per un breve periodo della loro infanzia, lui e Hakuji avevano vissuto tra le mura di una piccola seppur accogliente casa. Il loro caro padre aveva sempre cercato di non fargli mancare nulla, anche se la gente tendeva ad evitarlo e ad escluderlo da ogni attività lavorativa perché correva voce che la loro famiglia fosse stata maledetta dal diavolo – Akaza non aveva mai capito perché quelle dicerie avessero preso piede per tutto il paese, ma crescendo aveva compreso che il problema fossero i suoi insoliti capelli rosa e i canini appuntiti che sia lui che Hakuji si erano ritrovati ad avere in bocca sin dalla nascita.

Seppur con fatica, erano riusciti ad andare avanti e vivere quasi dignitosamente per diversi anni. Questo finché loro padre non si ammalò gravemente e Hakuji decise di prendersi carico di tutto, iniziando a rubare per poter mantenere le spese sempre più gravose di casa e cure mediche.

«Lo sai che ho fatto tutto quello che ho fatto solo perché ci servivano i soldi per le medicine di papà.» Disse Hakuji, cominciando a sua volta ad alterarsi.

«E a cosa ci ha portato? Papà è morto lo stesso e noi viviamo in questa merda ormai da quattro anni!»

«Cosa posso farci, io? Non è colpa mia se siamo finiti così!» Urlò il ragazzo dai capelli neri e gli occhi azzurri come il cielo, allargando le braccia per indicare il giaciglio fatto di indumenti logori e giornali strappati.

«Invece sì! Avresti potuto fare di più! Avresti dovuto mantenere in vita papà!»

Lo schiocco dello schiaffo che colpì la guancia di Akaza riecheggiò per alcuni secondi, come cristallizzato nel lasso di tempo che servì al ragazzo dai capelli rosa per capire che suo fratello lo aveva picchiato per la prima volta in quattordici anni di vita. Sgranò gli occhi ambrati e portò una mano contro la parte lesa, sentendola fare male più di tutti i tagli e le contusioni che gli decoravano il volto.

«Vattene. Schiarisciti le idee e ritorna solo dopo aver capito la gravità delle cose per cui mi stai ingiustamente accusando.» Disse Hakuji con tono piatto, visibilmente ferito dal comportamento del gemello.

Akaza strinse le labbra in una linea sottile e non proferì più alcuna parola, mentre lasciava il loro rifugio con passo pesante. Incapace di mantenere la calma e con la rabbia che continuava a ribollirgli nelle vene, iniziò a correre per le strade senza una meta precisa. Aveva solo bisogno di smaltire tutti quei sentimenti che continuavano a martellargli dentro con forza, smaniosi di riversarsi fuori dal suo corpo sottoforma di grosse e pesanti gocce salate. Ingoiò il nodo che gli si era formato in gola e corse fino a perdere il fiato. Non piangeva da anni – non l'aveva fatto nemmeno il giorno in cui aveva trovato suo padre privo di vita, ricoperto dalle mosche – e non sarebbe stata la frustrazione o uno schiaffo dato a fin di bene a farlo cedere.

Sapeva di dovere molto al suo gemello, così come sapeva di aver esagerato nel dirgli quelle cose. Hakuji era sempre stato al suo fianco e si era preso cura di lui proprio come un fratello maggiore, anche se era nato solo pochi minuti prima. Se non fosse stato per lui, sarebbero crepati di fame o di freddo già dopo la morte del loro amato padre. E forse era proprio quel pensiero a farlo irritare maggiormente, in qualche modo: il fatto che Hakuji fosse perennemente un passo avanti rispetto a lui. Quando aveva pensato di fare qualcosa per comprare le medicine necessarie a curare la malattia che aveva colpito loro padre, suo fratello aveva iniziato a rubare. Quando si erano ritrovati da soli, senza una casa e nessuno disposto ad aiutarli, Hakuji si era rimboccato le maniche e aveva messo su quel rifugio prima che lui potesse anche solo provare a cercare un cunicolo della fognatura dentro cui ripararsi dalla pioggia. Non gli piaceva dipendere dagli altri, ancor meno essere superato e lasciato indietro da chi era così simile a lui, nonché sangue del suo sangue.

«Merda. Fanculo. Fanculo, fanculo, fanculo.»

Akaza aveva rallentato la sua corsa fino ad assumere una camminata dall'andamento un po' incerto. Aveva i piedi spaccati e doloranti e il fiato corto, ma quella corsa non aveva sortito alcun effetto sul suo umore. Anzi, la frustrazione era aumentata e l'unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento, per sfogare la propria rabbia, era prendere a pugni qualcuno. Negli anni aveva scoperto di essere piuttosto bravo nel farlo.

«Ehi, ragazzino! Che muso lungo. Brutta giornata?»

Una voce – seguita da una fragorosa risata – raggiunse improvvisamente le orecchie di Akaza. Si girò appena per vedere chi gli avesse rivolto quella domanda stupida e infelice e fulminò con lo sguardo l'uomo che se ne stava seduto al tavolo esterno di una locanda, il piatto pieno di cibo davanti al naso e un boccale ricolmo di birra in una mano. La voglia di picchiare qualcuno tornò a farsi persistente, ma si accorse di essere in uno dei quartieri residenziali più controllati della città: se avesse anche solo provato ad alzare un dito contro quell'uomo, si sarebbe ritrovato con i ferri ai polsi in un battito di ciglia. Così decise di ignorarlo e di continuare a camminare.

«Non sai che è maleducazione ignorare chi ti sta parlando? E io che volevo proporti un affare.» Continuò ancora quello strano uomo dalle nere sopracciglia folte e la barba incolta, mentre masticava un grosso pezzo di carne.

Lo stomaco di Akaza brontolò sonoramente, ma fece finta di nulla. A casa c'era il grosso ratto ad aspettarlo – sempre se Hakuji lo avesse perdonato per ciò che gli aveva detto e gli avrebbe permesso di cenare insieme.

«Non mi interessa cos'hai da offrirmi.» Disse con tono fermo, tentando di ignorare la fame che continuava ad attorcigliargli le viscere ogni volta che vedeva l'altro infilare un pezzo di cibo in bocca.

«Sicuro? Nemmeno se ti dicessi che con la mia offerta potresti diventare ricco abbastanza da permetterti un pasto lussuoso ogni giorno e dei vestiti decenti tutte le volte che vuoi?» Intimò ancora l'uomo, indicando Akaza con un cenno del capo e facendo riferimento ai vestiti logori e puzzolenti che indossava in quel momento.

Il ragazzo non rispose, ma rivolse tutta la propria attenzione verso l'uomo, attratto dall'idea di aver finalmente trovato la soluzione ai suoi problemi e a quelli di suo fratello. Tuttavia, rimase vigile e guardingo. Anche se le premesse sembravano allettanti, poteva comunque trattarsi di una qualche truffa. Non era così stupido.

«Perché dovrei fidarmi di quello che dici?» Chiese, avvicinandosi lentamente alla sedia che l'altro aveva spostato per invitarlo a sedersi con lui.

L'uomo sorrise mettendo in mostra una sfilza di denti d'oro e si pulì le mani con il tovagliolo, prima di farne sparire una al di sotto della lunga giacca. Quando la estrasse di nuovo, tra le dita teneva una grossa medaglia dorata che Akaza riconobbe anche se ne aveva solo sentito parlare dalle storie che gli raccontava Hakuji ogni volta che gli capitava di incontrare per sbaglio uno di quei leggendari marinai: quell'uomo era senza ombra di dubbio un asso del grande equipaggio di capitan Kibutsuji, uno di quelli che navigava a bordo delle più famose navi di tutti i tempi conosciute come le "Dodici Lune". Nessuno sapeva cosa facessero su quei vascelli, ma tutti erano a conoscenza del fatto che quella di capitan Kibutsuji fosse la flotta più numerosa e ricca dell'intero oceano.

«Allora, ragazzo, che ne diresti di diventare mozzo a bordo della "Terza Luna Crescente"?»

• • •

«Capitano! Ne abbiamo avvistata una!»

Akaza sorrise sornione, mentre si affacciava dalla scala di poppa per vedere quale dei suoi uomini gli avesse dato quella bella notizia. Il vento gli scompigliò appena i ciuffi rosa che spuntavano da sotto il tricorno e fece ondulare le barbe della piuma di struzzo bianca come la neve che sovrastava il copricapo. Inspirò a pieni polmoni l'aria salmastra che gli investiva il viso ogni volta che un'onda si infrangeva contro il legno della sua nave e girò la testa in direzione del punto indicato dal dito del marinaio che lo aveva chiamato. 

Afferrò repentinamente il cannocchiale che pendeva placido al suo fianco, lo sistemò velocemente e lo avvicinò ad uno sei suoi occhi ambrati per guardarvi dentro. Ciò che vide fece allargare maggiormente il sorriso che aveva sulle labbra, fino a farlo diventare un grosso ghigno: prima che potesse sparire al di sotto delle onde impetuose del mare, una lunga e maestosa pinna dai colori del fuoco si agitò appena, sferzando l'aria vicino al grande scoglio su cui la creatura a cui apparteneva quella coda doveva essere stata seduta fino a pochi attimi prima.

Abbassò il cannocchiale e non poté fare a meno di continuare a sorridere, il corpo attraversato dai fremiti familiari dovuti all'eccitazione che lo pervadeva ad ogni battuta di caccia.

«Hakuji, vira a tribordo. Andiamo a prendere quella sirena

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