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8.2 Le due cicatrici

"Look mummy, there's an airplane up in the sky."

(Pink Floyd - "Goodbye Blue Sky")


Una landa desolata, dai colori spenti e tetri, si estende sotto il cielo azzurro per migliaia e migliaia di chilometri, senza che se ne possa intravedere la fine. Provo ad aguzzare la vista, alla ricerca di un qualche drappello di vitalità all'estremità della Terra, ma se si esclude Arcadia alla nostra sinistra, che lentamente si sta allontanando dalla nostra visuale, è impossibile trovarne alcuna. È proprio come è scritto nei libri di storia: qui regna la morte.

La visione dei grattacieli della capitale rende l'inquietante spettacolo ancora più paradossale. Da un lato, un mondo vivo, pulsante, che si sta sforzando di tornare in auge; dall'altra un pianeta spoglio, lugubre e putrescente, come una ferita divorata dalla cancrena.

I pochi alberi ancora in piedi sono secchi, aridi, incapaci di far germogliare anche la più piccola delle foglie. I tronchi sembrano ossa carbonizzate, che aspirano disperate al cielo sovrastante, nella speranza di separarsi dal terreno morente per volare verso un territorio più fertile.

Una palude riempie un piccolo bacino a qualche metro da noi, agonizzando di fianco all'erba marcia. L'acqua che contiene è scura, oleosa e all'apparenza rancida.

La vegetazione, che un tempo doveva essere verde e rigogliosa, ora spunta a malapena dal terreno, i fili corti e troppo stanchi per riuscire a crescere ancora.

Vorrei distogliere lo sguardo, fingere che questa parte desolata del mondo non esista, ma non ci riesco, come nessun altro su questo treno. Posso sentire i respiri farsi più brevi, il silenzio piombare come un macigno nel vagone, mentre i finestrini vengono presi d'assalto da tutti gli studenti. Se non fosse per il movimento continuo del mezzo, sembrerebbe quasi che il tempo si sia fermato di colpo.

Istintivamente ispeziono il terreno in cerca di un qualche segnale di rinascita, qualcosa che possa risollevare il mio animo, farmi sperare in un miracolo naturale, ma i pochi segni che trovo sono a malapena significativi. Qua e là, piccoli ciuffi di verde appena accennato fanno capolino dal terriccio provato, colorando la zona come un flebile e già arreso smeraldo: una prova della lenta bonifica che la Natura sta tentando di attuare, ma non ancora sufficiente per garantire un risultato prossimo.

Abbiamo provato in tutti i modi ad aiutarla, ad accelerare il processo, ma a oggi non è stato ancora trovato un trattamento veloce e soprattutto efficace.

Nonostante tutta la tecnologia a nostra disposizione, non riusciamo ancora a sovrastare gli Esterni.

"Quello che vedrete oggi vi cambierà per sempre."

Le parole della professoressa delle medie ritornano con forza nella mia testa. Arcadia è ormai svanita a Ovest e la Zona Nera trasforma il paesaggio in un lugubre pianeta alieno. Faccio respiri piccoli, il battito cardiaco che come un tamburo dà un ritmo disperato alla visione di morte, mentre appoggio il palmo della mano al vetro.

Sento un fruscio alla mia destra: forse Katia si è alzata e si è avvicinata al finestrino; o forse è Mark, non lo so. Non riesco a spostare lo sguardo da quest'agonia, non ci riuscirei nemmeno se succedesse qualcosa nel vagone: io devo guardare.

"Il Giorno della Rivelazione è consuetudine mostrarvi la verità sul nostro passato. Il primo governatore ha ritenuto che fosse più saggio farlo a quest'età, quando le vostre menti sono formate a sufficienza da comprendere appieno cosa è realmente successo qui quarant'anni fa.

Vi avviso: non sarà una cosa facile.

Ma è giusto che voi sappiate."

La conoscenza è un onore, nel bene e nel male. Ma non si è mai pronti abbastanza per questo.

Fino ai tredici anni nessuno sa della Zona Nera o del Massacro: tutti evitano di raccontare come sono andate realmente le cose. I media non affrontano mai l'argomento, le manifestazioni pubbliche e gli anniversari vengono celebrati onorando altri periodi storici. Persino Internet, non sapendo con esattezza che cosa cercare, diventa inutile.

La prima a conoscere la verità fu Lara, quando io avevo sei anni. Tornò a casa sconvolta e si chiuse a chiave in camera: mi evitò per almeno una settimana, allontanandosi di corsa ogni volta che mi vedeva. Un giorno la affrontai disperata, chiedendole il motivo di quel silenzio, ma lei fu categorica.

"Capirai quando toccherà a te" mi ribatté con rabbia. Il solo sentire quella frase, urlata con un tono che mai le avevo sentito usare, mi fece desistere: decisi che non glielo avrei chiesto mai più e col tempo lei riprese a essere la sorellona di sempre.

Alle elementari studiai alcune rivolte interne all'Unione e qualche conflitto estero, ma non venni mai a conoscenza della Zona Nera o dell'occupazione esterna. Il pensiero di quell'episodio con Lara era ormai flebile, accantonato in un angolo oscuro della mia mente, e pensai che sarebbe rimasto lì fino alla mia morte.

Poi arrivò il mio Giorno della Rivelazione e il mondo intero mi crollò letteralmente addosso.

"La Nuova Europa poggia le basi su una delle guerre più cruente della storia dell'umanità. Non esiste nel mondo conflitto più devastante di questo. La nostra distruzione decretò la nascita di una nuova era nell'arte della guerra, arte che ormai non conosce davvero alcun limite.

Ad attaccarci furono gli Esterni, uomini senz'anima che rivolevano un potere perso anni addietro. Erano disposti a tutto pur di riavere ciò che, secondo loro, gli apparteneva di diritto, sebbene nessuno glielo avesse realmente rubato.

Il nostro primo errore fu provocarli. L'Unione era forte all'epoca, aveva superato le varie divergenze che l'attanagliavano e si sentiva pronta per toccare picchi che non aveva mai potuto scalare prima di allora.

Eravamo forti, progrediti e, ai loro occhi, potenti. Troppo potenti.

Il nostro secondo errore fu sottovalutarli. Pensavamo che non fossero più in grado di fare qualcosa di eclatante, che ormai il loro periodo storico fosse morto e che dovessero lasciare il posto a qualcun altro.

E questa fu la nostra rovina, poiché la loro ossessione, nel frattempo, era diventata instabile, rendendoli pronti per la tanto attesa rivincita.

Ci attaccarono senza alcun preavviso: a loro dire, non eravamo abbastanza meritevoli per conoscerne in anticipo le mosse. La notte tra il venticinque e il ventisei marzo del 2032 inviarono sulle ex capitali dell'Unione, all'epoca sedi dei principali ministeri, i loro droni e le bombardarono senza sosta fino all'alba.

Roma, città dell'agricoltura; Berlino, sede della finanza; Parigi, centro della cultura: il mattino seguente, di questi luoghi di potere rimasero soltanto le macerie, come si può vedere tuttora. Fu il primo di una serie di efferati massacri che gli Esterni commisero su noi europei.

Il mattino dopo ebbe inizio la dominazione Esterna. I robot arrivarono in massa, il loro numero fu incalcolabile. Per costruirli, avevano cominciato a produrli in serie, passando gli anni precedenti a sfornarne migliaia alla settimana. Un'ulteriore dimostrazione che il loro conflitto non fu casuale.

In alcune occasioni, durante i loro numerosi sbarchi, vennero inviati anche uomini in carne e ossa, ma la loro comparsa fu rarissima. Le macchine erano decisamente più spietate e non avevano nessun recettore emotivo: l'ultima cosa che gli Esterni volevano, erano dei tentennamenti tra i loro soldati.

All'invasione iniziale seguì l'occupazione delle città e dei paesi europei. Non passò molto tempo prima che cominciassero le prime, orribili umiliazioni. Razzie, omicidi, stupri, rapimenti, linciaggi pubblici, denigrazioni: tutto questo era all'ordine del giorno.

Controllarono i mezzi telematici, il trasporto, l'economia, la politica. Bloccarono l'accesso a Internet, isolandoci completamente. Ogni cosa finì sotto il loro dominio.

Le scuole furono tutte distrutte e le università vennero date alle fiamme: a detta loro, noi vermi non eravamo degni d'imparare alcunché. I libri vennero anch'essi bruciati, ogni dato eliminato dai database.

Ci disintegrarono fisicamente e psicologicamente: ogni azione, ogni pensiero, ogni scarica rilasciata dai nostri neuroni veniva captata e punita. I robot osservatori e i satelliti erano sempre in allerta, pronti a scovarci in ogni dove.

Luoghi sicuri non ne esistevano. Parlare in un campo di grano isolato dal mondo valeva quanto un seminterrato in città: la sicurezza era inesistente.

Se qualcuno veniva scoperto a lottare contro la dominazione, veniva portato nella piazza principale e sgozzato davanti alla folla, costretta a guardare, pena lo stesso fato.

Si è sempre detto che in guerra non esiste alcun limite: ebbene, questo è vero se si parla degli Esterni.

Durante quell'anno infernale, ci lanciarono ogni sorta di aberrazione. Ci obbligarono a bruciare la bandiera, a dissotterrare i cadaveri dei nostri antenati e a consegnare le loro ossa, cosicché potessero triturarle per creare le vernici speciali dei loro robot. Le ceneri dei defunti venivano portate via a forza, e in seguito gettate nelle discariche come comune immondizia. Se si aveva la sfortuna di morire, il cadavere veniva divorato dai cani robotici, più abili di quelli reali nel seguire le tracce.

I bambini appena nati venivano tolti alle loro madri e portati nei centri di ricerca, dove venivano effettuati folli esperimenti genetici. Portarli nella loro patria sarebbe stato come aprire le porte a dei parassiti: nella loro testa, l'idea era semplicemente disgustosa.

Quando le altre nazioni si scagliarono contro gli Esterni per fermare questo massacro, era passato meno di un mese dalla dominazione e già allora le strade erano strabordanti di sangue. Li minacciarono con la promessa di entrare in guerra se non avessero abbandonato all'istante il nostro territorio, ma il nemico contrattaccò in maniera tremendamente efficace.

Mostrò in diretta mondiale la strage di un centinaio di giovani che avevano tentato di ribellarsi alla dominazione. La loro esecuzione fu efferata come mai prima, tanto che il sangue che bagnava la piazza sembrava non avere fine.

Il video venne accompagnato da una feroce minaccia da parte del capo degli Esterni: se un solo stato avesse tentato d'invadere l'Europa e di prendere le nostre difese, gli avrebbero inflitto lo stesso trattamento, quadruplicandolo in efferatezza.

Il discorso diede i risultati sperati: in una dichiarazione pubblica, le altre nazioni lasciarono agli Esterni carta bianca. Potevano farci quello che volevano, purché non invadessero i loro territori. Per la salvaguardia dei loro Paesi, firmarono la nostra condanna, che continuò selvaggiamente fino all'anno successivo, senza interruzioni o tregue di nessun tipo.

Rimasti soli, noi europei cercammo con ogni mezzo di cacciarli e di riavere una nostra autonomia politica. Ogni giorno si pianificavano nuove mosse, nuove strategie, per tentare almeno d'indebolire la forza nemica. Se per loro era un diritto riacquistare potere, per noi lo era riprenderci le terre conquistate.

Provammo a trattare in segreto con la Svizzera, ma invano: gli Esterni ci scoprirono subito e la bombardarono seduta stante, colonizzandola a sua volta. Il video dell'invasione venne mostrato solo agli europei, perché, a detta loro, alle altre nazioni la cosa non doveva minimamente interessare.

Tentammo allora con i paesi scandinavi, che fino ad allora erano stati lasciati in pace, ma anche in quel caso, ogni azione venne bloccata sul nascere: vennero erette delle mura digitali sulle coste nordiche e i rivoltosi furono gettati in mare.

Più i mesi passavano e più per noi le perdite diventavano ingenti, più ci sforzavamo di trovare una soluzione finale ai nostri problemi.

Nessuno però si sarebbe aspettato un epilogo così macabro.

Verso il febbraio dell'anno successivo, giocammo la nostra ultima carta: se non potevamo salvare la nazione, avremmo pianificato una fuga di massa. I più coraggiosi sarebbero rimasti nelle città, a distogliere l'attenzione dai fuggiaschi che scappavano verso Est. Lì infatti non erano ancora state erette barriere di contenimento, e sebbene fossero territori conquistati, forse esisteva ancora una breccia da qualche parte. Bastava trovarla.

L'idea girava già da un bel po' in Europa, ma era sempre stata considerata un gesto folle e al limite dell'estremo, per alcuni addirittura impossibile. Non ci erano rimaste però molte opzioni: dovevamo tentare.

Si delinearono varie righe territoriali, suddividendo l'Europa in cinque grandi aree: chi si trovava a destra della prima linea poteva far scappare massimo tre persone. Il messaggio venne diffuso attraverso una nuova connessione Internet, creata dopo la scoperta di una frequenza radio ignota al nemico.

I primi a fuggire furono gli abitanti dell'estremo Est: a due settimane dalla prima partenza, nessun video parlò dell'operazione. Ormai dovevano aver raggiunto le coste a Sud-Est, quindi l'idea che fossero riusciti a scappare era teoricamente possibile. Non avevamo certezze, ma sembrava funzionare, così proseguimmo con la seconda area e, successivamente, con la terza.

In un mese, riuscimmo a coprire la fuga di almeno centomila persone, scappate seguendo itinerari, luoghi e tempi diversi tra di loro. Avevano ordini precisi da seguire, se non volevano essere scoperti: primo tra tutti, dovevano muoversi in piccoli gruppi. Se due gruppi s'incontravano, dovevano assolutamente dividersi.

La maggior parte si mosse a piedi, i più fortunati rubarono dei vecchi veicoli inutilizzati. La traversata fu dura ed estenuante, ma niente era comparabile alle atrocità subite in quel periodo: la sofferenza che avevano provato bastava a farli continuare.

Inoltre, il fatto che gli Esterni non rilasciassero alcun video sull'operazione in atto rendeva il gesto un insperato miracolo. Forse stavolta stavamo davvero per trionfare sul nemico.

Ma ogni speranza venne spezzata di lì a poco, quando fummo svegliati nel cuore della notte e ci costrinsero ad andare nella pubblica piazza per un messaggio speciale.

Il video che ci mostrarono fu un vero incubo. Avevano scoperto il nostro piano di fuga ancor prima che l'attuassimo, ma avevano preferito non intervenire, per illuderci di averla fatta franca e per poi punirci nel modo più consono possibile.

Aspettarono fino a quando i fuggiaschi della terza zona raggiunsero il luogo scelto per il loro test, poi tutto accadde rapidamente.

Dal nulla comparvero delle barriere digitali. Un satellite mostrò a noi sopravvissuti una sorta di ovale obliquo che si delineava in un'area enorme, comprendendo un territorio che andava dalla ex Polonia alla ex Romania. Poi arrivarono i droni, che scagliarono senza compassione alcuna un nuovo tipo di bombe.

L'esplosione fu una cosa mai vista prima: le persone si polverizzarono letteralmente, cadendo come cenere al suolo. Anche quelle distanti a sufficienza dall'evitare l'impatto diretto morirono in quella orrida maniera, appena le onde d'urto generate dalle bombe li raggiunsero.

Tutto divenne cenere: dagli alberi all'erba, che si seccò all'istante. Tutto ciò che respirava venne spazzato via in meno di un'ora. Non rimase più niente se non cenere e morte.

Gli Esterni la chiamarono Bomba al Neutrone 4.0 e i risultati raggiunti quella sera furono, a detta loro, a dir poco soddisfacenti.

Ma fu anche la goccia che fece traboccare il vaso: mentre parte dei cittadini si disperava alla vista di quella distruzione, alcuni si ribellarono come un'orda di cani inferociti, dando inizio alla nostra azione punitiva.

Fu una delle rivolte più violente da noi attuate durante l'occupazione: dal momento che non avevamo davvero più niente da perdere, anche le nostre gesta persero raziocinio.

Li massacrammo, demolendoli fino all'ultimo respiro. Ogni robot che incontravamo sul nostro cammino intriso di vendetta veniva letteralmente aperto in due, i suoi chip spezzati ed estratti come in una folle operazione chirurgica. Agli umani infliggemmo la nostra stessa condanna, punendoli fino a strappare loro la carne dalle ossa.

Fummo spietati, accecati da un anno di soprusi e da quell'orrenda visione alla quale ci avevano costretto ad assistere. Cercarono di contrattaccare, di farci tornare nelle nostre gabbie, minacciandoci di toglierci la vita nelle maniere più atroci se non avessimo smesso di ribellarci. Ma i ruoli si erano ormai invertiti: noi eravamo insaziabili e loro iniziarono a temerci.

La lotta durò quasi tre mesi: dai tetti degli edifici stavolta grondava sangue nemico e le strade erano coperte dai circuiti meccanici imbrattati di grasso. Per ogni perdita che subivamo, la nostra ferocia cresceva in egual misura.

Gli Esterni tentarono come ultima mossa di sganciare un'altra delle loro bombe rivoluzionarie, ma la sera prima del previsto attacco uccidemmo il loro capo.

Era un generale stabilitosi qui per monitorare l'occupazione, sotto le dirette dipendenze del vero presidente. Ne rispedimmo in patria solamente gli occhi, impacchettati nella sua stessa pelle, col chiaro messaggio di non provare mai più a invaderci.

La sua uccisione pose fine al dominio nemico: avevamo decapitato il toro. I pochi robot sopravvissuti tornarono al loro paese natio, lasciandoci finalmente liberi.

Ma il prezzo della nostra liberazione fu altissimo. Tre quarti della popolazione era deceduta e i sopravvissuti dovevano prendersi carico di una nazione morente. Dovemmo ricostruire ogni cosa, dalle città alla politica, passando per l'istruzione e la sanità, combattendo ogni singolo giorno contro gli incubi di ciò che avevamo visto e che noi stessi avevamo fatto.

Col tempo, le cose cominciarono a migliorare: era nato il nuovo governo, si era edificata una nuova capitale a lato della Zona Nera e si delineò l'idea di costruire un'accademia al di là del luogo del Massacro.

Ancora oggi, lottiamo per risollevare la nazione: ogni nuova scoperta, ogni studente iscritto, è un passo verso la rinascita, per riacquistare quell'onore che ingiustamente ci hanno tolto gli Esterni."

«Ehi.» Una voce gentile mi riporta a galla dal discorso della professoressa, facendomi tornare sul treno per l'Accademia. La nebbia che mi aveva offuscato la vista svanisce silenziosa, per lasciare il posto al bicchiere di vetro che sembra levitare davanti a me.

Alzo lo sguardo smarrita e vedo Mark porgermi con affabilità l'acqua. Nel suo volto posso notare un leggero turbamento, sebbene stia cercando di non darlo a vedere.

«Va meglio?» mi chiede appena si accorge del mio ritorno alla normalità.

Non mi sono resa conto di aver abbassato lo sguardo dalla Zona Nera, né di essermi persa nel ricordo del Giorno della Rivelazione. Mi guardo intorno leggermente confusa e vedo Mathias di fronte a me con il volto nascosto dalle mani, mentre Katia cerca di trattenere le lacrime che stanno per scenderle lungo il viso, concentrandosi sul bicchiere dal quale sta bevendo a piccoli sorsi.

Prendo il mio dalla mano di Mark, annuendo lievemente col capo: «Sì, è passato» rispondo, più per rassicurare me che lui.

Mark ritorna al suo posto, evitando di volgere lo sguardo oltre il finestrino. La Zona Nera, ancora visibile fuori dal treno, ha lasciato in ciascuno di noi un senso di dolore e d'impotenza. Nessuno ne è rimasto immune, lo posso vedere anche nei volti degli altri studenti, concentrati a rimettere insieme i pezzi mentali.

Sorseggio apatica l'acqua, appoggiando il viso sulla mano per nascondere alla mia vista quel luogo di morte e cercando di riacquistare la pace che mi aveva pervaso ad Arcadia. Mathias scosta le mani dal viso: non credo abbia pianto, ma non si può di certo dire che stia bene, visto il suo pallore.

«Non si è mai abbastanza pronti per questo» commenta in un sussurro Mark, prima di abbassare lo sguardo.

"Il mio stesso pensiero" rifletto, respirando a pieni polmoni.

Il resto del viaggio lo passiamo in silenzio, ognuno preda dei propri pensieri e incubi. Fisso il pavimento come se fosse la cosa più interessante del mondo, evitando accuratamente di dare anche una sfuggevole occhiata all'esterno: il terrore che possa rivivere quel discorso e magari rivedere il video atroce del Massacro mi spinge a cercare una qualsiasi fonte di distrazione.

Per questo motivo non mi accorgo che il treno ha raggiunto i Carpazi, né che l'Accademia ha fatto capolino in una vallata tra le montagne.

È l'urlo di gioia di un ragazzo a farmi ridestare dai miei pensieri e non ci vuole molto perché tutto il vagone si affacci a guardare l'edificio.

L'Accademia, il luogo a cui tutti ambiscono, si erge davanti ai nostri occhi, di un bianco splendente. Costruita nell'unico luogo che ha resistito alle esplosioni, forse grazie alle montagne adiacenti, rappresenta la rinascita in un territorio martoriato. Una sorta di fenice, nata dalle ceneri dei caduti, che ha nidificato in una zona ancora pacifica e fertile. La vallata infatti è viva e verde, e le montagne innevate creano un effetto magnifico, che si contrappone al senso di morte della Zona Nera.

La tristezza di prima scompare, lasciando il posto a urla felici che si diffondono per tutto il treno. Non manca molto ormai e alcuni studenti si sono già sistemati di fronte alle porte, pronti a uscire non appena si apriranno.

Anche noi quattro ci affaccendiamo per essere tra i primi a scendere: l'entusiasmo è palpabile e preferiamo di gran lunga concentrarci sul nostro imminente arrivo, piuttosto che sul malessere che ci ha pervaso poco fa.

Il treno termina la sua corsa su una collina di fronte all'Accademia. Le porte automatiche si aprono e un'onda di studenti corre a perdifiato verso l'edificio. Mentre aspettiamo che Katia ci raggiunga, essendo rimasta leggermente indietro, ammiro il panorama circostante.

L'aria è pura, sa di fresco e non devo temere che sia contaminata: la Zona Nera non rilascia radiazioni, quindi non ci sono pericoli da quel punto di vista. Intorno a me vedo solo le montagne e l'ampia vallata verde: di morte e distruzione nemmeno l'ombra, se non un piccolo puntino all'orizzonte.

Raggiungiamo gli altri studenti e subito restiamo incantati: a pochi passi da noi, il sogno della nostra esistenza.

Finalmente, l'Accademia.

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