VI-prima parte.
Il mattino dopo non ricordavo molto di quanto era accaduto durante la notte. L’unica cosa che permaneva ancora vivida dentro di me, era la sensazione delle mani di Derek sulla mia pelle, del suo fiato caldo contro il collo. Un odore strano si era diffuso intorno a me, disgustandomi e in parte inebriandomi. Non sapevo di cosa si trattasse e forse era meglio così. Quello che ricordavo ancora di più era il dolore che avevo provato, quando il suo corpo era piombato sopra il mio, quando la consapevolezza di quanto stava accadendo mi aveva spiazzata, terrorizzata.
Il momento peggiore era stato rendermi conto di quello che mi stava facendo. Eppure non l'avevo fermato, non ci ero riuscita. Mi ero sentita talmente codarda, un ebete che aveva permesso che una cosa del genere potesse accadere.
Quando aprii gli occhi l'inferno aveva smesso di esistere. Derek non c'era più e io non avrei potuto chiedere di meglio. Le lenzuola erano stropicciate, il letto ancora più gelido di ieri notte. Aggrottando la fronte notai una cosa strana, inusuale. Una macchia rosata, minuscola, che contrastava con il bianco delle lenzuola. Serrai le labbra, deglutendo. Eccola, la testimonianza di quello che era accaduto, dell'inferno cui Derek mi aveva sottoposta.
Provai l'impulso di scoppiare in lacrime, ma poi rammentai a me stessa che non ne valeva la pena, che io ero forte, molto più di così. Almeno era quello che zia Jo aveva sempre cercato di inculcarmi. Zia Jo… Se in qualche modo avesse saputo cosa aveva fatto suo figlio, quale sarebbe stata la sua reazione? Vivevamo in un’epoca oscura, dove gesti come quello compiuto da Derek si verificavano tutti i giorni, eppure il fatto che lo avessi provato sulla mia pelle mi stravolgeva. Non avevo idea che ci si potesse sentire così.
Vuoti.
Smarriti.
Perduti.
Soli.
La solitudine era la cosa peggiore che potesse capitarmi. Ora più che mai, mi sentiva abbandonata, orfana una seconda volta.
Mi raccolsi le ginocchia al petto e gettai lo sguardo oltre la finestra. Il corvo era sparito, come tutti i giorni; gli unici momenti in cui si appollaiava sopra il davanzale erano la notte e il tramonto. Non sapevo che cosa significasse la sua presenza lì, né avevo mai voluto saperlo. Per un periodo era stato l’unico essere vivente che mi avesse tenuto compagnia e, in qualche modo, lo ringraziavo per questo.
Il sole era già sorto, in un abbagliante sinfonia di giallo e rosa, e l'aria eradolce, fredda, salubre. Allungai il collo e scorsi i torrenti coperti di brina, gli stagni gelati, poi spalancai le ante, lasciando che l’aria fredda mi investisse il viso. E sperando che riuscisse a ripulirlo, insieme alla mia anima, dalla sporcizia di quella notte.
Avrei dovuto cambiarmi d’abito, darmi una ripulita. La camicia da notte che usavo per dormire era ormai ridotta a un informe ammasso di brandelli color beige. Derek mi aveva lasciato dei graffi sulle spalle, i fianchi, che pulsavano ancora. Cercai di sgomberare la mente, schiarendomi le idee. L'interno delle cosce fremeva ancora lievemente; sapevo che il tremolio non sarebbe cessato tanto rapidamente.
Respirai profondamente, afferrai il mantello e me lo gettai sopra le spalle, per poi scendere silenziosamente in cucina, dove mi preparai una scodella di pappa d'avena. Fu la cosa più sostanziosa che riuscii a mandar giù. La cucina era un locale piccolo, freddo come il resto della casa. Sotto la finestra c'era l'acquaio, incrostato e contenente una sola scodella sporca e un bicchiere. Derek doveva aver già fatto colazione. Non avevo intenzione di lavare nulla, non quella mattina. Feci una smorfia, stringendomi il mantello intorno spalle. Prima che fosse troppo tardi ingoiai la mia razione di pappa d'avena ed uscii di casa. Osservai per qualche secondo il mio respiro condensato in una nuvoletta, inumidendomi le labbra secche con la lingua. Mentre mi avviavo verso il sentiero che conduceva al lago, passai davanti la casa del signor Bennett, il padre di Sophie. Era un po' più grande della nostra, provvista di un piccolo orticello sul retro. Provai il desiderio di chiamare Sophie e raccontarle l'accaduto ma probabilmente non era il caso, dopo quello che era successo a sua madre.
Scossi la testa e continuai a camminare, ma prima che potessi fare qualche passo una voce maschile urlò il mio nome, alle mie spalle.
Mi voltai immediatamente e scorsi il signor Bennett in piedi, sul portico di casa sua. Notai il viso stanco, scarno, come se non mangiasse da giorni, gli occhi castani incavati, e provai un moto di compassione per lui e per la sua famiglia; per il momento quello che mi era accaduto passò in secondo piano.
«Signor Bennett» lo salutai con un sorriso tirato. Fu il massimo che mi riuscì di fare, in quelle condizioni. L’uomo ricambiò il mio sorriso, ma il suo era più triste, come se avesse perduto la voglia o la motivazione di essere felice.
«Ti va di entrare e fare colazione con noi? Sophie ti ha vista passare, ma non pensava che tu volessi, così ha chiesto a me di farlo.»
«Veramente ho già fatto colazione, signore» dissi, stringendomi nelle spalle. Non ero in vena di accettare l'invito. Sentivo più di ogni altra cosa il bisogno di lavar via la sporcizia che Derek mi aveva lasciato addosso e non potevo perdere altro tempo. «Passerò da Sophie sulla via del ritorno, promesso.»
«Lei immaginava che non avresti voluto» replicò il signor Bennett con un sospiro stanco.
«Non si tratta di questo» mi affrettai a precisare, «è solo che ho un bisogno urgente da sbrigare giù al lago… prometto che appena avrò finito verrò a trovare Sophie.»
Lui mi guardò, rivolgendomi un sorriso debole, poi abbassò lo sguardo.
«Mi rendo conto solo in questo momento di quanto tu sia la fotocopia di tua madre, Amethyst.»
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