I
Aprii gli occhi al tintinnio delle chiavi sulle assi di metallo. Era il mio milleottocentoventottesimo giorno in quella sudicia prigione. Avrei potuto considerarlo un record, se solo fossi stata in grado di andarne fiera, in qualche modo. Ma non c'era più nulla di cui andare fieri, ormai, non c'era più niente per cui gioire. Non c'era più niente e basta.
Sentendo la spalla indolenzita a causa della posizione rannicchiata in cui ero costretta ad addormentarmi tutte le notti, mi sollevai con un gemito, massaggiandomela. Il mio sguardo venne attirato dal movimento della grata di ferro che si apriva lentamente, cigolando lungo il cardine.
Ci risiamo, pensai con una smorfia. Jon, il capo della guardia del palazzo, si stagliava imponente sulla soglia, con l'espressione più disgustata che gli avessi mai visto addosso. Solo una volta, quando mi avevano trovata al lago mentre mi lavavo, sei anni prima, e mi avevano trascinata lì, l'avevo visto altrettanto schifato. Serrai la mandibola. Se avessi avuto la possibilità di saltargli addosso e strappargli a morsi quell'espressione di superiorità che aveva sul volto, lo avrei fatto all'istante. Ma, sfortunatamente, mi era impossibile, a cauaa delle catene che mi imprigionavano polsi e caviglie.
«Penso ti farà piacere sapere che hai una nuova compagna» disse senza alcun tipo di sfumatura nella voce.
«Cerca di non farla fuori, se ci riesci.»
Lo fissai con espressione confusa, sollevando il mento. Non vedevo nessuno accanto a lui, ma evitai di ribattere, ricacciando indietro la risposta tagliente che mi era salita alle labbra.
Jon si voltò appena e fece un cenno del capo in direzione dell'esterno. Alcuni secondi dopo, con i polsi trattenuti da una corda, una ragazza venne sbattuta contro il petto della guardia. Un panno all'apparenza sudicio le pendeva dal collo e compresi che, fino a qualche istante prima, quella benda doveva esser premuta contro le sue labbra.
Inarcai un sopracciglio: era praticamente una ragazzina. Jon le passò una mano sotto il mento, per poi scendere lungo il collo, e più giù, fra i seni, dove si fermò. Avvicinò le labbra alla sua mandibola e, mentre scendeva lentamente più in basso, mantenne costantemente lo sguardo scuro puntato su di me. Sostenni quello sguardo con tutta la dignità che mi era rimasta. Era poca, ma meglio di niente.
La ragazza tremava, riuscivo a percepirlo anche a distanza di metri, e nei suoi occhi aleggiava la paura. Non conosceva minimamente questa nuova vita. Nemmeno io la conoscevo, prima che mi portassero lì. Comprendevo il suo trauma.
Strinsi i pugni, mentre percepivo la rabbia crescere e divampare come un incendio. Jon scoppiò a ridere, borioso, poi scosse la testa, scaraventando violentemente la ragazza verso il pavimento, dove la accolsero le dure lastre di pietra fredda. D'istinto mi preparai ad attaccarlo ma le catene mi trattenevano. Maledetto, pensai con rabbia mentre Jon richiudeva la grata dietro di sé, con il solito sorriso di superiorità stampato sulle labbra. Poi la sua figura svanì e la semioscurità ritornò ad aleggiare nella cella.
Rivolsi uno sguardo al corpicino rannicchiato a terra, in lacrime. Con una smorfia amara, cercai di strisciare più vicino a lei finché mi venne permesso dalle catene.
«Smettila di piangere» sussurrai. «Non ne vale la pena, non servirà a niente.»
Le mie parole risultarono più dure di quanto volessi. Non avrei voluto esserle apparsa insensibile, ma fingere che quella nuova realtà non fosse irreversibile sarebbe stato come urlare ai quattro venti che il sole non sorge mai. Doveva abituarsi il prima possibile e accettare la situazione.
La ragazza continuava a gemere, tremante, apparentemente sorda alle mie parole.
«Mi hai sentito?»
Feci tintinnare le catene che mi gravavano sul polso destro e lei sollevò lentamente il capo, attirata dal rumore.
«Considerati fortunata, per lo meno non ti hanno incatenata. È una tortura peggiore di quello che potresti pensare, credimi.»
La ragazza abbassò lo sguardo, mentre i suoi tremiti si attenuavano lentamente.
«Mi...mi dispiace» mormorò senza guardarmi.
«Non dispiacerti» replicai con un sorriso amaro. «Io ci sono abituata. E tu sei spaventata, è comprensibile, ma cerca di calmarti. Respira, chiudi gli occhi. Vedrai che ti renderà la cosa un minimo più accettabile.»
La vidi inspirare nervosamente. Le lacrime avevano segnato le sue guance con tale intensità che sembravano essersi impresse completamente nella pelle. Nonostante tutti gli anni di torture e solitudine, realizzai di essere ancora in grado di provare dei sentimenti. Ed era compassione, pura e terribile compassione, quella che sentivo verso di lei.
«Credimi» cercai di incoraggiarla ancora,
«puoi avvicinarti?»
Lei mi rivolse uno sguardo sconcertato, timoroso. La paura sembrava trasparire da ogni parte del suo corpo. Scosse vigorosamente la testa in segno di diniego, riprendendo a tremare.
No, non era quello che volevo.
Respirai profondamente, raccogliendomi le ginocchia al petto. Il tintinnio delle catene sembrò infonderle ancora più paura.
«So che cosa pensi» dissi con amarezza. «È più o meno quello che pensa ogni persona che mi abbia vista o parlato.»
Lei mi fissò guardinga, rabbrividendo.
«Mi hanno detto di stare quanto più alla larga possibile da te» sussurrò con voce roca. «Hanno detto che sei... malvagia. Che sei la figlia di... di...»
«So che cosa ti hanno detto di me» replicai in tono forse troppo tagliente.
Con una smorfia amara appoggiai la schiena alla parete umida dietro di me, chiudendo gli occhi. Ero così stanca. Stanca di tutto, stanca di essere considerata qualcosa che non ero. Stanca che le persone mi fissassero con paura, che si tenessero a distanza perché credevano che mio padre fosse il Maligno. Ero così stanca di quella vita.
Riportai lo sguardo sulla ragazza, che mi stava ancora fissando con timore.
«Quanti anni hai, ragazzina? E perché ti hanno imprigionata?»
Lei sembrò scioccata dalla domanda; accostò il volto alla pietra della parete. Non sembrava decisa a rispondere e io potevo capirla. Non riesciuvo a ricordare nessuno che avesse scambiato con me più di qualche parola, e per la maggior parte erano insulti o parole di scherno, rabbia, timore. Ma non sarei stata disposta a tollerare una nuova persona che mi avrebbe tenuta a distanza. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare, con cui relazionarmi. Di qualcuno che non avesse paura di me.
«Ti prego.»
Sembrò quasi una supplica. In un altro momento non mi sarei abbassata ad implorare qualcuno di rispondermi, ma ora non avevo più il diritto di sentirmi superiore a nessuno. Avevo solo bisogno di un'amica, o di qualcuno di quanto più vicino possibile a un tale concetto.
La ragazza continuava a tremare, scrutandomi con la paura dipinta negli occhi.
Andiamo. Rispondimi. Ti prego. Ho bisogno che tu mi risponda.
«Bridget...» scandì lentamente, soppesando ogni parola. «Mi chiamo Bridget, e ho sedici anni.»
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