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Helene Wolfe

Bussarono alla porta. La dottoressa alzò gli occhi dal computer e diede un'occhiata all'orario. C'era un vecchissimo orologio analogico sulla parete: era stato il regalo di suo padre quando era stata eletta senatrice, molti anni prima. Si intonava benissimo con la moquette blu e il legno mogano antico della libreria. Probabilmente nel giro di qualche settimana avrebbe dovuto inserirlo in una scatola con la sua collezione di libri antichi. Sospirò sovrappensiero e si massaggiò gli occhi stanchi. Dormiva poco in quei giorni e aveva ricominciato a perdere i capelli. Lo stress le faceva quell'effetto da sempre. La sua segretaria si sporse soltanto dalla porta.

- Sono arrivati, dovrebbe scendere anche lei per l'udienza - disse soltanto. La dottoressa annuì lentamente, si alzò e si avvicinò allo schermo nell'angolo della stanza. La scalinata del senato era gremita di giornalisti: erano lì già dalle prime ore dell'alba. Era arrivata presto per riuscire a evitarli, ma non aveva avuto fortuna. Un blindato si fermò davanti alla scalinata: diversi agenti dell'FBI scesero. Aprirono le portiere. Una parte di lei non poté che trattenere il fiato. Non vedeva quei due ragazzi da moltissimo tempo, da quando erano fuggiti notte tempo dal suo laboratorio di ricerca, liberati da una squadra militare. Una parte di lei era stupita che fossero ancora vivi, soprattutto Roxanne. Quando le avevano detto che sarebbero arrivati con un caccia militare non aveva potuto che mettersi a ridere. Si ricordava bene lo stato dei polmoni di quella ragazza.

Liam Hosmer fu il primo a scendere, poi si scostò e aiutò una piccola figura a uscire dall'auto. La telecamera zoomò. Helene prese un profondo respiro senza riuscire a distogliere lo sguardo da quell'immagine. Se lei era viva ed era lì, aveva davvero un grosso problema. Il vento di quella caldissima giornata di agosto faceva svolazzare il tulle del suo vestito rosso che risaltava sul corpo atletico. I capelli rossi fuoco di entrambi svettavano in mezzo alla gente e al loro ordinario e noioso patrimonio genetico. Forse si era spinta troppo oltre, ma aveva trasformato una ragazza spaurita a uno stadio avanzato di leucemia, probabilmente incurabile, in una dea. Una guerriera. Purtroppo, non era mai riuscita a vederla combattere, ma vederle produrre quella palla rosso fuoco era stata un'emozione che non poteva togliersi dalla mente. La telecamera indugiò su di lei: aveva un respiratore calato sul viso e faticosamente saliva le scale. Helene in quel momento capì di non poter più salvare la sua carriera politica. Quell'immagine avrebbe calamitato la stampa per giorni. Il ragazzo con il casco, in giacca e cravatta, lo sportivo mancato, che aiutava la giovane a salire le scale portando la sua bomboletta d'ossigeno... I lustrini della sua cloche riflettevano il sole creando un riflesso quasi magico. Era una sorta di presentazione al mondo di una nuova specie, la specie a cui lei stessa aveva dato vita: creature bellissime e fragili di cui non poteva infine che ammirare la perfezione. Quella che il mondo stava guardando, trattenendo il fiato, era come un'immagine rubata a quegli anni convulsi, come se quei ragazzi fossero vissuti in un mondo parallelo in cui il tempo si era fermato. Nessuno sarebbe rimasto indifferente.

Helene prese uno smartphone dal cassetto, salutò la segretaria e si avviò per il lunghissimo corridoio. Si fermò nell'atrio e si guardò allo specchio: una cinquantenne elegante. Aveva avuto tutto dalla vita: soldi, potere, conoscenza, ricchezza, riconoscimenti importanti, un Nobel. Cosa poteva chiedere di più? Forse era nell'ordine delle cose che prima o poi avrebbe iniziato a perdere qualcosa di quello che aveva guadagnato. Certo non intendeva arrendersi. Si sistemò i capelli freschi di permanente. Non la portava da anni, ma non intendeva nascondersi, lei era fiera del suo lavoro: potevano non capirlo, ma un capolavoro sarebbe rimasto e non sarebbe scappata per paura. Stirò il vestito blu, sobrio ed elegante, sistemò la collana di perle e procedette sicura coi suoi tacchi a spillo scendendo la scalinata. Molti agenti di guardia al suo passaggio ammutolivano, ma questo non le dava fastidio. Affatto. Lei aveva accesso a livelli di informazioni che loro non si sarebbero mai sognati. Potevano costringerla a dimettersi, ma il suo lavoro non si sarebbe fermato. Ormai era tutto previsto.

Le indicarono una sala d'aspetto laterale. Sarebbe entrata dopo di loro, per ultima, a dover parare i colpi dalle loro accuse. In realtà non era lì per negare, ma per prendersi il merito del suo duro lavoro. Compose il numero a memoria e attese. Sentì la comunicazione instaurarsi, attese ancora mentre veniva inoltrata da un centralino.
- Avevo detto di non toccarli - disse solamente.
- Non siete voi sotto processo - protestò Helene.
- Non posso impedirlo se lei è qui - rispose con una tranquillità che stupì anche sé stessa.
- Andiamo, l'hanno vista tutti con il respiratore, quello è un colpo basso. Avevo detto a Micheal di aspettare a usare la polvere! - disse spazientita. L'amore è una debolezza, Helene l'aveva sempre saputo e lei era colpevole perché in fondo li amava tutti, i suoi ragazzi, il suo vero capolavoro.
- Lui è lì? Passamelo! - ordinò.
- Ti avevo detto che dovevi avere pazienza, adesso è un problema. Mi spieghi come ha fatto quella ragazza a sopravvivere? - insistette Helene.
- se fosse venuta qua in forma sgargiante, avremmo avuto ancora una possibilità, così è finita! - aggiunse agitata.

Micheal fissava la televisione e tremava di rabbia. Si conteneva solo perché non era solo, ma avrebbe avuto voglia di urlare. Spostò gli occhi blu iniettati di sangue sul pavimento di vetro. Il ragazzo che vedeva riflesso in quel pavimento a specchio faticava a riconoscersi allo specchio: detestava dover tenere i capelli rapati a zero, per favorire la guarigione dei tagli che aveva in testa. Si grattò nervosamente la cicatrice che aveva sul braccio. Ci avevo messo quasi un mese a riprendersi da quello che Roxy gli aveva fatto ed era stato molto doloroso, soprattutto perchè Helene gli aveva proibito di anestetizzarsi come lui avrebbe voluto. Ora si era disintossicato, era di nuovo in piedi ed era pronto per la sua vendetta e per riprendersi ciò che era suo di diritto: Kathy.

In quella sala comune della Humans Holding si erano tutti radunati per vedere l'evento: uno dei soci fondatori della loro azienda incriminato in senato. Roxy, inaspettatamente, aveva messo da parte l'orgoglio e si era presentata come la ragazza a cui Helene Wolfe aveva rovinato la vita. Poteva ingannare chiunque, ma non lui: quella non era una tenera creatura indifesa, era un mutante potentissimo, che aveva distrutto cinque dannati caccia solo con la sua onda. L'unico rimorso che aveva era di non aver messo abbastanza polvere in quei missili. 

- Mi avevi promesso che avrei avuto la mia vendetta - disse deciso parlando nel tablet che gli avevano passato.

- A tempo debito, Michael. Capisci perché sono arrabbiata? Non dovevi mettere la polvere senza prima aver studiato bene le conseguenze. Se sono vivi, vuol dire che non è penetrata nelle giunture dell'aereo e che così la maggior parte rimanendo sulla superficie si è dispersa. Michael non sto dicendo che quella polvere non sia un capolavoro, lo è. Apre fronti indescrivibili e sei stato molto bravo a crearla, ma devi stare attento. Se vogliamo che il piano funzioni, bisogna affidarsi alla scienza, non alle speranze o agli istinti di vendetta, bisogna solo testare e ritestare finché non si è certi, è questa la scienza, è questo che funziona - sospirò Helene.

Zia Helene si era sempre sentita in dovere di indicargli la strada giusta, fin da quando era piccolo. Questo gli aveva sempre dato abbastanza sui nervi, ma almeno con lei c'era un dialogo, non come succedeva con suo padre, che lo credeva ancora uno squattrinato studentello senza barba troppo impegnato a divertirsi. La verità era che era più geniale di suo padre ed era ora che lui vedesse. Anche per questo che aveva usato la polvere in maniera così avventata. Sperava tanto che qualcuno della Lotus se ne facesse spedire un campione: godeva nell'immaginare la faccia di suo padre nel sapere che qualcuno era riuscito dove lui si era sempre fermato. Per ora non gli importava che sapesse che era stato lui. Era solo stanco di essere trattato come un bambino.

- Dammi solo quell'ordine, io esco e l'affronto sulla scalinata del senato, non mi importa - aggiunse Michael. Helene sospirò.

- Michael, ormai avrà già testimoniato, se lo toccherai peggiorerai solo la mia posizione. E' questo che vuoi? - chiese lei. Michael sospirò e poi negò deciso.

- Sappiamo dove sono, non possono nascondersi ormai ... Ascoltami, Michael, avrai la tua vendetta prima che questa lista cada è una promessa - gli promise la donna. Micheal respirò profondamente.

- Cosa succederà se parla? - chiese il ragazzo.

- Perderemo il senato, il che ovviamente non era quello che volevo e probabilmente perderemo la "lista". Rallenterò le cose il più possibile, ma ormai non possiamo più nasconderci. La verità è venuta a galla... ora dobbiamo solo far capire al mondo perché l'abbiamo fatto, quando lo sapranno ci daranno ragione. Avete recuperato i filmati dal drone che seguiva i caccia? - disse decisa la dottoressa stringendo il pugno e perdendosi a guardare il corridoio antistante la sala destinata agli interrogatori. Michael confermò. Il potere di Roxy era stato filmato. Era una prova incontrovertibile di cosa poteva fare, quello che Micheal non capiva era: perché non usarla subito?

- Arriverà il momento giusto per ogni cosa, fidati di me- aggiunse la dottoressa. Chiuse la telefonata lentamente e ripose nel taschino della giacca lo smartphone. Roxanne era là, seduta a pochi passi dall'entrata, inspirava profondamente nella bomboletta, protetta da un nugolo di guardie armate. Helene prese un profondo respiro e si avviò nel corridoio. Una guardia fece per proibirle il passaggio, lei alzò solo le mani.

- Devo solo andare alla toilette - aggiunse. Casualmente per andarci la sola strada era passare davanti a Roxy. Non c'era nulla di casuale: voleva guardarla dritta negli occhi e vedere se aveva il coraggio di ammettere tutta la verità in aula. Quella ragazza era viva solo per merito suo. Avevano sbagliato a spingersi oltre? Forse sì, ma non era giusto che si dimenticasse che a loro doveva la vita. La guardia la scortò verso il bagno, un'altra li seguiva.

Roxy alzò lo sguardo e la vide, rimase senza fiato. Era come un incubo, ma fin troppo reale. Con quella permanente era fin troppo simile alla dottoressa che l'aveva imprigionata e che l'aveva quasi uccisa. Una lacrima le sfuggì sulla guancia, gli occhi lampeggiavano rossi di rabbia. Una parte di lei avrebbe creato una grossa onda e incenerito quella donna. Se l'avesse fatto sarebbe passato dalla parte del torto, era difficile resistere: odiava quella sensazione di impotenza che provava di fronte ai suoi occhi severi. La porta dietro di lei si aprì.

- Signorina Williams, è il suo turno - disse l'agente Donovan. Roxy si alzò, lanciò un'ultima occhiata a quella donna che stava entrando in bagno scortata. La verità in fondo era molto più tagliente e potente della sua onda. Mentre percorreva quegli ultimi scalini, aiutata dall'agente dell'FBI, le sembrò di rientrare in quella cella: vedeva le pareti attorno a sè come se fossero reali, come se potessero oscurare la stanza. Il lettino scomodo, sdrucito; gli aghi, le flebo, le urla di Michael e di Jacob. Il terrore nei loro occhi ogni volta che il passo di quella donna col lento incidere leggermente claudicante si faceva largo nel corridoio. Il cibo liofilizzato, quel camice ogni giorno più sporco. Sangue, dolore e lacrime. L'aria che le mancava quando si svegliava la notte, intrisa di sudore. La paura nel vedere le guardie passare armate. La colpa per non aver fermato Jacob e la solitudine perché ora la sua cella era vuota e non aveva più nessuno con cui parlare, con cui condividere il suo dolore.

Non era stata la leucemia a bruciarle un polmone e quello poteva dirlo senza timore di giurare il falso. Non era stata la leucemia ad aver ucciso Roxanne Williams. Roxy ora era solo una fuggitiva, senza documenti, una ragazza scomparsa tra tante di cui il mondo si era dimenticato, ma non quel giorno. Quel giorno l'avevano vista tutti. Aveva mostrato loro il suo dolore e per quanto si sentisse ora così vulnerabile e fragile, forse Kathy aveva ragione: era l'unico modo in cui potessero capire quello che aveva passato, quanto quella donna le aveva portato via. Non c'era modo per riaverlo indietro, ma se poteva fare in modo che altre ragazze come Kathy non dovessero rinunciare ai loro sogni per un gene sbagliato, ne valeva pena, era pronta e lo sarebbe stata. Avrebbe mostrato le sue cicatrici invisibili, quello più crude, che portava solo dentro di sé. Prese alcuni profondi respiri e poi senza osare togliere la maschera, con la voce che era poco più che un sussurro, nel silenzio più totale, fissò quelle persone in attesa fremente davanti a lei e disse soltanto: "Mi chiamo Roxanne Williams e questa... è la mia storia ...".


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