.3 - Il Vero Amore
TW: contenuti espliciti.
A Maximilian era familiare quella sensazione.
Quando era più giovane passava giorni in quello stato.
La testa leggera, il corpo pesante.
Le sue membra un'ancora a cui la sua coscienza, e forse il suo spirito, si agganciavano nella vana speranza di non andarsene per sempre.
La gente gli parlava, gli chiedeva favori, servizi, ascolto, ma lui non c'era.
In quei periodi, era da tutt'altra parte, in un posto buio, sconnesso dalla vita come se la ricordava.
Finiva in una strana spirale di auto alienazione da non riuscire a distinguere la sua mano destra da quella sinistra.
Da non riconoscersi allo specchio.
Da non ricordare il suo nome.
Da non riuscire a capire se, tutto quello che lo circondava, fosse reale oppure frutto della sua immaginazione.
Erano mesi, forse anni, che Maximilian non si sentiva in quel modo.
Che quei brividi freddi gli percorrevano la spina dorsale.
Che la pelle gli si accapponava e i denti digrignavano.
L'ultima volta era stata la peggiore.
La notte in cui suo padre era morto era impressa a fuoco nella sua memoria.
All'epoca lavorava ancora personalmente al Rubino, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno e notte, ininterrottamente. Un circolo vizioso di morte e rinascita in cui l'unica luce era quella del piccolo spiraglio della finestra serrata. Un vortice nero che gli toglieva il fiato.
La gente che veniva a trovarlo in quella prigione, ancora stigmatizzato dal ricordo che la gente aveva dei servizi di sua madre, non si poteva contare sulle dita di una mano, né di due, né di tre. Maximilian aveva perso il conto delle persone che aveva servito appena dopo poche settimane, sempre alticcio a causa dei fumi o ubriaco da non reggersi in piedi. Ai tempi gli andava bene così: il solo pensiero di dover fare i conti con la cruda realtà dei fatti gli sembrava una condanna ben peggiore di dover rimanere sobrio. Tutto quello che voleva era dimenticare, seppellire tutto sotto uno strato di indifferenza marmorea.
Con tutte le mani che lo toccavano, lo desideravano, lo cercavano, lasciarsi andare a quella sensazione di distacco era l'unica cosa che lo teneva in piedi, che lo faceva alzare dal letto e che gli permetteva di non scomparire nel suo stesso oblio. Se non poteva riconoscersi, tracciare i confini fragili del suo corpo e mettere a fuoco il luogo dove aveva passato tutta la sua infanzia, allora, di certo essere usato come un oggetto era l'ultimo dei suoi pensieri.
Maximilian aveva iniziato a prostituirsi da giovanissimo. Il giorno in cui lo avevano messo nell'ultima stanza del Rubino, la più lontana dall'entrata per evitare pettegolezzi o curiosi, era ancora un bambino, un ragazzino che ancora rimpiangeva di non poter correre nei campi, osservare i conigli e rubare le uova alle galline. Nonostante ciò che gli era stato tolto e il tempo che era trascorso, si ricordava ancora bene il ghigno sul volto del primo uomo che gli aveva messo le mani addosso. I calli ruvidi sui palmi, l'alito cattivo, il suo desiderio irrefrenabile di essere il primo a far ciò che tutti, a Vaska, volevano fare.
Non si ricordava il suo nome, non l'aveva mai voluto sapere.
Rammentava solamente gli anelli d'orati e i vestiti lussuosi che strisciavano a terra.
La scia di profumo mischiato con l'alcol.
Maximilian aveva fatto quello che aveva dovuto, senza un lamento.
Sua madre soddisfatta, i soldi assicurati per campare ancora fino all'inizio dell'inverno.
I polsi gli avevano fatto male per giorni, ma mai si era lasciato sfuggire una sola lacrima.
Dopo quell'uomo ne vennero altri.
E altri.
E altri ancora, sempre di più.
Giovani, anziani, ragazze non ancora promesse spose, vecchie che volevano sentirsi giovani ancora una volta. Maximilian aveva visto il volto di chiunque, a Vaska. Dai più ricchi ai più giovani, ai più gentili ai più crudeli. Nessuno escluso.
La capitale era sempre stata così: lurida fino alle viscere, proprio come i suoi abitanti.
Passò poco prima che capì che nessuno sarebbe venuto a salvarlo. Ci volle il primo violento a ricordargli che la sua vita era e sarebbe stata solamente quella, sempre che non si fosse rimboccato le maniche e si fosse dato una svegliata. Una settimana dopo, aveva già iniziato a nascondere i soldi sotto il materasso e accogliere più gente che poteva. Non voleva dover perdere tutto ciò che guadagnava per ripagare ciò che sua madre spendeva.
Ben presto crebbe, sia in astuzia che in bellezza.
I suoi occhi chiari, penetranti anche dall'angolo opposto della stanza, incatenavano i più maliziosi e facevano arrossire i più inesperti. I capelli corvini mossi, lunghi e profumati d'oli aromatici gli ricadevano sulle spalle larghe e muscolose. Poteva essere chiunque, in qualsiasi momento lo avesse voluto. Il cliente chiedeva, e lui eseguiva. Una busta piena di soldi e i desideri più reconditi di chiunque venivano esauditi senza un fiato. Bastava uno schiocco delle dita e lui era in ginocchio, pronto a bere veleno da chiunque glielo avesse offerto.
Negli anni aveva assunto molti nomi.
Nemes.
Iulia.
Maryannes.
Iacobyo.
Ma il suo preferito sarebbe comunque rimasto quello con cui poi tutti lo avrebbero ricordato.
Il barone.
Si era fatto strada a calci e pungi risalendo dai bassi fondi e nessuno, nemmeno lontano com'era dalla capitale, gli avrebbe potuto strappare quel titolo.
A quattordici anni aveva messo da parte abbastanza soldi da sfamare i suoi genitori e potersi togliere qualche sfizio. Qualche vestito, qualche arma, qualche amico, sempre che la vera amicizia si fosse potuta comprare con delle monete d'oro.
Maximilian non aveva niente, se non quella mazzetta di soldi che si ostinava a contare tutte le sere in modo ossessivo e dannatamente sconsolato.
Chi lo aveva conosciuto all'epoca non gli avrebbe dato molto peso al di fuori di quella stanza buia. Lo sapeva bene: era un sedicenne che non aveva istruzione, non aveva un posto da chiamare casa, delle persone da cui poter tornare e sentirsi al sicuro.
Aveva iniziato a non uscire più alla luce del sole, sempre rinchiuso nella più recondita stanza del bordello con gli occhi offuscati e la memoria andata a puttane. Quando ci ripensava, la maggior parte di quegli anni non li ricordava affatto. Era tutto un unico grande punto di domanda. C'erano solo soldi, droga, alcool, altri soldi e qualche sospiro strozzato qua e là quando nessuno poteva sentirlo. I muri del bordello erano diventati la sua vita, i clienti la sua famiglia e i soldi la sua speranza.
A diciassette anni aveva accumulato abbastanza da potersi finalmente comprare il locale. Quel giorno, grazie a quel contratto che aveva fatto controllare minuziosamente più e più volte da più persone, non sarebbe stato come tutti gli altri, perché si sarebbe svegliato da re e non più da schiavo. Nessuno, tutti stupidi com'erano, avrebbe osato avere nulla in contrario. C'era sì stato qualche malcontento, ma Maximilian era stato furbo: aveva raccolto consensi prima di avanzare la richiesta al padrone del posto. Giyo era infatti stato contento di lasciare il posto in mano a lui, qualcuno che sapeva bene come le cose girassero in quel cesso di città.
Il giorno della firma, Maximilian avrebbe solo dovuto soddisfare le lussurie di un'altra manciata di persone e poi, finalmente, allo scoccare della mezzanotte il suo nome sarebbe stato inciso sulla porta d'entrata del bordello. Avrebbe potuto smettere di prostituirsi, di stendersi davanti al primo interessato e, magari, trattare i suoi sottoposti in modo più umano, non come ratti infetti da cui stare alla larga, proprio come era invece stato trattato lui. Da un certo punto di vista, le cose andarono per il verso giusto ma, da un altro, precipitarono rovinosamente fino a schiantarsi al suolo.
Erano le cinque del pomeriggio quando una ragazza minuta spalancò la sua porta senza bussare. Con i piedi scalzi e la fronte sudata si precipitò dentro senza invito e supplicò Maximilian di seguirlo. All'inizio, il ragazzo pensò solamente che qualcuno di importante lo cercasse, o che qualcuno, come al solito, fosse svenuto e avesse lasciato il suo nome come sostituto per il servizio che sarebbe spettato a lui. Ovviamente, niente di ciò accadde.
«Ilyan» gli aveva detto senza fiato e con le mani tremanti la giovane. «É per tuo padre»
I suoi occhi non si staccarono da quelli della ragazza. Aveva ben chiaro che cosa fosse successo.
Ricordava che il suo labbro fosse iniziato a tremargli e le mani della persona sotto di lui ancora a stringerli i fianchi.
Saltò giù dal letto. Faceva freddo. Era inverno inoltrato.
Aveva la pelle d'oca, ma sentiva un caldo gelido che gli attanagliava le membra.
Abbassò lo sguardo e la seguì senza fiatare.
Ricordava solo i suoi passi frenetici sul selciato e poi il buio della sera.
Le urla di sua madre, il suo silenzio.
Erano le dieci di sera quando Maximilian rimise, ancora una volta, piede al bordello. Aveva lasciato sua madre a casa, il ricordo di suo padre steso a terra ancora nitido nella mente. Il focolaio dei Kastrov lasciato estinguersi da solo e la cena fredda che avrebbero dovuto mangiare i suoi genitori. Le stanze vuote della casa e le coperte gelide.
Maximilian non poteva fermarsi, aveva ancora dei clienti da soddisfare prima che quella giornata giungesse al termine. Sua madre infatti non lo fermò quando le diede le spalle e chiuse la porta di casa. Forse sapeva che cosa stava per fare: il progetto che presto sarebbe diventato anche il suo, sangue del suo sangue, era l'unica cosa che in quel momento teneva svegli entrambi. Tutti e due avevamo lavorato il quel bordello per anni e quel posto, volenti o nolenti, avrebbe fatto parte di entrambi anche dopo che Maximilian lo avesse comprato e fatto suo.
Quando si incamminò nuovamente verso il centro di Vaska, la ragazza che era venuto a cercarlo lo salutò all'entrata del locale. Gli disse qualcosa e provò a fermarlo, ma lui tirò dritto. Aveva i soldi che avrebbe dovuto dare al padrone nella tasca dei pantaloni, arrotolati e chiusi con un cordino di metallo. Non era certo che suo padre sarebbe stato d'accordo con quello che stava per fare, ma rimaneva forse l'unica cosa da concludere, almeno per navigare in quel lurido buco di città.
Percorse in silenzio il corridoio e aprì la porta della stanza che aveva lasciato solo qualche ora fa.
Una donna era già sdraiata nel letto.
La gonna tirata su e gli occhi languidi.
«Sono ore che ti aspetto. Che fine aveva fatto?» gli chiese. «Non ti pago così profumatamente per farmi aspettare»
Maximilian di lei si ricordava bene. Era la signora Oderny, la moglie del contabile di Vaska, l'uomo che aveva incontrato qualche tempo prima proprio per stilare il contratto che avrebbe firmato, da lì a poco. Era già stata da lui. Suo marito era a qualche stanza di distanza, ignaro, o forse no, di ciò che stava accadendo proprio sotto i suoi occhi.
Era una bella donna, sulla cinquantina. Aveva lunghi capelli biondi. Quella sera li portava sciolti, liberi di vagare tra le lenzuola che un tempo erano state bianche. Maximilian rimase a fissarla per qualche istante, incapace di muovere un muscolo o dire qualcosa, qualsiasi cosa, anche la più semplice.
«Allora?» gli chiese ancora la donna. «Cosa diamine stai aspettando? Devo farti licenziare forse? Se fai così non diventerai certo un buon capo per questo posto...»
Maximilian sbatté le palpebre e strinse l'ultima volta i soldi che aveva in tasca.
Lo stava facendo per una vita migliore, perché il suo corpo potesse tornare ad essere il suo.
Ci volle un attimo e si ritrovò di nuovo tra le lenzuola.
Lei gli si fece subito più vicina. «Non mi chiedi se mio marito sa di questa piccola incursione?»
Maximilian questa volta abbassò lo sguardo. Aveva un nodo in gola, non riusciva a pensare. «Finché sarò in grado di accontentare i tuoi di desideri, questo sarà tutto ciò che pretendo di sapere»
Lei gli sorrise maliziosa. «Hai imparato in fretta» gli prese il mento tra le dita. «Sei sempre così assertivo...come piace a me»
Maximilian le passò un braccio intorno ai fianchi. Il suo cuore batteva all'impazzata nel petto. Gli mancava il respiro. Ad un tratto gli sembrava che la sua vita fosse stata tutta completamente un errore.
«Mio marito è a conoscenza di ciò che facciamo sai?»
Gli passò una mano calda guantata lungo il bordo dei pantaloni.
«Vorrei vedere la sua espressione quando ti vedrà entrare in quella stanza per firmare il contratto»
Deglutì a fatica. La vista aveva iniziato ad annebbiarglisi.
Aveva sbagliato tutto.
Che cosa aveva fatto di sé stesso?
Forse sarebbe dovuto scappare, lasciarsi tutto alle spalle.
«Ma così è tutto più eccitante» continuò lei, cercando di riportare la sua attenzione a quello che stavano per fare. «Ripenserò a questo momento quando me ne sarò tornata a casa. Guarderò mio marito negli occhi sapendo di aver finanziato la nascita di un nuovo barone in città»
Lei si mise a ridere, stuzzicandogli il collo con le labbra e mordendogli il lembo di pelle dietro all'orecchio. «Spero che ti ricorderai di ciò che ho fatto per te»
«Si, signora»
Aveva disgusto di sé stesso.
Si sentiva sporco, sudicio.
«Quante persone ti sei fatto per arrivare ad una cifra simile? Devono essere parecchie...» gli chiese ancora. «Mio marito dice che la vostra è una delle migliori transazioni che ha visto negli ultimi cinque anni»
Maximilian alzò il volto e la guardò nella speranza non gli chiedesse davvero di rispondere. Nemmeno lui sapeva la cifra esatta.
«No, non dirmelo» lo fermò prima che potesse aprire bocca. «Non sono sicura di volerlo sapere»
«Come preferisce, signora»
«Diamine come sei bravo...»
Alle fine, qualsiasi fossero stati i ripensamenti, Maximilian firmò, forse per codardia o forse per paura. Che cosa avrebbe altrimenti detto di lui la gente, andandosene?
Le sue dita instabili sulla penna d'oca scrissero una delle poche cose che conosceva, il suo nome.
Maximilian Kastrov.
Barone di Vaska.
Il marito della signora Oderny aveva stretto le mani ad entrambi, a lui e all'ormai vecchio padrone del bordello.
Alla cifra stabilita si era aggiunta una piccola somma per il tramite, ma tutto andò per il verso giusto.
Tutto, tranne una cosa, ovviamente.
Il suo cuore si perse nell'oscurità.
Da quel giorno Maximilian trattenne il respiro come se fosse sott'acqua, con i polmoni pieni di un liquido nero e torbido. Aver comprato il bordello era forse stato un errore peggiore di aver venduto il suo corpo per una manciata di spiccioli.
Molto probabilmente avrebbe dovuto ripagare il suo peso in oro per rimediare ad una vita buttata all'aria. Per trovare qualcuno che non lo avrebbe visto solamente come uno straccio usato. Per rendersi conto di quanto ancora doveva guadagnarsi per essere una persona migliore, per sé stesso e per chi lo circondava.
Mentre Maximilian osservava Amos muoversi nella tenda del campo Morigh, il ricordo di tutto ciò che aveva commesso, di tutti i suoi sbagli, di tutti gli errori, gli riaffiorò nella mente come un ceffone sulla guancia. Le immagini erano limpide, nitide nella sua memoria. Rammentò come tutto in lui fosse fuori posto, sbagliato, rotto. Firmato il contratto, rimase fermo immobile nel salone d'entrata del locale per almeno un paio d'ore, senza far nulla, solo a fissare il vuoto nella vana speranza di trovare il capo della matassa. Si vedeva osservare le pareti che lo avevano ospitato durante quegli anni, le stanze e i mobili come se non le avesse mai viste. Erano le uniche cose che lo avevano tenuto ancorato alla realtà dei fatti senza crollare.
Sua madre era stata al bordello prima di lui.
Lui probabilmente ci sarebbe morto senza mai uscirne.
In lui qualcosa si era irreparabilmente spezzato, quella sera. Si era condannato ad una esistenza da cui non sarebbe più potuto scappare. Sarebbe, per sempre, stato conosciuto come il figlio della puttana più richiesta di Vaska. Solo un bel corpo, e quando anche quello sarebbe sparito, neanche più quello.
Il giovane ragazzo che era venuto per curargli la spalla non aveva nulla in comune con Maximilian, né l'aspetto, né probabilmente tantomeno il passato. Aveva un sorriso dolce, i capelli ricci tagliati a regola d'arte gli coprivano un po' gli occhi color cioccolato e sembrava buono, affabile, gentile. Aveva qualche lentiggine scoperta dal sole e mani ferme e abili, calde. Stava preparando un unguento, o qualsiasi cosa fosse la roba con cui stava armeggiando, e cercava di intavolare una conversazione per alleggerire la tensione. La sua voce era tranquilla, come se conoscesse tutti i suoi segreti senza però darlo troppo ad intendere.
Maximilian non capiva perché il solo vederlo gli provocava una rabbia immensa.
Lo avrebbe passato a fil di lama, se gliene si fosse presentata l'occasione.
Nonostante tutta la buona volontà che Maximilian ci stava mettendo, non riusciva a vederlo nel verso giusto.
Troppo buono.
Troppo bravo.
Troppo tutto.
Non lo odiava certo, o forse non ancora, ma era un monito vivente di tutto ciò che sarebbe potuto diventare, che sarebbe dovuto essere.
Dolce.
Amichevole.
Amabile.
Era forse ciò che Arlo cercava?
Era questo che Arlo non aveva trovato in lui?
Perché si dilaniava tanto al pensiero che quel principe lo avesse respinto? Che lo avesse tradito? Aveva forse ragiona Aldair? Era solo un gioco quello a cui stavano giocando? Ci era cascato come uno stupido e ore ne pagava l'amaro prezzo?
Maximilian si domandava se le persone, conoscendo la sua storia, il suo vero retaggio, lo reputassero inferiore a loro, una persona da usare e di cui disporre come meglio si voleva per poi abbandonarla come una pezza sporca.
Si chiedeva se mai qualcuno lo avrebbe potuto guardare nello stesso modo in cui Amos guardava Arlo.
Si chiedeva se tutto il marcio che si portava addosso lo avrebbero reso miserabile per l'eternità.
Se Vaska, oltre ad averlo marchiato a sangue, avesse segnato anche la sua anima.
Si chiedeva se avesse dovuto rimanere da solo, a piangere ciò che si era sottratto con le sue stesse mani.
Si chiedeva se Amos amava Arlo nello stesso modo in cui lui desiderava donare affetto e fedeltà.
Si rendevano felici a vicenda?
Aveva sempre avuto ragione sua madre, Maximilian non era mai stato una brava persona.
Era forse per questo che Arlo lo odiava così tanto? Perchè era così diverso da Amos?
Maximilian, per primo, aveva perso il potere. Per secondo aveva perso il controllo. E ora aveva perso di nuovo le redini di sé stesso.
Non era mai stato perché era un Thefuel il vero problema tra di loro. Il vero ed unico problema era che Maximilian si era prostituito per tutta la sua adolescenza, allontanandosi completamente da ciò che un vero Brylast sarebbe potuto e essere. Sotto questa luce, nessuno avrebbe voluto stargli accanto, tantomeno un principe come Arlo.
Come avrebbe potuto, un nobile dal sangue blu, guardarlo con dignità? Come avrebbe potuto Arlo conversare con lui senza sentire il fetore che emanava il suo corpo?
Forse le depositarie si erano sbagliate, lui non era mai stato diverso dai cittadini di Vaska come invece aveva sempre pensato, sperato. Non era diverso da Jord, non era diverso da Riain e tanto meno non era diverso dai suoi genitori.
Era semplicemente molto peggio di tutti gli altri, il discendente di una dinastia dal sangue nero.
Forse tutto quello che avrebbe dovuto fare, tutto ciò che lo avrebbe finalmente reso libero, era abbracciare la sua vera natura.
Allontanarsi da tutto e da tutti e diventare ciò che Dixtr voleva per lui.
Essere il nuovo usurpatore.
Terminare ciò che la sua linea di sangue, centocinquant'anni prima, non era stata in grado di fare. Creare un nuovo ordine su Icarys. Questa volta, sarebbe stato Maximilian ad avere il controllo su tutto, su tutti. Nessuno lo avrebbe più guardato dall'alto in basso, con disprezzo.
Al diavolo chiunque gli si fosse messo davanti.
Avrebbe fatto tabula rasa e sarebbe ripartito da zero.
Già che ci pensava su, non era nemmeno mai stato un vero vaskiano. Era solo il figlio bastardo di una famiglia reale che un tempo aveva governato l'isola. Il padre dei suoi padri veniva dal continente, non era nemmeno un abitante di Icarys. I suoi antenati, e compreso Maximilian stesso, per diritto, non avrebbero ereditato i doni degli dei. Non era mai stato destinato ad essere giusto, saggio, fedele o forte. Era un semplice e banale corpo da macello. Uno dei tanti. Uno di cui la storia si sarebbe dimenticato. Una nullità.
Aveva sprecato tanto tempo a convincersi del contrario che aver realizzato la cruda verità gli aveva aperto gli occhi, tutto d'un tratto. Forse, aveva iniziato per davvero a vedere le cose come stavano. A respirare a pieni polmoni. A comprendere la sua vera natura.
Ora capiva gli sguardi, le occhiatacce, i sussurri.
Doveva fargli schifo, ripugnarlo.
Da quel punto di vista, Maximilian non avrebbe potuto più contraddire Arlo, elemosinare una parola dolce, un trattamento alla pari. Non lo erano mai stati, uguali. Forse erano solo due nemici costretti ai lati di una battaglia senza fine che, per un po' di tempo, avevano finto di essere amici. Un principe e un bastardo. Un angelo e un diavolo. I sentimenti che aveva pensato di provare erano stati solamente un abbaglio, una vana speranza di redimere la sua anima da una infinita desolazione. Era stato un egoista, sempre concentrato su di sé e mai sugli altri per guardarsi allo specchio e rendersi conto di quante cose si era celato a sé stesso.
Maximilian sperava solamente che il distacco tra loro avrebbe curato almeno qualcuna delle sue ferite, perché restare a guardare sarebbe stato ancora più doloroso che dirgli addio. Era stato la prima persona ad avergli ricordato quanto avesse da sempre desiderato conoscere, comprendere, vedere che cosa ci fosse al di là della linea. Di apprendere ciò gli Heiligies avevano di diverso dai Theufel, parlare con loro, discutere con loro. Era stato, al tempo stesso, il suo salvatore ed il suo carnefice. Il giustiziere e la sua rivincita. Che sapore dolce amaro aveva avuto quella piccola parentesi, chiusa anche prima che Maximilian potesse scriverci dentro qualcosa.
Comunque fosse, era già tutto finito.
«Mi chiamo Amos» lo aveva strappato improvvisamente il ragazzo dai suoi pensieri, proprio poco prima che lo sopraffacessero. «Amos Dyries, sono il figlio del cuoco»
«Ciao, Amos» gli disse distrattamente. Il suo cuore gli pulsava nelle orecchie, le quali fischiavano all'impazzata come se volessero dirgli qualcosa. Quanto avrebbe voluto alzarsi e andarsene. Tutti quegli occhi e quei sussurri iniziavano a dargli fastidio, non solo quelli del ragazzo. «Come immagino già tu saprai, il mio nome è Maximilian Kastrov»
Lo accolse con un sorriso a trentadue denti.
I suoi occhi però dicevano tutt'altro, o perlomeno fu quello che Maximilian colse.
«Oh beh» replicò, passandogli un bicchiere d'acqua gelida. «Non volevo essere scortese»
Falso.
Diamine, gli avrebbe tirato un pungo in faccia.
Amos, dal canto suo, non sembrava infastidito, forse solo un po' insonnolito per l'ora tarda. «Ti sto preparando un unguento da mettere sulla ferita una volta che avremo estratto la freccia» spiegò, per poi sbadigliare e grattarsi il mento. «Ho paura però che i punti faranno un po' male»
Maximilian scosse il capo, gli sembrava di aver visto qualcosa alle sue spalle. Qualcosa si era mosso. Qualcosa di freddo, di buio che cercava di richiamare la sua attenzione. «Non c'è problema» replicò piatto. Forse un po' di dolore fisico lo avrebbe distratto da quello che aveva intenzione di fare. Scappare? Restare? Era più propenso per la prima. «Va bene così»
«Sicuro?» gli domandò ancora Amos, iniziando a blaterare sulle sue doti da medico e delle sue conoscenze delle erbe. A detta sua aveva studiato a Phioras, prima di tornare dai Morigh e la sua famiglia. «Possono prepararti un infuso per il dolore, abbiamo alcune erbe per desensibilizzare la pelle che fanno effetto quasi immediatamente»
Maximilian guardò nuovamente alle spalle di Amos.
Qualcosa si era mosso per davvero. Era come cercare di capire dove si fossero nascosti i topi. Al Rubino si nascondevano dentro le intercapedini delle pareti, riuscendo, sempre e comunque, a non farsi trovare, né dai gatti, né dalle persone. Qualcosa si stava facendo beffe di lui, questo era certo: non sapeva cosa, ma era sicuro ci fosse. I suoi nervi si erano rizzati e i peli delle braccia con loro: si sentiva osservato, scrutato da un angolo che non riusciva ad individuare.
Amos interruppe il suo sproloquio, forse rendendosi conto che Maximilian aveva smesso di ascoltarlo. «Che cosa stai guardando?» gli domandò curioso.
«Nulla» tagliò corto. «Lascia stare l'unguento»
Scattò in allerta. Aveva sentito chiamare il suo nome. Maximilian.
«Siamo solo noi due nella tenda?» domandò. «Qualcuno è rimasto fuori per controllarci?»
Amos si voltò dietro di lui per guardare lui stesso. «No, non c'è nessuno» rispose, cambiando espressione. «C'è qualcosa che non va?»
Arlo lo amava?
Maximilian di certo lo odiava.
«No» rispose nel vano tentativo di diminuire la sua angoscia. «Va tutto bene»
Amos si voltò ancora. Poi tornò a guardare Maximilian, coi gomiti puntati sul letto. «Stenditi, per favore» concluse, stabilendo che tutta quella preoccupazione fosse infondata. «Così potremo andare tutti finalmente a dormire»
Nonostante lo avesse liquidato in fretta, Maximilian sapeva comunque che qualcosa non tornasse. Aveva una strana sensazione, come se si trovasse sull'orlo di un precipizio e qualcuno lo stesse per buttare di sotto. Come se qualcuno gli stesse sussurrando all'orecchio di fare qualcosa che non voleva fare.
Con un grosso peso sul torace, lasciò perdere e fece come gli fu detto. Non voleva aumentare la palese agitazione che già si poteva percepire. Appoggiò la testa al cuscino e lasciò che Amos finisse di disinfettarsi le mani con una bottiglia in vetro di alcool.
Quest'ultimo emise un sospiro, come se fosse, in effetti, finalmente pronto a parlare liberamente. «Poco prima che tu ed Arlo arrivaste alla culla di Dyron, Sasha ha fatto un discorso a tutti i Morigh» iniziò, con un tono quanto sommesso quanto allusivo. «Mi ricordo il suo sguardo, infuocato ma anche intimorito. Cerva di trovare le parole giuste per indorare la pillola. Forse semplicemente non sapeva cosa dire, non lo so, ma era convinta che con ciò che era successo alla cerimonia di iniziazione a Phioras, e anche con le voci che giravano da Vaska, qualcosa sarebbe irreparabilmente cambiato»
Si fermò solo per un attimo massaggiandosi il ponte del naso. Era ovvio si fosse preparato il discorso, chissà da quanto tempo aspettava di poter da sfogo a sui pensieri. Ora che aveva Maximilian davanti agli occhi, sembrava voler disporre di lui come meglio gli piaceva. «Sai cos'è successo a Phioras, giusto?» chiese angelico.
Sapeva bene che Maximilian non sapesse, e glielo stava facendo notare.
Amos sorrise, avvicinandosi di qualche passo per prendere posto davanti a lui. «Di certo la prima scelta di Arlo non è mai stata quella di mettere piede nella linea, non dopo quello che gli hanno fatto...»
Lo fissava divertito.
Quello sguardo gli ricordava quello di suoi padre.
Gelido, immobile, irremovibile.
Aveva avuto ragione su di lui fin dal primo momento in cui lo aveva visto.
«I suoi occhi...» continuò guardandolo dall'alto in basso. La sua ombra gettata contro la tenda sembrava essere viva. «Non ti sei mai chiesto come li abbia persi?»
«Non sono affari miei» rispose subito Maximilian. Le loro ombre parevano danzare, cambiare forma, allungarsi e rimpicciolirsi senza un preciso criterio. «E tu non dovresti parlarne in questo modo quando lui non c'è»
«Se non sono troppo scortese...» cantilenò compiaciuto. «Ho paura che tu abbia ragione, non sono affari tuoi»
Maximilian alzò un sopracciglio. «Credi che sia tornato per te, è questo che ti racconti?»
«Di certo non lo ha fatto per uno come te»
Maximilian aprì la bocca per rispondere, ma qualcosa lo fermò. Le sue pupille si fecero piccole e il rumore del suo cuore che batteva coprì il baccano del campo, compreso il borbottare di Amos. «Quindi è lui?» chiese qualcuno. «Hai fatto un buon lavoro Xandra»
Amos gli schioccò due dita davanti al volto, ma nemmeno quello funzionò.
«I tuoi compaesani di Vaska ti hanno cacciato e ora sei qui a portare sciagure sul nostro popolo»
Era lei. Era tornata.
«Ormai lo sanno tutti di come la tua città di abbia trattato alla cerimonia» sentì Amos dire lontanamente. «Pensi che elemosinare aiuto agli Heiligies ti permetta di tornare alla capitale come se nulla fosse?»
Xandra.
Alexandra.
C'era un sottile velo che li divideva, ma entrambi potevano percepire e, allo stesso tempo, percepirsi. A Maximilian sarebbe bastato allungare una mano per sentire la sua presenza. La sua figura tremolava alla luce delle fiamme e i suoi occhi non cercavano i suoi, anzi. Erano sfuggenti, schivi, come se aver portato le ombre in quel posto fosse stato un gravissimo errore. Si vergognava? Perché provava tutto quel rimorso? Maximilian poteva sentire il suo dolore anche dall'altra parte della stanza.
«Concludi questa storia e potrai tornare al Nord, come ti aveva promesso»
«Anche Phioras conosce il grande barone, con la sua anima nera quanto il suo corpo sudicio»
Maximilian sussultò.
Tornare al Nord?
«O lo farà lui con le sue stesse mani, o sarai tu a pagarne il prezzo al posto suo. Sono stufo di aspettare» disse quel qualcuno. Maximilian lo osservava, nascosto negli angoli della tenda. Non si mostrava, ma sembrava incarnare tutto ciò a cui aveva cercato di resistere per tutta la vita. Impersonificava una dicotomia vivente, un punto di domanda a cui gli uomini, nella propria vita, avrebbero dovuto rispondere: era il male, ma allo stesso tempo anche il bene. Senza di lui, ma anche con lui, tutto avrebbe avuto senso e, nello stesso modo, non lo avrebbe avuto affatto.
Maximilian sapeva chi fosse, forse lo aveva saputo nel momento stesso in cui gli era apparso per la prima volta. Era tutto diventato più chiaro, in quel frangente. L'unica questione ora era capire che strada avrebbe intrapreso: l'autodistruzione o la sopravvivenza? La salvezza o la dannazione eterna?
Alexandra guardava le assi di legno del pavimento della tenda. Stringeva le dita intorno all'elsa della sua spada e cercava in tutti i modi di rimanere immobile. Non provava più angoscia, solo tristezza, ma non per sé stessa, bensì per Maximilian. La ragazza sapeva bene che qualcosa stava per succedere, e qualsiasi cosa fosse stata, era certa che non sarebbe stato un bene per nessuno. «Mio signore» disse solamente, per poi guardarlo dritto negli occhi e voltargli le spalle. «Così sia»
Maximilian boccheggiò. Gli ci volle un momento per tornare cosciente, come se fosse scoppiata la bolla che li aveva avvolti e protetti. Era tutto tornato caldo, soffocante. La presenza di Amos intollerabile e il dolore della freccia conficcata nelle sue carni insopportabile.
«Te lo sei scopato?» gli chiese Amos acido, guardandolo in cagnesco e con superiorità. «Per questo sei ancora qui?»
Maximilian si tirò su a sedere. Scopato?
Alexandra li aveva lasciati soli. Se ne era andata.
«Sei così disperato da dovermelo chiedere?»
Amos lo fissava con odio non celato.
«Sarò anche un bastardo senza casa, ma dovresti decisamente parlarne con lui» lo esortò. «Ma probabilmente ti ha lasciato con un calcio in culo e la cosa ti rode ancora, perché altrimenti non sprecheresti fiato per cercare disperatamente certezze che non posso darti»
Diamine se gli stava montando la rabbia.
«Se ne è andato da qui, quanto? Mesi fa? Provi tutta questa rabbia solo perché non ti ha portato con lui? Perché ti ha scaricato qui, a Phioras. O povero, povero ragazzo. Fa male un cuore spezzato, non è vero? Quella sensazione dilaniante che ti lacera da parte a parte» alzò la voce, scandendo le parole come se stesse parlando direttamente a sé stesso, perché sì, quelle frasi cariche di rammarico erano per lui, non certo per Amos. «Una persona è ben cosciente quando decide di donare un pezzo di se stessa, ma la gente la considera comunque un egoista per non aver dato via anche le ossa. Tu sei qui, a guardarmi come se ti avessi sottratto dalle mani il bene più prezioso del mondo senza comprendere che è proprio lui a non volersi far trovare...»
Aveva centrato il punto.
Amos non aveva più quell'aria di altezzosità che aveva percepito solo qualche minuto prima.
«Li conosco i tipi come te, e anche i tipi come lui, sempre pronti a giudicare senza mai voltarsi a guardare chi hanno calpestato sulla loro strada» spiegò prepotentemente. «Non vi biasimo, sai? Ho sempre invidiato chi è in grado di fregarsene di tutto e di tutto»
«Non sai niente di ciò che abbiamo passato, non sai niente di lui»
«Mi sono scopato una marea di gente, scolato bottiglie e bottiglie di vino per chiudere fuori i pensieri e agito in modo deplorevole. Ho rubato, nascosto, sfruttato le persone per i miei tornaconti. Concesso favori, negato libertà e agito contro ogni logica umana» lo inclazò. «E lo sai che cosa ho ottenuto? Tutto questo schifo mi si è attaccato addosso e il rimorso, la consapevolezza di aver agito in quel modo, mi ripugna più di ogni altra cosa al mondo»
A Maximilian sembrava tutto così surreale da sentirsi libero di dire qualsiasi cosa gli passasse per la testa. «Ma se c'è una cosa, e gli dei mi siano testimoni, una cosa che non ho mai fatto, quella è alzare un dito su chi non vuole essere toccato» continuò. «Ha fatto bene Arlo ad andarsene e che non si sia concesso ad un così piccolo uomo»
Amos lo prese per il colletto, ma era chiaro che non avrebbe fatto più di quello. «Vattene da qui»
Maximilian piegò il collo di lato come per soppesare le opzioni.
Non disse nulla, almeno per un momento. Le sue gote rosse percepivano il freddo della notte e l'afa del fuoco. Le sue dita, gelide e allo stesso tempo frenetiche, presero vita da sole, pronte ad agire per conto proprio. Sentiva gli occhi delle ombre su di lui, in attesa di una sua mossa. Non alzò lo sguardo su Amos quando la sua pelle si lacerò e i suoi vestiti si sporcarono di sangue fresco. Un dolore limpido e amico lo liberò dalle ultime inibizioni. I polmoni inspirarono ed espirarono.
La pungente sensazione del dolore, mischiato con quello vecchio affondato e dimenticato, gli sembrò una liberazione, un passo avanti insormontabile. Il suo corpo, assopito dal torpore dei suoi pensieri, si risvegliò e riprese possesso di sé stesso. Maximilian si guardò le mani, rosse vive, ora ferme e decise. Una di esse teneva stretta la freccia e l'altra cercava di fermare il fiotto di sangue. Quando comprese ciò che aveva fatto, e la sofferenza mentale riprese il posto di quella fisica, si decise a dire qualcosa. «Spostati» sussurrò composto.
«Prego?» Amos lo guardava inorridito.
«Ho detto di spostarti»
Il ragazzo fece un passo indietro ma non cambiò idea. «No»
Maximilian si mise a ridere. I suoi polmoni dolevano, ma non gli importava. Il suo corpo era in fiamme, ma non gliene importava. La sua mente appannata e il suo cuore avvizzito non provavano più niente. «Vuoi morire?»
Amos non rispose e si piazzò davanti l'uscita della tenda. «Che cosa vuoi fare?»
Maximilian gli si avvicinò, puntandogli la freccia al suo cuore. «Tutto ciò che sarà necessario per toglierti di mezzo» replicò, punzecchiandogli la pelle da sopra la camicia con il metallo della freccia. «Sta a te decidere se dovrò usare le buone o le cattive maniere»
I muscoli di Amos ebbero uno spasmo teso sotto i suoi «Non lo faresti»
«Certo che lo farò» rispose calmo.
Era sparito tutto, spazzato via in una manciata di secondi. Vaska, la linea, la sua vita sembravano così lontane, così insignificanti. Maximilian provava solo rabbia, disgusto e dolore. Tutto ciò che pensava di avere, di provare, di sapere erano scomparse, non era rimasto più nulla. Osservò per un attimo Amos, mentre le sue mani lo stavano tenendo fermo. Era così giovane, così innocente. La punta delle freccia gli toccò il collo e un rivolo rosso gli scese fino alla spalla. «Dov'è Coriolano?» chiese.
Amos cercò di sottrarsi dalla sua presa, ma le mani di Maximilian lo avevano intrappolato come nella ragnatela di un ragno. «Dove lo tenete?»
Scosse il volto. Era spaventato.
«Dov'è?» urlò Maximilian scuotendolo.
Maximilian gli mise la mani intorno al collo.
Amos trattenne il respiro, diventando paonazzo. «Cosa vuoi da lui?»
«Voglio che implori pietà, come farai tu fra qualche istante se non ti decidi ad aprire la bocca»
Il respiro affannato di entrambi riempiva la tenda. Nessuno dei due voleva lasciare la presa.
Maximilian soppesò le parole. «Poi passerò al re, e a chiunque, su questa fottuta isola del cazzo, abbia qualcosa da dire in contrario»
«E Arlo?»
Il cuore gli si fermò per un attimo. Sentiva la sua coscienza venire meno, insieme al sangue che stava perdendo. Non voleva fargli del male, non voleva far del male a nessuno, ma non riusciva a pensare ad altro che alla vendetta, al suo bisogno di avere risposte, di sapere che cosa gli stava succedendo, di capire quale direzione dovesse prendere per far sì che tutte quelle sensazioni cessassero. «Fammi passare» disse nuovamente. Il suo tono di voce si era fatto più flebile, quasi come se volesse inconsciamente celare che quel ragazzo fosse il suo punto debole.
Amos si limitò a fissarlo. Aveva perso ogni traccia di superbia.
Maximilian gli lasciò libero il collo e il ragazzo riprese a respirare in modo normale. per poco non ci sarebbe rimasto secco.
Maximilian raccolse la sua roba sotto il suo sguardo. Il libro di Nives e il coltello.
«Dov'è Coriolano?» chiese di nuovo.
«Se te lo dico te ne andrai da qui?»
Annuì. «Allora? Dov'è?»
Sembrò esitare, ma forse l'idea di toglierselo di torno sembrava più allettante di preservare la sua dignità. «Nella tenda di Sasha» esalò tossendo. «All'inizio del campo»
Angolo autrice.
Quanto ci ho messo a scrivere questo capitolo? Una vita, ma ce l'abbiamo fatta!
Posso dire che vorrei dare il mio sostegno morale a Max? Si, lo dico!
Alla prossima!
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro